sabato 10 febbraio 2018

Ccnl Stato: poco innovativo, ma con qualche chiarimento, su orari e rapporto di lavoro


Il Ccnl delle funzioni centrali, pur mantenendo l’impianto poco innovativo (a dispetto dei proclami) già evidenziato nei precedenti commenti, ha il pregio di chiarire alcuni aspetti connessi alla gestione del rapporto di lavoro.

Turni. Partiamo dalla normativa sui turni. Non c’è nessuna particolare novità specifica riguardo al personale turnista, ma riveste molto interesse, invece, l’articolo 21 della preintesa riferito espressamente al personale “non turnista”. I primi tre commi di questo articolo definiscono in maniera chiara di diritti del personale non turnista:
1. Il dipendente non in turno che, per particolari esigenze di servizio, non usufruisca del giorno di riposo settimanale, ha diritto al riposo compensativo delle ore lavorate, da fruire entro 15 giorni e comunque non oltre il bimestre successivo. Allo stesso deve essere, altresì, corrisposto, per ogni ora di lavoro effettivamente prestato, un compenso pari al 50% della retribuzione oraria di cui all’art. 70, comma 2, lett. a).
2. Il dipendente non in turno che, per particolari esigenze di servizio, presti servizio in giorno festivo infrasettimanale, ha diritto, a richiesta, ad equivalente riposo compensativo per le ore lavorate oppure, in alternativa, alla corresponsione del compenso per lavoro straordinario, con la maggiorazione prevista per il lavoro straordinario festivo.
3. Nel caso di articolazione oraria su cinque giorni, il dipendente non in turno che presti servizio in giorno feriale non lavorativo ha diritto, a richiesta, ad equivalente riposo compensativo oppure, in alternativa, alla corresponsione del compenso per lavoro straordinario non festivo”.
La rilevanza di queste discipline deriva dalla circostanza che gli istituti del riposo compensativo nel caso di lavoro nel giorno di riposto settimanale, del riposto compensativo nel caso di lavoro in giorno festivo infrasettimanale e di riposo compensativo nel caso di giorno feriale non lavorativo (per esempio, il sabato) sono esplicitamente rivolti a chi non è turnista. Di conseguenza, i medesimi istituti non sono rivolti al personale turnista. Risulterà, quindi, più semplice e lineare non solo respingere eventuali richieste di riposi compensativi non dovuti, ma anche difendere in giudizio la posizione delle amministrazioni datrici di lavoro.
Ritardi. Interessanti sono le previsioni contenute nell’articolo 24 della preintesa, finalizzate a rendere più chiare e un po’ più permissive le conseguenze dei ritardi nell’ingresso al lavoro.
Si stabilisce, al comma 2, il principio della ricuperabilità dell’ammanco orario derivante dal ritardo. La norma dispone, infatti, che il dipendente ritardatario ha l'obbligo di recuperare il minor tempo di lavoro “entro l’ultimo giorno del mese successivo a quello in cui si è verificato il ritardo”.
La disposizione induce le amministrazioni a creare una sorta di conto “scalare” del tempo di lavoro, da gestire mese per mese, rilevando ammanchi orari da ritardo da addebitare al dipendente, perché li recuperi entro il mese dopo. Occorreranno sistemi di controllo piuttosto rigorosi.
Il recupero è un obbligo, come visto, il cui inadempimento, secondo la norma in esame, determina “la proporzionale decurtazione della retribuzione e del trattamento economico accessorio”. La preintesa reintroduce, non si sa con quanta consapevolezza delle parti che l’hanno sottoscritta, elementi di connessione, dunque, tra salario accessorio e presenza in servizio, senza per altro chiarire in alcun modo la proporzionalità richiesta tra evidenziazione dell’inadempimento all’obbligo di recuperare il ritardo ed incidenza sul premio di risultato. Potrebbe essere compito dei sistemi di valutazione colmare questa lacuna.
Attenzione, però: la decurtazione non risolve la questione. Il comma 2 dell’articolo 24 della preintesa conclude affermando, inevitabilmente che “resta fermo quanto previsto in sede di codice disciplinare”.
Ricordiamo, allora, che l’inosservanza dell’orario di lavoro porta alla sanzione che può andare dal minimo del rimprovero verbale o scritto al massimo della multa di importo pari a quattro ore di retribuzione.
Stante l’obbligo di recupero del ritardo entro l’ultimo giorno del mese successivo, dovrà necessariamente scattare il procedimento disciplinare laddove si accerti che il dipendente non abbia adempiuto al recupero, in tutto o in parte.
La funzione di controllo, dunque, sui cartellini finali da cui risulta il riepilogo delle timbrature dei dipendenti risulterà fondamentale ed irrinunciabile, per la corretta gestione del rapporto e per il rispetto degli obblighi dell’azione disciplinare.
Servizi fuori della sede di lavoro. Un altro chiarimento discende dal comma 3 dell’articolo 24 della preintesa (il cui contenuto probabilmente avrebbe meritato un articolo specifico, per maggiore chiarezza).
Si stabilisce che laddove il dipendente debba, per esigenze di servizio o per la tipologia di prestazione, svolgere temporaneamente la propria attività lavorativa, purchè preventivamente autorizzata, al di fuori della sede di lavoro “il tempo di andata e ritorno per recarsi dalla sede al luogo di svolgimento dell'attività è da considerarsi a tutti gli effetti orario di lavoro”.
L’indicazione appare particolarmente utile: la necessità di svolgere attività lavorativa fuori sede difficilmente può prescindere dal considerare il tempo impiegato come lavoro prestato.
Tuttavia, la disposizione di questo comma, volta a risolvere un problema operativo e gestionale non di poco momento, non appare troppo ben coordinata con le regole sul trattamento di trasferta, fissate dall’articolo 82 della preintesa, ai sensi del quale:
a)                  solo nel caso degli autisti si considera attività lavorativa anche il tempo occorrente per il viaggio e quello impiegato per la sorveglianza e custodia del mezzo”. La disposizione conferma le risalenti indicazioni contrattuali, ma la contraddizione in termini con l’articolo 24, comma 3, visto prima, appare chiara;
b)                 il tempo di viaggio può essere considerato attività lavorativa anche per altre categorie di lavoratori per i quali in relazione alle modalità di espletamento delle loro prestazioni lavorative è necessario il ricorso all’istituto della trasferta di durata non superiore alle dodici ore. A tale scopo le amministrazioni - sulla base della propria organizzazione e nel rispetto degli stanziamenti già previsti nei relativi capitoli di bilancio destinati a tale finalità, definiscono con gli atti di cui al comma 11, in un quadro di razionalizzazione delle risorse, le prestazioni lavorative di riferimento. Fino alla predisposizione di tali atti continuano ad avere vigenza le disposizioni sin qui applicate, sulla base della previgente disciplina contrattuale prevista nei comparti di provenienza”. Anche tale previsione non sembra coordinarsi con la disposizione dell’articolo 24, comma 3, perché richiede come condizione atti organizzativi interni, oggettivamente utili per disciplinare le trasferte, ma difficilmente inquadrabili come “condizione” per riconoscere come lavoro il tempo della trasferta, alla luce della disposizione dell’articolo 24, comma 3.
Probabilmente per coordinare le disposizioni sul lavoro fuori dalla sede occorrerà ricorrere a sofismi, che distinguano trasferte fuori sede, ma nel medesimo territorio, da trasferte vere e proprie, con attività prestata in città diverse da quello nel quale ricade la sede lavorativa.
Orario flessibile. Se ne occupa l’articolo 26, la cui disciplina è in linea di continuità con le ben conosciute regole della flessibilità oraria.
Merita, però, attenzione il comma 3 di tale articolo 26, ai sensi del quale “L’eventuale debito orario derivante dall’applicazione del comma 1 deve essere recuperato nell’ambito del mese successivo a quello di riferimento, secondo le modalità e i tempi concordati con il dirigente”.
La previsione attribuisce alla responsabilità del dirigente il compito di definire, col consenso del lavoratore, quando e come recuperare il debito orario derivante da un utilizzo non corretto della flessibilità oraria.
La disciplina deve necessariamente coordinarsi con quella del ritardo. E’ possibile concludere quanto segue:
1)      il ritardo deriva dall’ingresso oltre la fascia di flessibilità ultima consentita;
2)      il ritardo deve essere obbligatoriamente recuperato entro l’ultimo giorno del mese successivo, senza alcuna necessità che il dirigente concorsi col dipendente tempi e modi;
3)      il mancato recupero del ritardo implica automaticamente la decurtazione del salario ed è fonte dell’iniziativa disciplinare;
4)      il debito orario derivante dalla flessibilità può derivare sia da un ingresso in ritardo oltre la soglia della flessibilità in entrata, ma anche, ovviamente, da uscite anticipate non adeguatamente compensate da prolungamenti orari flessibili nei giorni successivi del mese;
5)      anche il recupero della flessibilità è un obbligo, come quello relativo al ritardo;
6)      a differenza del ritardo, però, il recupero del debito orario della flessibilità va concordato col dirigente e non avviene, quindi, secondo le modalità imposte dal Ccnl per il ritardo vero e proprio;
7)      trattandosi, comunque, di un obbligo, anche il mancato recupero del debito da flessibilità, nel rispetto di quanto concordato col dirigente, non può che comportare decurtazione economica e responsabilità disciplinare;
8)      il recupero non pare possa avvenire con la “conversione” del ritardo o della flessibilità in “permesso breve”. Si era espressa in termini favorevoli sulla questione l’Aran con la risposta al quesito n. 7 della raccolta sistematica degli orientamenti (reperibile qui: https://www.aranagenzia.it/attachments/article/7981/Regioni%20e%20autonomie%20locali%20-%20Raccolta%20sistematica%20orientamenti%20permessi%20brevi%20Dicembre%202016.pdf), affermando che “potrebbe essere idoneo un sistema che richiedesse la imputazione a permesso breve a recupero, ai sensi dell’art.20 del CCNL del 6.7.1995 e nel rispetto delle condizioni e delle modalità ivi prescritte, del ritardo accumulato dal dipendente. A tal fine, ad avviso della scrivente Agenzia, l’ente può tenere conto del solo periodo di tempo successivo alla scadenza del termine massimo di flessibilità oraria in ingresso applicato presso il vostro ente”. Tale assunto non è condivisibile, perché il permesso breve deve essere autorizzato preventivamente. In ogni caso, la nuova disciplina dei ritardi come emerge dalla preintesa in commento esclude ogni possibilità di recupero mediante permesso breve. Lo stesso pare debba concludersi in merito alla flessibilità.
Ferie solidali. Sono una novità introdotta dalla preintesa che consente (all’articolo 30) ai dipendenti, volontariamente e gratuitamente ,di cedere, in tutto o in parte, ad altri dipendenti
a) le giornate di ferie ancora disponibili eccedenti le quattro settimane annuali di cui il lavoratore deve necessariamente fruire ai sensi dell’articolo 10 del d.lgs. 66/2003;
b) le quattro giornate di riposo per le festività soppresse.
Questo, a condizione che i destinatari abbiano l’esigenza di “prestare assistenza a figli minori che necessitino di cure costanti, per particolari condizioni di salute”.
Detti dipendenti in stato di necessità hanno la facoltà di chiedere all’amministrazione di utilizzare ferie e giornate di riposo per un una misura massima di 30 giorni per ciascuna domanda (reiterabile), presentando allo scopo una certificazione che comprovi lo stato di necessità delle cure in questione, rilasciata esclusivamente da idonea struttura sanitaria pubblica o convenzionata.
Qualora sia presentata la richiesta, l’amministrazione la rende nota a tutto il personale garantendo l’anonimato del richiedente, innescando così il processo di devoluzione delle ferie.
Particolari motivi personali o familiari. L’articolo 32 della preintesa modifica il regime delle assenze per particolari motivi personali o familiari, fino ad oggi fruibili esclusivamente a giornate intere.
Con la nuova tornata contrattuale sarà, invece, possibile la loro fruizione frazionata in ore. Il comma 1 della norma prevede che “al dipendente, possono essere concesse, a domanda, compatibilmente con le esigenze di servizio, 18 ore di permesso retribuito nell'anno, per particolari motivi personali o familiari”.
La norma precisa che tali permessi possono essere “fruiti, cumulativamente, anche per la durata dell’intera giornata lavorativa e in tale ipotesi, l'incidenza dell'assenza sul monte ore a disposizione del dipendente è convenzionalmente pari a sei ore”.
Assenze per prestazioni sanitarie. Anche le assenze per usufruire di prestazioni sanitarie potranno essere consentite frazionate ad ore, ai sensi dell’articolo 35 della preintesa, il cui comma 1 dispone che “Ai dipendenti sono riconosciuti specifici permessi per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici, fruibili su base sia giornaliera che oraria, nella misura massima di 18 ore annuali,comprensive anche dei tempi di percorrenza da e per la sede di lavoro”.
Non sarà, dunque, più necessario assentarsi dal lavoro per un’intera giornata di malattia, laddove il dipendente debba sottoporsi a visite da espletare in orario di lavoro.
Si tratta di una norma apprezzabile, per la capacità di conciliare organizzazione del lavoro e vita privata dei lavoratori. Imporre, come fin qui, assenze a giornate intere per visite specialistiche appariva vessatorio, da un lato, ed irrazionale sul piano operativo, dall’altro: l’ufficio doveva fare a meno per l’intera giornata delle prestazioni di un dipendente, intento ad una visita specialistica magari di poche ore.
In questo modo si razionalizzano le modalità di gestione del rapporto di lavoro, sommando efficienza ed efficacia. E’ un peccato che, nonostante mesi fa se ne fosse lungamente parlato, non sia emersa la possibilità largamente utilizzata nel settore privato di concedere almeno parte anche delle ferie ad ore, un altro sistema molto efficiente per razionalizzare l’attività lavorativa, probabilmente indurre molti dipendenti a rientrare dal part time e per favorire la presenza in servizio.
I permessi orari per prestazioni sanitarie sono assimilati alle assenze per malattia ai fini del computo del periodo di comporto e sono sottoposti al medesimo regime economico, ma non sono assoggettati alla decurtazione del trattamento economico accessorio prevista per le assenze per malattia nei primi 10 giorni. Però, qualora il permesso sia fruito su base giornaliera, il trattamento economico accessorio del lavoratore subirà la medesima  decurtazione prevista dalla vigente legislazione per i primi dieci giorni di ogni periodo di assenza per malattia.
I permessi sono fruibili a condizione che siano richiesto con un termine di preavviso di almeno tre giorni. Questa previsione è in astratto criticabile, perché il preavviso appare eccessivo, in astratto, sebbene le prestazioni in teoria possano essere programmate sulla base delle indicazioni del medico curante. In ogni caso, la preintesa specifica che “Nei casi di particolare e comprovata urgenza o necessità, la domanda può essere presentata anche nelle 24 ore precedenti la fruizione e, comunque, non oltre l’inizio dell’orario di lavoro del giorno in cui il dipendente intende fruire del periodo di permesso giornaliero od orario”. Inutile sottolineare che la comprova della particolare urgenza rimane questione molte volte di lana caprina.
I permessi dovranno essere giustificati “con attestazione di presenza, anche in ordine all’orario, redatta dal medico o dal personale amministrativo della struttura, anche privati, che hanno svolto la visita o la prestazione”, che giustifica l’assenza nel caso di visita del medico legale.
Mobilità. La riforma Madia ha assegnato ai contratti collettivi la possibilità di curarsi della materia della mobilità, fatto questo piuttosto sorprendente, considerando che si tratta di un sistema sostanzialmente di reclutamento (sebbene riferito a personale già dipendente delle PA).
La preintesa si è limitata, tuttavia, ad ingerirsi della questione limitatamente alle procedure di mobilità derivanti dall’accertamento dell’eccedenza di personale, ai sensi dell’articolo 33 del d.lgs 165/2001.
L’articolo 50 della preintesa prevede una procedura a più fasi:
a)                  l’amministrazione che dispone l’eccedentarietà del personale, comunica anche a tutte le amministrazioni in ambito nazionale l'elenco del personale in eccedenza distinto per area o categoria e profilo professionale, richiedendo la loro disponibilità al passaggio diretto, in tutto o in parte, di tale personale;
b)                 le amministrazioni destinatarie di tale richiesta, qualora interessate, comunicano, entro il termine di 30 giorni, l'entità dei posti, per area o categoria e profilo, vacanti nella rispettiva dotazione organica per i quali, tenuto conto della programmazione dei fabbisogni, sussiste l'assenso al passaggio diretto del personale in eccedenza;
c)                  l’amministrazione che ha disposto l’eccedentarietà comunica i posti disponibili ai lavoratori in eccedenza, i quali che possono indicare le relative preferenze e chiederne le conseguenti assegnazioni, con la specificazione di eventuali priorità;
d)                 l'amministrazione dispone i trasferimenti nei quindici giorni successivi alla richiesta.
Dovesse risultare necessario selezionare tra più aspiranti allo stesso posto, l’amministrazione di provenienza (quella che ha dichiarato l’eccedentarietà) forma una graduatoria sulla base dei seguenti criteri:
- dipendenti portatori di handicap;
- dipendenti unici titolari di reddito nel nucleo familiare;
- situazione di famiglia, privilegiando il maggior numero di familiari a carico o i dipendenti con figli di età inferiore a tre anni che hanno diritto al congedo parentale;
- maggiore anzianità lavorativa presso la pubblica amministrazione;
- particolari condizioni di salute del lavoratore, dei familiari e dei conviventi stabili ai sensi degli articoli 36 e 50 della legge 76 del 2016;
- presenza in famiglia di soggetti portatori di handicap.
Assegnazioni temporanee. Piuttosto poco condivisibile è l’articolo 51, comma 5, della preintesa, ai sensi del quale il dipendente in assegnazione temporanea presso ente diverso da quello di appartenenza “può chiedere, in relazione alla disponibilità di posti in organico [dell’ente presso il quale è assegnato temporaneamente, nda], il passaggio diretto all’amministrazione di destinazione, ai sensi dell’art. 30 del d. lgs. n. 165/2001”.
Chi ha sottoscritto questa previsione non si è del tutto reso conto, evidentemente, che grazie ad essa potrà essere facilmente aggirato l’obbligo di procedura pubblica previsto proprio dall’articolo 30 del d.lgs 165/2001. Basterà che due amministrazioni (e il dipendente interessato) si accordino tra loro per attivare un’assegnazione temporanea, in nota presenza di vacanze d’organico di posti compatibili con profilo e categoria del dipendente interessato, per saltare a piè pari la procedura pubblica.
In ogni caso, si tratta di una tra le molte norme che ancora residuano, ma anche proliferano, nell’ordinamento, che fanno riferimento alla dotazione organica, nonostante l’articolo 6 del d.lgs 165/2001 ne preveda il superamento.
“Patteggiamento” della sanzione. La preintesa contiene una lunga regolamentazione delle sanzioni disciplinari non troppo innovativa, con l’eccezione dell’istituto della determinazione concordata della sanzione disciplinare, previsto dall’articolo 66 in modo che autorità disciplinare e dipendente possano concordare la sanzione da applicare, purchè non si tratti dei casi per i quali la legge ed il contratto collettivo prevedono la sanzione del licenziamento, con o senza preavviso.
Si tratta, dunque, di una procedura conciliativa per concordare la sanzione da applicare: non può essere utilizzata per determinare l’archiviazione dell’accusa.La sanzione concordemente determinata non può essere di specie diversa da quella prevista dalla legge o dal contratto collettivo per l’infrazione per la quale si procede. Pertanto, nel caso di multa, resta una multa e si può concordare sulla sua commisurazione.Una volta che si sia raggiunto l’accordo sulla sanzione esso vincola in particolare il lavoratore: la sanzione concordemente determinata, infatti, non è soggetta ad impugnazione.
La procedura è piuttosto articolata:a)                  la proposta di conciliazione può provenire sia dall’autorità disciplinare competente, sia dal dipendente, entro il termine dei cinque giorni successivi alla audizione del dipendente per il contraddittorio a sua difesa;
b)                 dalla data della proposta sono sospesi i termini del procedimento disciplinare, di cui all’articolo 55-bis del d.lgs 165/2001;
c)                  la proposta dell’autorità disciplinare o del dipendente e tutti gli altri atti della procedura sono comunicati all’altra parte con le modalità dell’articolo 55-bis, comma 5, del d.lgs 165/2001.
d)                 la proposta di attivazione deve contenere:
-        una sommaria prospettazione dei fatti,
-        le risultanze del contraddittorio
-        la proposta in ordine alla misura della sanzione ritenuta applicabile.
e)                  la mancata formulazione della proposta entro il termine di 5 giorni successivi dall’audizione del dipendente per il contraddittorio a sua difesa comporta la decadenza delle parti dalla facoltà di attivare ulteriormente la procedura conciliativa;
f)                   la disponibilità della controparte ad accettare la procedura conciliativa deve essere comunicata entro i cinque giorni successivi al ricevimento della proposta, sempre con le modalità dell’articolo 55-bis, comma 5, del d.lgs 165/2001. Nel caso di mancata accettazione entro il suddetto termine, da tale momento riprende il decorso dei termini del procedimento disciplinare;
g)                  la mancata accettazione comporta la decadenza delle parti dalla possibilità di attivare ulteriormente la procedura conciliativa.
h)                  qualora la proposta sia accettata, l’autorità disciplinare competente convoca nei tre giorni successivi il dipendente, con l’eventuale assistenza di un procuratore ovvero di un rappresentante dell’associazione sindacale cui il lavoratore aderisce o conferisce mandato;
i)                    inizia la negoziazione sulla commisurazione della sanzione e se la procedura conciliativa ha esito positivo, l’accordo raggiunto è formalizzato in un verbale che va sottoscritto dall’autorità disciplinare e dal dipendente; in esito a tale conciliazione l’autorità competente può irrogare la sanzione;
j)                   in caso di esito negativo, se ne dovrà dare conto sempre in un verbale; in questo caso la procedura conciliativa si estingue, con conseguente ripresa del decorso dei termini del procedimento disciplinare;
k)                 comunque, la procedura conciliativa deve concludersi entro il termine di trenta giorni dalla contestazione e comunque prima dell’irrogazione della sanzione.
l)                    la scadenza di tale termine comporta la estinzione della procedura conciliativa eventualmente già avviata ed ancora in corso di svolgimento e la decadenza delle parti dalla facoltà di avvalersi ulteriormente della stessa.





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