Che il direttore generale fosse
una figura poco utile ma molto costosa per gli enti locali lo ha certificato lo
stesso legislatore, quando l’ha soppressa nei comuni con popolazione inferiore
ai 100.000 abitanti (cioè, la stragrande maggioranza) mediante l’articolo 2,
comma 186, lettera d), della legge 191/2009, modificato dall'art. 1, comma
1-quater, lett. d), della legge 42/2010.
La sentenza della Corte dei
conti, Sezione regionale di controllo per la Puglia 20 novembre 2017, n. 483, fornisce adesso
una serie di argomentazioni (per altro da sempre sostenute da chi scrive) alla
luce delle quali argomentare sulla poca utilità della figura introdotta con
poche lungimiranza e ponderazione dalla legge 127/1997.
La sentenza è una condanna
all’amministrazione provinciale di Foggia, per aver assegnato l’incarico di
direttore generale a un pensionato. Le argomentazioni del collegio giudicante
poste a privare di sostegno giuridico le deduzioni della difesa rappresentano
una summa deli errori/orrori che
hanno caratterizzato per anni la configurazione del direttore generale negli
enti locali, e l’evidenziazione, invece, della sua sostanziale futilità.
Direttore generale non è organo di governo. Le difese dei
convenuti, per evitare la responsabilità, hanno manifestato la teoria secondo
la quale sarebbe stato possibile incaricare un pensionato legittimamente, per
la semplice ragione che il direttore generale sarebbe figura posta al di fuori
delle disposizioni sulla dirigenza e, quindi, non un dirigente, bensì un organo
di governo vero e proprio.
L’impostazione della difesa non
stupisce. Nella prassi, infatti, si è verificato più volte che certe
amministrazioni abbiano assegnato gli incarichi di direttore generale come vero
e proprio “assessore aggiunto”, violando totalmente la normativa contenuta nel
d.lgs 267/2000 ed il principio di separazione tra politica e gestione. Infatti,
sono stati nominati direttori generali di chiarissima matrice politica, per
esercitare indirizzo politico in ruoli, tuttavia, gestionali.
La sentenza della Sezione Puglia
non può che smontare la configurazione del direttore generale come organo di
governo, sottolineando indirettamente la profonda illegittimità di incarichi
politici sotto mentite spoglie, quali troppe volte si sono rivelati gli
incarichi di direzione generale.
L’articolo 108 del d.lgs
267/2000, ricorda la Sezione ,
esprime “il principio per cui il
direttore generale assolve ad una funzione di raccordo tra gli organi di governo
dell’ente locale e la dirigenza, ma i compiti attribuiti dalla legge al
direttore generale escludono che la sua funzione possa essere considerata
politica, spettandogli il compito di dare attuazione agli indirizzi impartiti (
e di perseguire gli obiettivi stabiliti ) dagli organi politici di governo
dell’ente sulla base delle direttive generali fissate dal sindaco o dal
presidente della Provincia. Il che
esclude, appunto, che il direttore generale possa essere considerato un “
organo di governo”, tanto più che – secondo la stessa norma – il direttore
generale sovrintende alla “ gestione “ dell’ente e, cioè, all’esercizio delle
funzioni attribuite alla dirigenza”.
Mera figura eventuale le cui funzioni spettano al segretario. Altra
inveterata prassi contra legem è
stata da sempre quella di considerare la figura del direttore generale come
indispensabile per la gestione “efficiente ed efficace” della macchina
amministrativa e per il coordinamento della dirigenza.
Nulla di più fuorviante. Sempre
l’articolo 108 del d.lgs 267/2000 è chiarissimo nel considerare l’incarico del
direttore generale come una mera facoltà, poiché le funzioni gestionali e di
coordinamento spettano già al segretario comunale, senza che allo scopo sia
necessario il conferimento di incarichi ulteriori al segretario medesimo.
La disciplina del direttore generale è quella della dirigenza pubblica.
Nella prassi, molte amministrazioni hanno dato configurazioni giuridiche molto
variegate alla definizione del rapporto col direttore generale, anche
vagheggiando la natura di consulenza o collaborazione esterna.
Si è non poche volte ritenuto che
il direttore generale non fosse propriamente un dirigente, sicchè non si
dovessero applicare le regole selettive e regolative del rapporto di lavoro.
Ciò in alcuni (isolati, ma tutt’altro che pochi) casi nei quali incaricati come
direttori generali sono risultate persone con la sola terza media o al massimo
il diploma superiore.
La “specialità” del rapporto col
direttore generale sarebbe sempre di matrice politica ed in particolare
discenderebbe dalla possibilità della sua scelta intuitu personae. Particolarmente ficcanti sono le obiezioni della
Sezione Puglia contro questo modo fuorviante di ricostruire le norme in tema: “Anche il giudice amministrativo ha affermato
che la figura del direttore generale è senz’altro assimilabile a quella del
dirigente, dal momento che il legislatore ha distinto gli organi di governo
dell’ente, cui spettano funzioni di indirizzo politico-amministrativo,
dall’insieme di coloro che hanno il compito di attuare le direttive degli
organi di governo e di sviluppare la gestione tecnica e amministrativa ( cfr.
T.A.R. Lazio, sez. II bis. 1.2.2001, n.1896). In particolare, si è affermato
che “ Non vale argomentare…dall’intuitu
personae che presiede alla scelta e nomina del direttore generale e dal
rapporto di fiducia che lo lega all’organo politico(…)” al fine di escludere la
natura dirigenziale delle funzioni spettanti al direttore generale ( in
termini, C.d.S., sez. 5, 3.10.2002, n.5216 ). Trattasi di posizione, inoltre,
largamente condivisa anche dalle Sezioni regionali di controllo, in sede consultiva
( ex multis, Sez. reg. Lombardia, 22.11.2006, n. 24). Ma v’è di più, in quanto
anche le Sezioni unite civili della Corte di cassazione, con sentenza n. 13538
del 12.6.2006, si sono pronunciate nel senso che il direttore generale è
investito di compiti e funzioni che sono tipici della figura dirigenziale,
sicchè “ è esso stesso un dirigente””. Nel caso trattato dalla sentenza,
oltre tutto, il contratto col direttore generale richiamava le norme sul lavoro
pubblico, sicchè la Sezione
si chiede “come possa tale contratto
considerarsi al di fuori della disciplina regolante il rapporto dirigenziale di
pubblico impiego”.
Le norme del d.lgs 165/2001 sulla dirigenza si applicano direttamente
agli enti locali. Altro errore comune, posto in essere tanto sugli incarichi
di direzione generale, quanto sugli incarichi a contratto, discende
dall’erronea opinione secondo la quale dette tipologie di incarichi esterni
siano regolate, negli enti locali, dalle speciali norme del d.lgs 267/2000 e
dagli statuti, risultando, di conseguenza, non applicabili le regole poste
dall’articolo 19 del d.gs 165/2001.
Anche questo assunto viene
smentito con vigore dalla Sezione Puglia: “Né
può ritenersi fondata la tesi sostenuta da alcuni difensori, secondo cui le norme di cui al D.lgs 165 del
2001, tra cui l’art. 19, in
materia di dirigenza, non trovino applicazione per la dirigenza degli enti
locali. Infatti sull’applicabilità agli enti locali della normativa generale in
materia di pubblico impiego e, in particolare, dei requisiti per l’accesso alla
dirigenza, è sufficiente ricordare come si è pronunciata la giustizia
amministrativa in una recentissima pronuncia, con riferimento proprio alle
norme in materia di pubblico impiego: “Tale disposizione, rivolta direttamente
alle amministrazioni statali, risulta applicabile anche alla dirigenza locale,
in virtù dell’articolo 88 del
d.lgs.267/2000, entrato in vigore il 13 ottobre 2000, aveva già esteso il
complesso di principi e disposizioni della legge quadro sul pubblico impiego (e
successive modificazioni) al mondo delle autonomie con una formula amplissima
«…all'ordinamento degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi
i dirigenti e i segretari comunali e provinciali, si applicano le disposizioni
del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni ed
integrazioni(…).”(così,C.d.S, Sez. 5, 28.5. 2012, n.3125)”.
Almeno altri due sono gli
elementi rilevanti della sentenza della Sezione Puglia. Il primo riguarda la
“responsabilità da parere” dei dirigenti e, in particolare, dei segretari
comunali. Aderendo ad un indirizzo della magistratura contabile, obiettivamente
criticabile, la sentenza accerta il permanere in capo al segretario comunale
del dovere di rendere su ogni deliberazione degli organi collegiali il parere
di legittimità, che, quindi, non risulterebbe abolito dalla legge 127/1997.
La sentenza così afferma: “Il segretario generale dell’ente locale e il
responsabile del servizio che abbiano orientato con il parere da loro espresso
la decisione degli organi politici, qualora tale decisione sia stata adottata
contra ius, ben possono essere chiamati
a rispondere del danno causato in concorso con gli amministratori, in relazione alla attività consultiva
illecitamente esercitata. Ha avuto modo di affermare la giurisprudenza
contabile, sul punto, per quanto concerne la responsabilità del segretario
generale dell’ente, in vicende analoghe a quella in esame, con orientamento
assolutamente costante: “ L’affidamento, alla stregua della previsione
normativa di cui all’art. 97 T.U. 18 agosto 2000, n. 267, al segretario
comunale di funzioni di assistenza e di collaborazione giuridica e
amministrativa con tutti gli organi dell’ente locale assorbe, in qualche guisa,
lo specifico compito, dianzi espressamente previsto dall’art. 53 legge 8 giugno
1990, n. 142, di esprimere un previo parere di legittimità sulle deliberazioni
di giunta; di tal che l’evoluzione
normativa in materia ben lungi dall’evidenziare una sottrazione del segretario
in questione alla responsabilità amministrativa per il parere eventualmente
espresso su atti della giunta, ne ha invece sottolineato le maggiori
responsabilità in ragione della rilevata estensione di funzioni, di tal che
non assume rilievo esimente l’art. 17, commi 85 e 86, legge 15 maggio 1997, n.
127 che ha espressamnte abrogato l’istituto del previo parere di legittimità
del segretario comunale “ ( Sez. II centr. App., 17.3.2004, n.197). Tale
orientamento è stato successivamente
ribadito da: Sez. II centr. App., 23.6.2004, n.197; Sez. Giur. Lombardia,
11.3.2005, n. 185 e 9.7.2009, n.473; Sez. Giur. Trentino –Alto Adige,
13.12.2005, n.106; Sez. III centr. App., 18.1.2013, n.40; Sez. II centr. App.,
17.2.2015, n.65”.
Quanto sancito dalla sentenza
appare corretto in relazione al dovere di esercitare un’attività consultiva
pienamente rispondente all’obbligo di legittimità dell’azione amministrativa.
Troppe volte dirigenti e
responsabili di servizio cadono nell’errore gravissimo di considerare i pareri
(e, dunque, l’attività consultiva) come ininfluenti sulla responsabilità e,
comunque, “coperti” dalla politica. Le cose non stanno affatto così: la
responsabilità che possa ricadere eventualmente sugli organi di governo per
decisioni produttive di danno erariale non cancellano affatto né le istruttorie
a fondamento di dette decisioni, né gli atti esecutivi, né i pareri favorevoli,
se contrari a legge: semmai, si produce un concorso alla produzione del danno.
Negli enti locali è
frequentissimo lo “scontro” tra politica e gestione proprio sui pareri. Non
infrequenti sono richieste se non pressioni di non esplicitare pareri che si
rivelino contrari ai contenuti delle deliberazioni, spesso accolte come
soluzione di compromesso, appunto nell’erronea convinzione della “copertura”
politica.
Particolarmente appesantita,
invece, risulta la posizione del segretario comunale, che secondo un indirizzo
della magistratura contabile in via di consolidamento continuerebbe a
rispondere per pareri, resi, ma anche e soprattutto non resi, di legittimità.
Il dato dell’abolizione di tale parere risultante dall’espressa volontà della
legge 127/1997, tuttavia, non pare surrogabile dalla funzione di consulenza
giuridico-amministrativa, che può esplicarsi in vario modo, senza poter o
comunque dover giungere ad uno specifico dovere di controllo interno sulla
legittimità delle deliberazioni.
Un’annotazione finale riguarda la
responsabilità degli organi di governo. A conferma del dato rilevato prima,
cioè che le decisioni politiche non coprano affatto quelle gestionali e
consultive, sta la giustificata abitudine dei medesimi organi di governo di
richiedere la cosiddetta “esimente politica” ogni qualvolta siano chiamati a
rispondere per danno erariale. Nei fatti, dunque, si evidenzia che la
“copertura” spesso promessa o comunque mostrata allo scopo di ottenere un
parere non contrario, svanisce di fronte alla chiamata a giudizio; il tutto,
per altro, legittimamente, visto che l’esimente politica è espressamente
prevista come esenzione da responsabilità dalla legge 20/1994, anche se solo
quando vi sia una reale estraneità degli organi di governo dal processo
decisionale e questo, quindi, sia del tutto ascrivibile alle funzioni
gestionali.
Non è così per il caso di specie
degli incarichi al direttore generale (ma, si può estendere l’osservazione a
tutti gli incarichi a contratto). La normativa prevede che gli incarichi siano
assegnati dal sindaco o dal presidente della provincia, previa deliberazione
della giunta (oggi nelle province le giunte non ci sono più). L’atto di
volizione è integralmente rimesso agli organi di governo, sicchè l’azione
gestionale è solo servente ed istruttoria.
Sul punto, la sentenza della
Sezione Puglia è inesorabile: “Gravissima
è, pertanto, la condotta degli odierni convenuti che hanno ugualmente proceduto
a conferire le massime funzioni dirigenziali (per una figura, fra l’altro, non obbligatoria) dell’ente provinciale a
soggetto che non avrebbe potuto in alcun modo svolgere tale incarico. Con
riferimento al Presidente della Provincia di Foggia, ai componenti della Giunta
provinciale ed al commissario prefettizio
non può accogliersi, inoltre, la sostenuta eccezione circa l’assenza di
responsabilità in ragione della natura politica dell’incarico rivestito,
giacchè l’art.108 del dl.gs 267/2000 attribuisce specificatamente al Presidente
della provincia, previa deliberazione della Giunta, la competenza alla nomina
del Segretario generale. Non può ritenersi, infatti, che le deliberazioni
contestate si siano limitare ad esprimere un “indirizzo politico”. E, inoltre, che non sussista il rapporto di causalità
con riferimento anche al decreto presidenziale n.20 del 4.7.2011, in quanto il
decreto in questione non è avulso dalla serie causale a cui è riconducibile la
prima partita di danno. Appare, invece, grave la condotta tenuta dagli
odierni convenuti che hanno del tutto ignorato i predetti limiti e vincoli,
così come non può essere sopravalutato il ruolo dei pareri favorevoli alle
succitate deliberazioni, invocate come causa di esclusione dell’elemento
soggettivo. Ha affermato, invero, la giurisprudenza contabile, con orientamento
che si condivide, in quanto fondato in diritto: “ Sussiste la responsabilità
amministrativa degli amministratori e funzionari comunali che abbiano conferito
illegittimamente un incarico…a nulla rilevando che il segretario comunale abbia
espresso al riguardo il proprio parere di regolarità amministrativa e contabile
“ ( Sez. giur. Calabria, 21.4.2011, n.282 ) e, inoltre, che gli amministratori, pur in presenza dei
pareri di regolarità tecnico-contabile e di legittimità, nella assunzione di
sclete politiche di gestione della cosa pubblica, hanno il preciso dovere di
controllare prima di decidere ( in termini, Sez. II centr. App., 12.1.2006,
n.19 )”.
Se così non fosse, aggiunge la
sentenza, se cioè l’esimente politica derivasse automaticamente
dall’espressione di pareri favorevoli o dalla circostanza che le istruttorie
sono (inevitabilmente) svolte dagli uffici amministrativa, vi sarebbe una sorta
di deresponsabilizzazione oggettiva degli organi di governo. Ma, le conseguenze
sarebbero ancor più paradossali: si crerebbe, infatti, “non tanto una dicotomia tra attività politica ed attività
amministrativa, che risale alla L. n.
142/1990, ma la prevalenza, sia in
diritto che nei fatti, dell’apparato burocratico su quello politico: il che non
è consentito dall’ordinamento, che invece opera una ripartizione
equilibrata, per ambiti di competenza, tra la sfera amministrativa e quella
politica, attuando un bilanciamento tra i poteri che vi fanno rispettivamente
capo”.
La “deresponsabilizzazione
oggettiva”, osserva la Sezione ,
non può farsi risalire nemmeno a quella particolare situazione degli
amministratori locali di “non addetto ai lavori”, che ai sensi della sentenza
della Sezione I centrale di Appello 4 febbraio 2015, fondò l’assoluzione
dell’allora sindaco di Firenze, per l’assegnazione di una serie di incarichi di
staff illegittimi. Quella sentenza, nel merito, assolse l’allora sindaco
osservando che “pur non ricorrendo gli
estremi della cosiddetta “esimente politica”, questo Collegio ritiene di poter
rilevare l’assenza dell’elemento psicologico sufficiente a incardinare la
responsabilità amministrativa, in un procedimento amministrativo assistito da garanzie i cui eventuali vizi appaiono di
difficile percezione da parte di un “non addetto ai lavori””.
Ma, per la Sezione Puglia “lo
status di “ non addetto ai lavori”” non può avere nessun pregio: la decisione
della Sezione I centrale di Appello, infatti, è da considerare “un precedente rimasto isolato nella giurisprudenza”.
Un colpo di fortuna per l’allora sindaco di Firenze, evidentemente, che non può
estendersi agli altri amministratori locali. Non che tutti gli amministratori
locali non siano uguali e che alcuni sono un po’ più uguali degli altri, ma,
comunque, qualche amministratore locale ha oggettivamente avuto migliore sorte
di altri, a proposito della percezione dei vizi degli atti amministrativi.
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