venerdì 5 gennaio 2018

Servizi civici per persone in difficoltà economica: è spesa di personale



Chissà se dopo il parere della Corte dei conti, Sezione Autonomie, 22 dicembre 2017, n. 29 i comuni capiranno che i cosiddetti servizi civici costituiscono spesa di persona e, soprattutto, un problema molto serio di natura gestionale e di rispetto delle regole minime di tutela dei rapporti di lavoro.

La Sezione Autonomie è stata chiara e drastica nell’enunciare il condivisibile principio di diritto esposto nel parere:
1)       Le erogazioni di contributi individuali per prestazioni occasionali svolte per finalità solidaristiche, assistenziali o comunque di interesse sociale trovano la naturale disciplina nelle previsioni di cui all’art. 54-bis del d.l. n. 50/2017, convertito con modificazioni dalla legge n. 96/2017, secondo cui la relativa spesa è ricompresa tra gli oneri per il personale;
2)        La possibilità di ricorrere ad erogazioni finanziarie finalizzate a forme di sostegno sociale, mediante contribuzioni individuali al di fuori di un rapporto di lavoro - anche solo occasionale - è affidata alla valutazione del soggetto responsabile della gestione delle risorse finanziarie dell’ente locale, cui spetta, in concreto, di verificare la prevalenza della finalità solidaristica e l’insussistenza di elementi che depongano per l’instaurazione di un rapporto lavorativo”.
Proviamo a chiarire ulteriormente (impossibile meglio) le affermazioni della Corte dei conti. La prima indica che la regolazione di erogazioni finanziarie a persone in difficoltà economica, nell’ambito di progetti che ad un tempo siano orientati a dare loro sostegni economici e ad ottenere da essi prestazioni lavorative di utilità civica (o sociale) trovano, oggi, orma una regolazione esclusiva: quella contenuta nell’articolo 54-bis, del d.l. 50/2017, convertito in legge 96/2017.
In altre parole, quindi, gli enti locali non avranno più la possibilità di fondare dette erogazioni finanziarie su prestazioni occasionali regolate dagli articoli 2222 e 2230 del codice civile. L’unica legittima fonte di regolazione dei “servizi civici” è, ormai, esclusivamente il citato articolo 54-bis.
Apriamo, però, qui una parentesi. Il parere della Sezione Autonomie muove da una questione posta dalla Sezione Puglia, in merito ad una richiesta di parere di un comune, che con proprio regolamento aveva disciplinato il servizio civico, con le modalità sintetizzate nel parere 29/2017, riportate qui di seguito: “il citato regolamento indica l’entità del contributo (€ 300,00 per destinatario), lo scopo dell’iniziativa (incentivare forme di impegno civile) e l’ambito delle attività previste (custodia e vigilanza delle strutture comunali e del verde pubblico, assistenza a persone in stato di bisogno, vigilanza presso le scuole, sostegno in favore di soggetti portatori di handicap). È altresì precisato che gli incarichi in argomento «non costituiranno rapporto di lavoro subordinato, né di carattere pubblico, né privato, né a tempo determinato, né indeterminato, ma esclusivamente un servizio civico, in quanto attività meramente occasionale» (art. 2), che il relativo compenso «in ogni caso, è ragguagliato al numero di ore di servizio effettivamente rese rilevate nel registro presenze» (art. 6) e, infine, che l’Amministrazione potrà rescindere il rapporto “per comprovata inadempienza” (art. 11)”.
La Sezione Autonomie, come del resto prima la Sezione Puglia, non ha inteso entrare nel merito della legittimità di siffatto regolamento, i cui contenuti sono abbastanza standardizzati e diffusi tra moltissimi comuni. Anche perché, la pronuncia del principio di diritto pone, ovviamente, nel nulla tutti i contenuti regolamentari incompatibili.
In sede di interpretazione dottrinale, tuttavia, non si incontrano i limiti operativi che deve rispettare la magistratura contabile.
Dunque, qui non si può fare a meno di sottolineare la totale illegittimità, per palese ed irrimediabile violazione della Costituzione e delle disposizioni di legge relative al lavoro, di regolamenti come quello esemplificato dal parere della Sezione Autonomie.
Come si nota, quel comune sostanzialmente richiede ai cittadini ai quali eroga un’indennità di 300 euro una prestazione lavorativa chiaramente sinallagmatica: infatti, il regolamento parla di rescissione (erroneamente: semmai, sarebbe risoluzione) del rapporto per “inadempienza”. Dunque, di fatto regolamenti come quello sui “servizi civici” da un lato affermano sul piano sostanziale la costituzione di un rapporto di lavoro sinallagmatico con l’ente locale; dall’altro, però, sul piano formale lo negano, nello stabilire che i rapporti costituiti siano lavoro subordinato ma solo attività meramente occasionale.
I comuni sono troppo spesso affetti da quella paradossale malattia che potremmo definire “regolamentite”: cioè la persuasione che mediante i regolamenti possano disciplinare tutto ed il suo contrario, senza curarsi della necessaria subordinazione dei regolamenti stessi a Costituzione e leggi.
Ora, è del tutto evidente che la disciplina del rapporto di lavoro, tanto subordinato quanto autonomo, ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lettera l), della Costituzione, rientra nella materia dell’ordinamento civile, riservata in via esclusiva alla potestà legislativa dello Stato. Dunque, nessun regolamento di nessun comune può esercitare una competenza riservata alla legge dello Stato, definendo in un modo o nell’altro i rapporti di lavoro. I regolamenti potrebbero solo disporre l’organizzazione dei servizi civici ed indicare quali tra i rapporti contrattuali disciplinati dalla legge utilizzare, ma non possono assolutamente configurare detti rapporti di lavoro.
Per altro, le prestazioni meramente occasionali – è giusto ricordarlo – sono state abolite da oltre 2 anni dal d.lgs 81/2015…
Andiamo alla seconda affermazione contenuta nel principio di diritto del parere espresso dalla Sezione Autonomie. Posto che se il servizio civico è basato sulla costituzione di un rapporto di lavoro autonomo (da disciplinare esclusivamente ai sensi dell’articolo 54-bis del d.l. 50/2017), la spesa è necessariamente di personale (come del resto precisato nel medesimo articolo 54-bis), perché eventuali sussidi concessi a persone in difficoltà non siano considerati remunerazioni sinallagmatiche di prestazioni lavorative, ma solo contributi, occorre che i progetti “civici” assicurino:
1) la prevalenza della finalità solidaristica;
2) l’inevitabile totale ed assoluta insussistenza di elementi che depongano per l’instaurazione di un rapporto lavorativo.
La Sezione Autonomie fornisce anche gli indici che i responsabili dei comuni potranno utilizzare per qualificare in maniera corretta i sussidi come contributi:
1.      la destinazione della spesa ad una finalità assistenziale e di sollecitazione di un’attività di interesse sociale;
2.      la insussistenza della formalizzazione di un rapporto di lavoro in senso proprio;
3.      la mancanza di un collegamento logico-giuridico tra il contributo erogato ed il valore patrimoniale dell’attività prestata.
La Sezione Autonomie, quindi, conferma che progetti di inclusione ed attivazione sociale sono meglio configurabili e svincolati dall’ovvio rispetto delle regole lavoristiche e dei tetti di spesa del personale (e come vedremo di seguito, anche di minimi retributivi) solo se escludono dalla condizionalità attività lavorative impropriamente fissate e leghino il beneficio economico ad azioni diverse: ad esempio, partecipazione a colloqui di orientamento, azioni di ricerca di lavoro mediante centri per l’impiego o agenzie accreditate, attività formative, creazione di curriculum, simulazione di colloqui di lavoro; o anche compartecipazioni alla spesa per eventuali tirocini da attivare con soggetti privati, finalizzati appunto all’inclusione sociale.
In fondo, i comuni hanno sotto gli occhi l’esempio del Sia: in quell’ambito le erogazioni alle persone in difficoltà economica sono totalmente slegate dalla richiesta di una prestazione lavorativa a favore del comune stesso, ma connesse, invece, ad obblighi “sociali”, come la frequenza dei figli a scuola, la ricerca attiva di lavoro, la partecipazione a corsi di formazione o a iniziative di tirocinio.
Quello è il faro da seguire per provare ad aiutare cittadini in difficoltà. Non appare per nulla utile e producente che i comuni organizzino sistemi di aiuto sociale alle persone in difficoltà realizzando impropri sistemi di reclutamento in attività lavorative per altro molto spesso sotto pagate.
Si tratta di progetti di stampo prettamente “paternalistico” con i quali i comuni rimediano alla mancanza di reddito e di lavoro con “lavoretti”, in qualche modo regolati, alle proprie dipendenze. Un sistema deleterio, perché non prevede la vera e propria attivazione delle persone nella ricollocazione sociale e lavorativa e le imprigiona nel meccanismo perverso della dipendenza dalla pubblica amministrazione, ingenerando la convinzione che prima o poi, a seguito dei “lavoretti” resi al comune, questo le assumerà a titolo definitivo; convinzione, per altro, giustificabile anche in considerazione dell’altrettanto deleteria abitudine del legislatore a stabilizzare i lavori socialmente utili, fattispecie che per legge nemmeno dà luogo a lavoro subordinato.
I comuni potrebbero in maniera molto più produttiva destinare le risorse:
1) al finanziamento di servizi da affidare a cooperative sociali di tipo B, curando mediante le convenzioni che gli inserimenti lavorativi conseguenti prendano in considerazione le persone in difficoltà economica segnalate;
2) oppure, nell’ambito di progetti come il Sia, basati sulla creazione di moduli di assistenza al reddito abbinati ad iniziative di ricerca attiva di lavoro e di formazione, assegnando ai centri per l’impiego oppure ad enti accreditati da Stato o regioni per le politiche attive per il lavoro o la formazione finanziamenti destinati ai sostegni al reddito, all’organizzazione di corsi o anche a premi per la buona riuscita di inserimenti lavorativi in aziende private.
In questo modo, si rispetterebbero tutti gli indici richiesti dalla Corte dei conti: soprattutto, verrebbe a mancare la relazione lavorativa tra comune e persona in difficoltà.
Per altro, poiché, come ha rilevato la Sezione Autonomie, i comuni se intendono aiutare le persone in difficoltà direttamente mediante lavori alle proprie dipendenze devono necessariamente riferirsi all’articolo 54-bis del d.l. 50/2017, le possibilità di intervento sono molto ma molto esigue.
Infatti, ricorda la Corte dei conti, occorre rispettare il “limite del compenso massimo annuo (5000 euro annui per prestatore ed utilizzatore e 2500 del prestatore verso lo stesso utilizzatore) seppur “nel rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in materia di contenimento delle spese di personale”. Dunque, ciascun comune non potrebbe che spendere in un anno al massimo 5.000 euro complessivamente.
La corretta riconduzione dei “servizi civici” alle regole dell’articolo 54-bis aiuta anche a sottolineare un secondo elemento estremamente critico dei progetti comunali: i compensi a rischio di dumping e violazione dei minimi retributivi.
In regolamenti o i progetti comunali rischiano l’illegittimità, anzi l’illiceità, quando prevedano “borse lavoro” al di sotto dei compensi orari per le mansioni richieste.
I progetti qualificano le erogazioni finanziarie in vario modo: borse lavoro, reddito di inclusione o similari formule; talvolta, come visto, allo scopo di evidenziare che non si tratta dell’instaurazione di rapporti di lavoro con gli enti (priva di qualsiasi legittimità se non preceduta da prove concorsuali), i progetti qualificano l’attività come lavoro autonomo.
La remunerazione, nella gran parte dei progetti civici, in generale varia tra i 5 e i 6 euro l’ora. Questo è il punto maggiormente dolente: gli enti non tengono conto che in questo modo si espongono a varie censure di legittimità.
Si corre, intanto, il rischio di qualificare illecitamente un’attività lavorativa subordinata come autonoma, ciò che fa scattare le responsabilità erariali e dirigenziali previste dall’articolo 7, commi 6 e seguenti del d.lgs 165/2001. Non si deve dimenticare che il lavoro autonomo, ai sensi della citata disposizione, può essere attivato solo ed esclusivamente per elevate professionalità, cosa ovviamente non riscontrabile nei progetti di servizio civico.
In particolare, si rischiano illeciti civilistici piuttosto rilevanti. Proprio perchè le attività lavorative brevi, finalizzate all’utilità sociale, sono ormai disciplinate dall’articolo 54-bis del d.l. 50/2017, convertito in legge 96/2017, che ha regolamentato le prestazioni occasionali, succedute agli aboliti “voucher”, occorre rispettarne le disposizioni anche in tema di retribuzione.
Le pubbliche amministrazioni possono essere utilizzatori di queste prestazioni esattamente per i fini dei progetti di inclusione sociale. Ma, il citato articolo 54-bis prevede una retribuzione oraria netta minima di 9 euro l’ora ed un impegno giornaliero minimo di 4 ore. Quindi, alla singola persona si deve proporre un’attività lavorativa occasionale di non meno di 36 euro netti al giorno.
Dunque, prevedere progetti con remunerazioni significativamente inferiori implica la violazione di minimi retributivi; del resto 5 o 6 euro l’ora sono da dumping anche nel caso di configurazione come lavoro autonomo puro (per altro, inammissibile, a seguito della riforma dell’articolo 7, comma 6, el d.lgs 165/2001 disposta dal d.lgs 75/2017, che ha cancellato i riferimenti al lavoro occasionale e alle co.co.co.) delle attività richieste ai cittadini ammessi ai progetti.

La vigenza delle previsioni del d.l. 50/2017 rende evidente che la realizzazione di progetti di attivazione dei cittadini in condizione di svantaggio mediante loro attività lavorativa debba rispettare condizioni e vincoli imposti dalla norma stessa.

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