I tweet variamente garruli ed
entusiasti che annunciano la sottoscrizione dopo 10 anni della preintesa del
comparto delle funzioni locali confermano l’errore molto grave di prospettiva
nel quale si incorre da almeno 5 anni: considerare, cioè, che una “riforma” o
un provvedimento nuovo sia per ciò stesso un dato positivo.
Così, in molti esultano per fatto
in sé che “dopo 10 anni” è stato sottoscritto il contratto collettivo
nazionale, senza badare troppo, però, alla circostanza che dovrebbe essere
fondamentale oggetto di analisi: se si tratti, cioè, di un buon contratto o di
un cattivo contratto. Dovrebbe essere la qualità delle riforme o dei provvedimenti
che in vario modo si approvano a guidare le considerazioni critiche. Cosa che,
ormai, raramente accade.
Guardando con oggettività i
contenuti della preintesa, appare impossibile affermare che si tratti di un
contratto di qualità.
I problemi sono evidenti: la
necessità del Governo di pagare la “cambiale” consistente nell’improvvido
accordo del 30 novembre del 2016, il quale non solo non ha portato voti al sì
al referendum sulla riforma costituzionale, ma ha anche imposto l’incremento
trasversale medio degli 85 euro, che ha fortemente condizionato i contenuti
economici dei contratti collettivi; ma, soprattutto, la fretta di giungere alla
sottoscrizione almeno delle preintese entro la data del 4 marzo 2018, altra
scadenza elettorale; fretta che, se da un lato, difficilmente porterà voti alle
formazioni della maggioranza in scadenza, ha certamente nociuto alla
ponderazione ed alla qualità del Ccnl.
In generale, dunque, ci si
imbatte un una preintesa di 73 articoli, molti dei quali meramente “conservativi”:
stupisce la mancanza della regolazione dei turni e dei ritardi, elementi,
invece, (tra i pochi) innovativi ed utili del Ccnl delle funzioni centrali.
Laddove il Ccnl del comparto delle funzioni locali ha provato ad essere davvero
innovativo, con l’introduzione della sperimentazione delle ferie ad ore, è
rimasto molto, troppo, timido, limitandola alle sole regioni ed enti regionali,
un granello nelle immensità numeriche degli enti locali.
Per lo più il contratto non fa
altro che confermare stancamente gli istituti da sempre vigenti, insistendo per
l’ennesima volta sul codice disciplinare, nel quale le poche novità sono
l’introduzione del flop certo della determinazione concordata della sanzione di
un mal riuscito tentativo (ennesimo) di chiarire i rapporti tra procedimento
penale e disciplinare, la tutela per le donne vittime di violenza, i permessi
estesi alle unioni civili.
Novità più corpose si
reperiscono, invece, nell’introduzione della sezione separata per l’area della
vigilanza e nel tentativo di modificare e razionalizzare il sistema di
classificazione del personale, con l’opportuna eliminazione del profilo di
ingresso in posizione D3 (ma, non si è riusciti ancora a razionalizzare la
categoria B, che rimane sdoppiata nei duplici profili di ingresso B1 e B3 a
causa delle forti differenziazioni di titoli di studio e procedure selettive).
Vi è poi un tentativo abbastanza
farraginoso di consentire agli enti nella cui dotazione organica sono previste
posizioni di categoria D, ma interamente non coperte, oppure che abbiano
coperte le posizioni di categoria D in modo solo parziale, di attribuire
incarichi di posizione organizzativa anche a dipendenti di categoria C, ma
secondo condizioni e presupposti molto rigorosi (si veda in appendice a questo
articolo). Si tratta di previsioni correttamente orientate a risolvere problemi
operativi degli enti, ma che si presteranno senza alcun dubbio ad applicazioni
in chiara violazione dei limiti previsti, soprattutto perché non sono previsti,
come sempre, controlli preventivi. La valutazione che se ne può dare, quindi, è
solo e necessariamente negativa: norme che portano all’accrescimento certo di
illegittimità e possibili contenziosi non sono mai utili e positive. Manca,
come sempre, il coraggio di indurre gli enti troppo piccoli o così male
organizzati (anche per responsabilità del legislatore) ad adottare scelte
radicali: coprire la dotazione organica assumendo le categorie D previste,
oppure cancellare per sempre le categorie D dalla dotazione organica, oppure convenzionarsi
per quei servizi nei quali le categorie D risultino assenti o, ancora, chiudere
gli enti che vivono solo e sempre con l’acqua alla gola, per i quali ogni atto,
ogni spesa, ogni programma, ogni appalto, ogni contratto è solo un’agonia
burocratica, che non crea alcun valore aggiunto ma, al contrario, ampie
disutilità per gli stessi cittadini.
Ma la norma contrattuale
realmente problematica, che inciderà sicuramente in maniera molto negativa
sulla contrattazione decentrata è quella contenuta nell’articolo 67, comma 7: “La
quantificazione del Fondo delle risorse decentrate e di quelle destinate agli
incarichi di posizione organizzativa di cui all’art. 15, comma 5 deve comunque
avvenire, complessivamente, nel rispetto dell’art. 23, comma 2 del d. lgs. n.
75/2017”.
Questa disposizione pone a carico
delle risorse della contrattazione decentrata, dunque non del bilancio, gli
incrementi alla parte stabile del fondo disposti dal precedente comma 2[1].
In particolare, questo vale per gli incrementi delle posizioni economiche di
sviluppo e delle indennità e compensi collegati agli incrementi tabellari.
E’, insomma, come se circa il 5%
dei maggiori costi derivanti dal contratto siano finanziati dal fondo delle
risorse decentrate (il 3,85% di aumento delle posizioni di sviluppo, più un
altro 1,15% medio tra indennità di turno e altre voci, come il conglobamento
dell’indennità di vacanza contrattuale, che fa incrementare il gabellare e le
posizioni economiche di sviluppo, che aumentano di numero).
Ora, imporre ai fondi della
contrattazione decentrata di finanziare parte dei costi derivanti dalla
contrattazione è un inedito assoluto. Che rischia di creare non pochi problemi,
in particolare negli enti, e sono tantissimi, che si trovino nella situazione
nella quale l’eccessivo numero di progressioni orizzontali svolte negli anni
tra il 1999 e il 2010 abbia sottratto, insieme col peso dell’indennità di
comparto, ingenti disponibilità al fondo, incidendo per percentuali molto
elevate, così, ad esempio, da consentire il pagamento della retribuzione di
risultato facendo esclusivamente ricorso alle risorse variabili (in
particolare, all’articolo 15, commi 2 e 5, del Ccnl 1.4.1999, che verrà
sostituito dalle previsioni dell’articolo 67, commi 4 e 5, lettera b) della
preintesa).
Per questi enti, erodere il fondo
di parte stabile di un 5% circa, significa rischiare di non avere la copertura
per pagare le progressioni orizzontali, l’indennità di comparto e gli
incrementi della parte stabile previsti dal comma 2 dell’articolo 67.
Il tutto discende da una lettura
da considerare distorta e non condivisibile delle previsioni contenute
nell’articolo 23, comma 2, del d.lgs 75/2017, considerato dall’articolo 67,
comma 7, alla stregua di norma che non consenta alla contrattazione nazionale collettiva
di far aumentare il volume del fondo delle risorse decentrate.
E’ una lettura sbagliata e
foriera di conseguenze pratiche deleterie, sulle relazioni sindacali. In primo
luogo, occorre osservare che la preintesa delle funzioni locali crea una disparità
clamorosa con le funzioni centrali, il cui Ccnl non contiene nessuna norma che
impedisca la crescita delle risorse decentrate in applicazione dell’articolo
23, comma 2, della legge Madia: una disparità clamorosa di trattamento, della
quale Aran e organizzazioni sindacali stipulanti dovrebbero dare conto e
spiegare le ragioni.
Ma, l’errore è soprattutto di
natura giuridica: le parti stipulanti hanno ritenuto che la previsione
dell’articolo 23, comma 2, del d.lgs 75/2017 costituisca un tetto invalicabile
ai costi della contrattazione nazionale collettiva. Tesi assolutamente da
contestare; basta leggere la norma: “Nelle more di quanto previsto dal comma
1, al fine di assicurare la semplificazione amministrativa, la valorizzazione
del merito, la qualità dei servizi e garantire adeguati livelli di efficienza
ed economicità dell'azione amministrativa, assicurando al contempo l'invarianza
della spesa, a decorrere dal 1° gennaio 2017, l'ammontare complessivo delle
risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale,
anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di
cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non
può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016. A decorrere
dalla predetta data l'articolo 1, comma 236, della legge 28 dicembre 2015, n.
208 è abrogato. Per gli enti locali che non hanno potuto destinare nell'anno
2016 risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa a causa del
mancato rispetto del patto di stabilità interno del 2015, l'ammontare
complessivo delle risorse di cui al primo periodo del presente comma non può
superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2015, ridotto in
misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio nell'anno 2016”.
Dalla lettura piana e chiarissima
della norma, si evince che essa non impedisce per nulla alla contrattazione nazionale
collettiva di incrementare il volume delle risorse decentrate, plichè questa è
una conseguenza inevitabile: incrementando i tabellari, per trascinamento
aumentano per forza i costi degli straordinari, dei turni, delle indennità
legate al costo orario, delle posizioni di sviluppo e dell’indennità di
comparto.
L’articolo 23, comma 2, del d.lgs
75/2017, al contrario, impedisce a ciascun singolo ente di incrementare i
fondi, ma in sede di contrattazione collettiva decentrata integrativa,
come senza dubbio alcuno dimostra il riferimento a tale livello di
contrattazione contenuto nell’ultimo periodo del comma 2.
Appare del tutto ingiustificabile
che le parti stipulanti siano incorse in questo scivolone, che vìola
platealmente le disposizioni normative e renderà impossibile per tanti enti
adempiere alle disposizioni contrattuali, stritolandoli nella tenaglia tra
l’inadempimento contrattuale e le conseguenti responsabilità civili, e
l’adempimento con impiego di risorse di bilancio e conseguente responsabilità
erariale.
Se la previsione dell’articolo
67, comma 7, non sarà modificata (ma, purtroppo, nulla fa ritenere probabile la
cosa), non c’è il minimo dubbio: le organizzazioni sindacali, quelle stesse che
a livello nazionale hanno accettato di far finanziare dai fondi parte non
irrilevante dei costi della contrattazione nazionale, chiederanno agli enti, al
livello decentrato, di rimediare, non importa come; del resto, le
organizzazioni sindacali non rispondo per danno erariale.
Le richieste potranno essere
almeno due. La prima: laddove il fondo del 2016 avesse disponibilità di risorse
variabili, utilizzare parte di esse, trasformandole in stabili, per finanziare
i maggiori costi derivanti dal Ccnl. Questa tesi potrebbe basarsi su una
lettura, tuttavia, erronea, dello stesso articolo 23, comma 2, del d.lgs
75/2017, quando si riferisce all’“ammontare complessivo” delle risorse. La pretesa
sarà di considerare tale ammontare complessivo come un unicum, nel quale
muovere indifferentemente le risorse di parte stabile e variabile.
L’idea sarebbe foriera di sicura
responsabilità erariale per chi la volesse seguire. Anche se il fondo del 2016
costituisce un tetto complessivo, comprensivo di risorse stabili e variabili,
perché queste ultime si trasformino in finanziamento stabile occorrerebbe una
norma di legge o contrattuale. Che non c’è.
Non è per niente detto, per
altro, che nel 2018 e negli anni seguenti, quel singolo ente che nel 2016 potè
incrementare il fondo con risorse variabili ai sensi dell’articolo 15, commi 2
e 5, del Ccnl 1.4.1999, disponga di nuovo delle condizioni giuridiche (rispetto
dei saldi di finanza pubblica o progetti per l’incremento qualitativo dei
servizi) per disporre nuovamente di tali maggiori risorse. E’, invece, certo
che comunque molti enti non hanno avuto alcuna risorsa variabile tra 2015 e
2016, così come altrettanto certo è che tantissimi altri enti, pur disponendo
di parte variabile in quell’ammontare complessivo, ne abbia in misura
insufficiente per accogliere l’eventuale (provabilissima) richiesta dei
sindacati.
L’altra probabile istanza
sindacale sarà di reperire, comunque, le risorse eventualmente mancanti all’appello
per incrementare il fondo, dal bilancio. Ma, anche in questo caso il danno
erariale sarebbe certo.
Chiaro che affrontare simili
piattaforme significa anche creare tensioni formidabili nelle relazioni
industriali. Un’altra probabile richiesta dei sindacati consisterà nel ridurre
drasticamente le retribuzioni di posizione e risultato delle posizioni
organizzative, manovra, tuttavia, inutile, visto che non gravano sul fondo, ma
sul bilancio, nella gran parte degli enti; per altro, il nuovo Ccnl sottrarrà
le risorse per finanziare le PO al fondo anche negli enti in cui sia presente
la dirigenza.
La conflittualità salirà alle
stelle e la probabilità di errori molto gravi nella costituzione e destinazione
dei fondi sarà elevatissima.
Risulta chiaro che le parti
stipulanti non hanno pensato a questo; manca un’analisi ex ante
dell’impatto che le regole contrattuali potrebbero determinare, come
spessissimo da anni avviene per qualsiasi riforma o, comunque, provvedimento.
Una carenza gravissima, che
rischia di trasformare un atto doveroso e ormai imprescindibile, come la
stipulazione del Ccnl, in un boomerang.
Appendice
Presupposti e
condizioni per dare incarichi di posizione organizzativa a dipendenti di
categoria C in enti la cui dotazione organica preveda categorie D.
Nel tentativo di risolvere il
problema di enti di piccole dimensioni non ben organizzati, che dispongano di
pochi funzionari di categoria D, la preintesa del Ccnl delle funzioni locali
introduce un rimedio parziale all’impossibilità attualmente vigente di
attribuire incarichi di posizione organizzativa a dipendenti di categoria C in
enti in cui siano presenti categorie D.
Tale impossibilità, come da
sempre sostiene l’Aran, discende dalle previsioni dell’articolo 11, comma 3,
del Ccnl 31.3.1999: “Nel caso in cui siano privi di posizioni della categoria D,
i Comuni applicano la disciplina degli artt. 8 e ss. ai dipendenti di cui al
comma 1 classificati nelle categorie C o B, ove si avvalgano della facoltà di
cui alla disciplina di legge richiamata nello stesso comma 1. In tal caso, il
valore economico della relativa retribuzione di posizione può variare da un
minimo di L. 6.000.000 ad un massimo di L. 15.000.000 annui lordi per tredici
mensilità”.
Anche se molti enti hanno provato
a dare letture permissive o estensive, la norma è chiarissima: incarichi di
posizione organizzativa a personale di categoria C o B sono ammissibili solo in
enti nei quali in dotazione organica proprio non vi siano categorie D.
La preintesa cerca di mitigare il
divieto assoluto dell’articolo 11, comma 3, visto sopra (che quindi risulterà
disapplicato), combinando le disposizioni dell’articolo 13 e dell’articolo 17
del nuovo Ccnl.
Partiamo dall’articolo 13. Il suo
comma 2 è redatto in modo conforme alle previsioni del vecchio Ccnl del 1999:
“Tali posizioni possono essere assegnate esclusivamente a dipendenti classificati
nella categoria D, sulla base e per effetto di un incarico a
termine conferito in
conformità all’art. 14. Nel caso in cui siano privi di posizioni di categoria D, la
presente disciplina si applica:
a) presso i comuni, ai dipendenti classificati nelle categorie C o B;
b) presso le IPAB, ai dipendenti classificati nella categoria C”.
L’articolo 17 contiene, però, una
parziale rottura del muro che impedirebbe ai comuni nei quali siano presenti
posizioni di categoria D di attribuire gli incarichi di posizione organizzativa
a dipendenti classificati nelle categorie C o B:
E’ il comma 3 ad occuparsi della
questione: “In deroga a quanto previsto
dall’art. 13, comma 2, nei comuni privi di posizioni dirigenziali, la cui
dotazione organica preveda posti di categoria D, ove tuttavia non siano in
servizio dipendenti di categoria D oppure nei casi in cui, pure essendo in
servizio dipendenti inquadrati in tale categoria, non sia possibile attribuire
agli stessi un incarico ad interim di posizione organizzativa per la carenza
delle competenze professionali a tal fine richieste, al fine di garantire la
continuità e la regolarità dei servizi istituzionali, è possibile, in via
eccezionale e temporanea, conferire l’incarico di posizione organizzativa anche
a personale della categoria C, purché in possesso delle necessarie capacità ed
esperienze professionali”.
Il successivo comma 4 precisa
ulteriormente le modalità applicative della deroga: “I comuni possono avvalersi della particolare facoltà di cui al comma 3,
per una sola volta, salvo il caso in cui una eventuale reiterazione sia
giustificata dalla circostanza che siano già state avviate le procedure per
l’acquisizione di personale della categoria D. In tale ipotesi, potrà
eventualmente procedersi anche alla revoca anticipata dell’incarico conferito”.
Proviamo adesso a schematizzare
meglio condizioni e presupposti per dare incarichi di posizione organizzativa a
dipendenti di categoria C in enti la cui dotazione organica preveda categorie
D.
Enti
|
Comuni con in dotazione organica dipendenti di categoria D
|
Presupposti
|
1) Pur
essendo in dotazione, non sia in servizio alcun dipendente di categoria D
(posizioni totalmente vacanti);
2) oppure,
pure essendo in servizio dipendenti di categoria D, non sia possibile
attribuire agli stessi un incarico ad interim di posizione organizzativa per
la carenza delle competenze professionali a tal fine richieste.
Nella seconda ipotesi, in sostanza:
a) l’ente
si trova accidentalmente privo del vertice di categoria D di una certa
struttura di vertice, per esempio un tecnico, e non sia possibile assegnare
l’interim agli altri vertici, poniamo il comandante di PM ed il ragionere,
perché non dispongono delle competenze professionali:
b) oppure,
l’ente, a causa di una cattiva organizzazione, si ritrova una categoria D in
4 delle 5 (ad esempio) strutture di vertice ed una, quindi ne è priva ed
essendo caratterizzata da specifiche professionalità, non può essere coperta
ad interim (per esempio, le 4 aree coperte sono gli affari generali, la
ragioneria, la polizia municipale ed i tribui, la quinta carente di categorie
D è quella tecnica).
|
Condizioni
|
1. dimostrazione
concreta dell’impossibilità di conferire incarichi ad interim ad altre
posizioni organizzative;
2. dimostrazione
concreta dell’inesistenza di altri dipendenti inquadrati in categoria D
aventi competenze professionali congruenti con quelle richieste;
3. non
possono essere assegnati incarichi comunque a dipendenti di categoria B;
4. i
dipendenti di categoria C debbono essere in possesso delle necessarie
capacità ed esperienze professionali: il tecnico deve essere laureato in
ingegneria o architettura o quanto meno abilitato geometra, il ragioniere
laureato in economia e commercio, ecc…
|
Modalità
|
L’incarico a dipendenti di categoria C è:
|
Durata
|
A termine, per il tempo necessario ad acquisire il
personale di categoria D da preporre o, al limite, per riorganizzare le strutture
di vertice dell’ente.
|
Numero di incarichi
|
Trattandosi di una deroga eccezionale, l’ente può
assegnare l’incarico di PO ad un dipendente di categoria C, nel rispetto di
quanto sopra, solo una volta.
|
Reiterazione
|
E’ ammessa solo se siano già state avviate le procedure
per l’acquisizione di personale della categoria D (per mobilità, concorso,
progressione di categoria, stabilizzazione, etc.).
|
Scadenza
|
Tre anni, che è il termine massimo di durata di ogni
incarico, ai sensi dell’articolo 13 della preintesa. Qualora l’incarico sia
stato reiterato e, comunque, ogni volta che sia stato acquisito il personale
di categoria D necessario, so potrà eventualmente procedere anche alla revoca
anticipata dell’incarico conferito al dipendente di categoria C.
Questa eventualità è necessario inserirla nell’atto di
conferimento dell’incarico.
|
[1] L’importo
di cui al comma 1 è stabilmente incrementato:
a) di un importo, su base annua, pari a Euro 83,20
per le unità di personale destinatarie del presente CCNL in servizio alla data
del 31/12/2015, a decorrere dal 31/12/2018 e a valere dall’anno 2019;
b) di un importo pari alle differenze tra gli
incrementi a regime di cui all’art. 64 riconosciuti alle posizioni economiche
di ciascuna categoria e gli stessi incrementi riconosciuti alle posizioni
iniziali; tali differenze sono calcolate con riferimento al personale in
servizio alla data in cui decorrono gli incrementi e confluiscono nel fondo a
decorrere dalla medesima data;
c) dell’importo corrispondente alle retribuzioni
individuali di anzianità e degli assegni ad personam non più corrisposti al
personale cessato dal servizio, compresa la quota di tredicesima mensilità;
l’importo confluisce stabilmente nel Fondo dell’anno successivo alla cessazione
dal servizio in misura intera in ragione d’anno;
d) di eventuali risorse riassorbite ai sensi
dell’art. 2, comma 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165/2001;
e) degli importi necessari a sostenere a regime gli
oneri del trattamento economico di personale trasferito, anche nell’ambito di
processi associativi, di delega o trasferimento di funzioni, a fronte di
corrispondente riduzione della componente stabile dei Fondi delle
amministrazioni di provenienza, ferma restando la capacità di spesa a carico
del bilancio dell’ente, nonché degli importi corrispondenti agli adeguamenti
dei Fondi previsti dalle vigenti disposizioni di legge, a seguito di
trasferimento di personale, come ad esempio l’art. 1, comma 793 e segg. delle
legge n. 205/2017; le Unioni di comuni tengono anche conto della speciale
disciplina di cui all’art. 70-sexies;
f) dell’importo corrispondente agli eventuali
minori oneri che deriveranno dalla riduzione stabile di posti di organico del
personale della qualifica dirigenziale, sino ad un importo massimo corrispondente
allo 0,2% del monte salari annuo della stessa dirigenza; tale risorsa è
attivabile solo dalle Regioni che non abbiano già determinato tale risorsa
prima del 2018 o, per la differenza, da quelle che l’abbiano determinata per un
importo inferiore al tetto massimo consentito;
g) degli importi corrispondenti a stabili riduzioni
delle risorse destinate alla corresponsione dei compensi per lavoro
straordinario, ad invarianza complessiva di risorse stanziate; l’importo
confluisce nel Fondo dell’anno successivo;
h) delle risorse stanziate dagli enti ai sensi del
comma 5, lett. a).
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