Per l’ennesima volta il Documento
di Economia e Finanza, il Def, finalizzato a tracciare le politiche di economia
del Governo desta molte perplessità sulla capacità di fornire indicazioni
davvero attendibili sulle dinamiche della spesa.
Personale. Concentriamoci sulla spesa per redditi da lavoro dipendenti, cioè quella riferita ai circa 3 milioni di dipendenti pubblici. Passa dai 164 miliardi del 2017 ai 171 del 2018: un incremento di 7 miliardi dovuto all’effetto dei nuovi contratti collettivi e degli arretrati; dal 2019 la spesa si stabilizza su valori poco superiori ai 169 miliardi.
La nuova contrattazione ha di
fatto quasi azzerato i risparmi sulla spesa del personale ottenuti con le gravosissime
politiche di blocco delle assunzioni e proprio della contrattazione: la spesa
per il lavoro pubblico, dunque, torna a crescere (di oltre il 4% nel 2018),
dopo che per anni era stata l’unica voce del bilancio a scendere costantemente
e in maniera rilevante.
Cosa non funziona del Def? Due
aspetti. Il primo riguarda ancora una volta la contrattazione collettiva.
Occorre ricordarsi che i Ccnl in corso di stipulazione in questi mesi sono
riferiti al triennio 2016-2018: vedono la luce, dunque, a triennio contrattuale
già concluso.
Prudenzialmente, dunque, il Def a
partire dal 2019 dovrebbe prevedere una spesa in aumento e non stabilizzata,
visto che una nuova tornata contrattuale dovrebbe avere l’effetto di
incrementare la spesa. Invece, i numeri raccontano un’altra storia.
Quali le possibili spiegazioni?
Una appare molto probabile: la stagione contrattuale che si sta chiudendo in
questi giorni è stata indiscutibilmente favorita dalla congiuntura elettorale.
Non c’è il minimo dubbio che le forze della maggioranza della passata
legislatura hanno contato sul sostegno elettorale dei dipendenti pubblici,
spingendo sull’acceleratore del rinnovo dei contratti. Questa fretta per i
prossimi anni non vi sarà. Ed è, anzi, probabile che vista la frenata
dell’economia la spesa per il lavoro pubblico dovrà nuovamente trovare forti
contenimenti. Dunque, per questa ragione non si vedono nel Def incrementi
contrattuali.
Però, i conti non tornano lo
stesso. La spiegazione fin qui fornita ha certamente senso e peso. Ma è carente
di un dato importantissimo: non considera che a partire dal 2019 inizia una
fuoriuscita di 500.000 dipendenti pubblici che andranno in pensione entro il
2021. Al costo medio di 34.000 euro l’anno, si tratta di un risparmio di spesa
per stipendi pubblici di 17 miliardi (ovviamente sul bilancio complessivo dello
Stato l’impatto è inferiore, perché ci sono le pensioni da pagare).
Ebbene, nel Def non v’è nessuna
traccia degli effetti di questo pensionamento di massa, concentrato in così
breve tempo.
Immaginare che il Governo abbia
pensato ad una copertura del turn-over del 100% è senza fondamento: nonostante
nei mesi scorsi si sia parlato un po’ a sproposito di “concorsone” o di un mega
piano di assunzioni, le condizioni della finanza pubblica, con la spesa in
continuo aumento, da un lato, e le difficoltà amministrative e burocratiche non
lasciano credere nemmeno un po’ che in questo lasso di tempo la pubblica
amministrazione voglia, ma soprattutto possa, rimpiazzare così velocemente
500.000 dipendenti in pensione, avendo così a cuor leggero l’effetto di
risparmio di decine e decine di miliardi.
Appalti. La seconda voce
che desta perplessità (e non da ora: vedi qui
e qui)
è quella relativa alle spese per consumi intermedi, connesse, cioè, agli
appalti per forniture e servizi. Il Def ne prevede una crescita annuale costante
e inesorabile.
Questo appare, il segno
definitivo del fallimento dell’obiettivo di ridurre questa tipologia di spesa
corrente, a distanza di diversi anni ormai dall’attuazione (sia pure ancora
parziale) dell’idea di Carlo Cottarelli di ottenere risparmi riducendo le
stazioni appaltanti “da 30.000 a 30”, per ottenere così “economie di scala”.
Un’idea bislacca, che ha inciso
in modo non poco significativo sulle complicazioni contenute nel codice dei
contratti e che porta a radicalismi incredibili. Da un lato, gli appalti della
Consip si sono ingigantiti ed esposti alla corruzione come non mai, e sempre
più frequentemente segnano il passo, aggrediti come sono da continui ricorsi
(cosa che si sta ripetendo anche per i grandi appalti degli altri soggetti aggregatori).
Dall’altro lato, ha dato vita a radicalismi interpretativi, a loro volta
segnali del distorto modo di concepire la funzione di controllo collaborativi a
detrimento della dignità della funzione di amministrazione attiva: ci si
riferisce alle sezioni regionali della Corte dei conti che hanno più volte
ritenuto i comuni obbligati a rifornire di carburante i propri mezzi di
servizio utilizzando le convenzioni della Consip, nonostante i distributori
convenzionati fossero a chilometri di distanza e, quindi, risultasse
antieconomico, contrario a buon andamento, contrario a qualsiasi principio di
organizzazione aziendale, utilizzare questi invece del distributore presente
nel territorio comunale.
I “risparmi” favoriti dalla Consip o dalle altre centrali acquisti di
cui si favoleggia regolarmente sui giornali, semplicemente non ci sono: il Def
lo attesta. Ma, nessuno ha fin qui avuto la forza ed il coraggio di ammettere
che la strada intrapresa col codice dei contratti su questo campo è sbagliata,
molto sbagliata.
Non credo che nessuno ammetta la verità per cattiveria ma forse, più crudamente, perchè molti tra cosiddetti addetti ai lavori e commentatori che scrivono sui media sono o corrotti o collusi o non vogliono perdere la rendita di posizione o, più probabilmente, sono semplicemente ignoranti (nel senso che ignorano la realtà e parlano e vivono come se stessero su Marte).
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