Chissà se dopo il parere
della Corte dei conti, Sezione Autonomie, 22 dicembre 2017, n. 29 i comuni capiranno
che i cosiddetti servizi civici costituiscono spesa di persona e, soprattutto,
un problema molto serio di natura gestionale e di rispetto delle regole minime
di tutela dei rapporti di lavoro.
“1) Le erogazioni di
contributi individuali per prestazioni occasionali svolte per finalità
solidaristiche, assistenziali o comunque di interesse sociale trovano la naturale disciplina nelle
previsioni di cui all’art. 54-bis del d.l. n. 50/2017, convertito con
modificazioni dalla legge n. 96/2017, secondo cui la relativa spesa è
ricompresa tra gli oneri per il personale;
2) La possibilità di
ricorrere ad erogazioni finanziarie finalizzate a forme di sostegno sociale,
mediante contribuzioni individuali al di fuori di un rapporto di lavoro - anche
solo occasionale - è affidata alla valutazione del soggetto responsabile della
gestione delle risorse finanziarie dell’ente locale, cui spetta, in concreto,
di verificare la prevalenza della
finalità solidaristica e l’insussistenza di elementi che depongano per
l’instaurazione di un rapporto lavorativo”.
Proviamo a chiarire ulteriormente
(impossibile meglio) le affermazioni della Corte dei conti. La prima indica che
la regolazione di erogazioni finanziarie a persone in difficoltà economica,
nell’ambito di progetti che ad un tempo siano orientati a dare loro sostegni
economici e ad ottenere da essi prestazioni lavorative di utilità civica (o
sociale) trovano, oggi, orma una regolazione esclusiva: quella contenuta nell’articolo
54-bis, del d.l. 50/2017, convertito in legge 96/2017.
In altre parole, quindi, gli enti
locali non avranno più la possibilità di fondare dette erogazioni finanziarie
su prestazioni occasionali regolate dagli articoli 2222 e 2230 del codice
civile. L’unica legittima fonte di regolazione dei “servizi civici” è, ormai,
esclusivamente il citato articolo 54-bis.
Apriamo, però, qui una parentesi.
Il parere della Sezione Autonomie muove da una questione posta dalla Sezione
Puglia, in merito ad una richiesta di parere di un comune, che con proprio
regolamento aveva disciplinato il servizio civico, con le modalità sintetizzate
nel parere 29/2017, riportate qui di seguito: “il citato regolamento indica l’entità del contributo (€ 300,00 per destinatario),
lo scopo dell’iniziativa (incentivare forme di impegno civile) e l’ambito delle
attività previste (custodia e vigilanza delle strutture comunali e del verde
pubblico, assistenza a persone in stato di bisogno, vigilanza presso le scuole,
sostegno in favore di soggetti portatori di handicap). È altresì precisato che gli incarichi in argomento «non
costituiranno rapporto di lavoro subordinato, né di carattere pubblico, né
privato, né a tempo determinato, né indeterminato, ma esclusivamente un servizio
civico, in quanto attività meramente occasionale» (art. 2), che il relativo
compenso «in ogni caso, è ragguagliato al numero di ore di servizio
effettivamente rese rilevate nel registro presenze» (art. 6) e, infine, che
l’Amministrazione potrà rescindere il rapporto “per comprovata inadempienza”
(art. 11)”.
In sede di interpretazione dottrinale,
tuttavia, non si incontrano i limiti operativi che deve rispettare la
magistratura contabile.
Dunque, qui non si può fare a
meno di sottolineare la totale illegittimità, per palese ed irrimediabile
violazione della Costituzione e delle disposizioni di legge relative al lavoro,
di regolamenti come quello esemplificato dal parere della Sezione Autonomie.
Come si nota, quel comune
sostanzialmente richiede ai cittadini ai quali eroga un’indennità di 300 euro
una prestazione lavorativa chiaramente sinallagmatica: infatti, il regolamento
parla di rescissione (erroneamente: semmai, sarebbe risoluzione) del rapporto
per “inadempienza”. Dunque, di fatto regolamenti come quello sui “servizi
civici” da un lato affermano sul piano sostanziale la costituzione di un
rapporto di lavoro sinallagmatico con l’ente locale; dall’altro, però, sul
piano formale lo negano, nello stabilire che i rapporti costituiti siano lavoro
subordinato ma solo attività meramente occasionale.
I comuni sono troppo spesso
affetti da quella paradossale malattia che potremmo definire “regolamentite”:
cioè la persuasione che mediante i regolamenti possano disciplinare tutto ed il
suo contrario, senza curarsi della necessaria subordinazione dei regolamenti
stessi a Costituzione e leggi.
Ora, è del tutto evidente che la
disciplina del rapporto di lavoro, tanto subordinato quanto autonomo, ai sensi
dell’articolo 117, comma 2, lettera l), della Costituzione, rientra nella
materia dell’ordinamento civile, riservata in via esclusiva alla potestà
legislativa dello Stato. Dunque, nessun regolamento di nessun comune può esercitare
una competenza riservata alla legge dello Stato, definendo in un modo o nell’altro
i rapporti di lavoro. I regolamenti potrebbero solo disporre l’organizzazione
dei servizi civici ed indicare quali tra i rapporti contrattuali disciplinati
dalla legge utilizzare, ma non possono assolutamente configurare detti rapporti
di lavoro.
Per altro, le prestazioni
meramente occasionali – è giusto ricordarlo – sono state abolite da oltre 2
anni dal d.lgs 81/2015…
Andiamo alla seconda affermazione
contenuta nel principio di diritto del parere espresso dalla Sezione Autonomie.
Posto che se il servizio civico è basato sulla costituzione di un rapporto di
lavoro autonomo (da disciplinare esclusivamente ai sensi dell’articolo 54-bis
del d.l. 50/2017), la spesa è necessariamente di personale (come del resto
precisato nel medesimo articolo 54-bis), perché eventuali sussidi concessi a
persone in difficoltà non siano considerati remunerazioni sinallagmatiche di
prestazioni lavorative, ma solo contributi, occorre che i progetti “civici”
assicurino:
1) la prevalenza della finalità
solidaristica;
2) l’inevitabile totale ed
assoluta insussistenza di elementi che depongano per l’instaurazione di un
rapporto lavorativo.
1. la
destinazione della spesa ad una finalità assistenziale e di sollecitazione di
un’attività di interesse sociale;
2. la
insussistenza della formalizzazione di un rapporto di lavoro in senso proprio;
3. la
mancanza di un collegamento logico-giuridico tra il contributo erogato ed il
valore patrimoniale dell’attività prestata.
In fondo, i comuni hanno sotto
gli occhi l’esempio del Sia: in quell’ambito le erogazioni alle persone in
difficoltà economica sono totalmente slegate dalla richiesta di una prestazione
lavorativa a favore del comune stesso, ma connesse, invece, ad obblighi “sociali”,
come la frequenza dei figli a scuola, la ricerca attiva di lavoro, la
partecipazione a corsi di formazione o a iniziative di tirocinio.
Quello è il faro da seguire per
provare ad aiutare cittadini in difficoltà. Non appare per nulla utile e producente
che i comuni organizzino sistemi di aiuto sociale alle persone in difficoltà
realizzando impropri sistemi di reclutamento in attività lavorative per altro
molto spesso sotto pagate.
Si tratta di progetti di stampo
prettamente “paternalistico” con i quali i comuni rimediano alla mancanza di
reddito e di lavoro con “lavoretti”, in qualche modo regolati, alle proprie
dipendenze. Un sistema deleterio, perché non prevede la vera e propria
attivazione delle persone nella ricollocazione sociale e lavorativa e le
imprigiona nel meccanismo perverso della dipendenza dalla pubblica
amministrazione, ingenerando la convinzione che prima o poi, a seguito dei “lavoretti”
resi al comune, questo le assumerà a titolo definitivo; convinzione, per altro,
giustificabile anche in considerazione dell’altrettanto deleteria abitudine del
legislatore a stabilizzare i lavori socialmente utili, fattispecie che per
legge nemmeno dà luogo a lavoro subordinato.
I comuni potrebbero in maniera
molto più produttiva destinare le risorse:
1) al finanziamento di servizi da
affidare a cooperative sociali di tipo B, curando mediante le convenzioni che
gli inserimenti lavorativi conseguenti prendano in considerazione le persone in
difficoltà economica segnalate;
2) oppure, nell’ambito di
progetti come il Sia, basati sulla creazione di moduli di assistenza al reddito
abbinati ad iniziative di ricerca attiva di lavoro e di formazione, assegnando
ai centri per l’impiego oppure ad enti accreditati da Stato o regioni per le
politiche attive per il lavoro o la formazione finanziamenti destinati ai
sostegni al reddito, all’organizzazione di corsi o anche a premi per la buona
riuscita di inserimenti lavorativi in aziende private.
In questo modo, si
rispetterebbero tutti gli indici richiesti dalla Corte dei conti: soprattutto,
verrebbe a mancare la relazione lavorativa tra comune e persona in difficoltà.
Per altro, poiché, come ha
rilevato la Sezione Autonomie ,
i comuni se intendono aiutare le persone in difficoltà direttamente mediante
lavori alle proprie dipendenze devono necessariamente riferirsi all’articolo
54-bis del d.l. 50/2017, le possibilità di intervento sono molto ma molto
esigue.
Infatti, ricorda la Corte dei conti, occorre
rispettare il “limite del compenso
massimo annuo (5000 euro annui per
prestatore ed utilizzatore e 2500 del prestatore verso lo stesso
utilizzatore) seppur “nel rispetto dei vincoli previsti dalla vigente
disciplina in materia di contenimento delle spese di personale”. Dunque,
ciascun comune non potrebbe che spendere in un anno al massimo 5.000 euro
complessivamente.
La corretta riconduzione dei “servizi
civici” alle regole dell’articolo 54-bis aiuta anche a sottolineare un secondo
elemento estremamente critico dei progetti comunali: i compensi a rischio di dumping e violazione dei minimi
retributivi.
In regolamenti o i progetti
comunali rischiano l’illegittimità, anzi l’illiceità, quando prevedano “borse
lavoro” al di sotto dei compensi orari per le mansioni richieste.
I progetti qualificano le
erogazioni finanziarie in vario modo: borse lavoro, reddito di inclusione o
similari formule; talvolta, come visto, allo scopo di evidenziare che non si
tratta dell’instaurazione di rapporti di lavoro con gli enti (priva di
qualsiasi legittimità se non preceduta da prove concorsuali), i progetti
qualificano l’attività come lavoro autonomo.
La remunerazione, nella gran
parte dei progetti civici, in generale varia tra i 5 e i 6 euro l’ora. Questo è
il punto maggiormente dolente: gli enti non tengono conto che in questo modo si
espongono a varie censure di legittimità.
Si corre, intanto, il rischio di
qualificare illecitamente un’attività lavorativa subordinata come autonoma, ciò
che fa scattare le responsabilità erariali e dirigenziali previste
dall’articolo 7, commi 6 e seguenti del d.lgs 165/2001. Non si deve dimenticare
che il lavoro autonomo, ai sensi della citata disposizione, può essere attivato
solo ed esclusivamente per elevate professionalità, cosa ovviamente non
riscontrabile nei progetti di servizio civico.
In particolare, si rischiano
illeciti civilistici piuttosto rilevanti. Proprio perchè le attività lavorative
brevi, finalizzate all’utilità sociale, sono ormai disciplinate dall’articolo
54-bis del d.l. 50/2017, convertito in legge 96/2017, che ha regolamentato le
prestazioni occasionali, succedute agli aboliti “voucher”, occorre rispettarne
le disposizioni anche in tema di retribuzione.
Le pubbliche amministrazioni
possono essere utilizzatori di queste prestazioni esattamente per i fini dei
progetti di inclusione sociale. Ma, il citato articolo 54-bis prevede una
retribuzione oraria netta minima di 9 euro l’ora ed un impegno giornaliero
minimo di 4 ore. Quindi, alla singola persona si deve proporre un’attività
lavorativa occasionale di non meno di 36 euro netti al giorno.
Dunque, prevedere progetti con
remunerazioni significativamente inferiori implica la violazione di minimi
retributivi; del resto 5 o 6 euro l’ora sono da dumping anche nel caso di configurazione come lavoro autonomo puro
(per altro, inammissibile, a seguito della riforma dell’articolo 7, comma 6, el
d.lgs 165/2001 disposta dal d.lgs 75/2017, che ha cancellato i riferimenti al
lavoro occasionale e alle co.co.co.) delle attività richieste ai cittadini
ammessi ai progetti.
La vigenza delle previsioni del
d.l. 50/2017 rende evidente che la realizzazione di progetti di attivazione dei
cittadini in condizione di svantaggio mediante loro attività lavorativa debba
rispettare condizioni e vincoli imposti dalla norma stessa.
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