domenica 15 luglio 2018

Decreto dignità: quando alcune valutazioni e critiche appaiono scritte sulla sabbia

Sul decreto dignità è corretto avanzare ogni critica e ogni perplessità, considerato che oggettivamente la norma appare lacunosa e frettolosa.
L’oggettività dell’analisi, tuttavia, dovrebbe indurre a prudenza maggiore sulle valutazioni e sulle prospettive.

Una prima previsione è ormai divenuta celeberrima ed è quella contenuta nella famosa relazione tecnica, che prevede, appunto, la perdita di 8.000 posti l’anno per 10 anni.
Senza alcuna volontà di prendere le parti, queste valutazioni sembrano tanto frettolose e lacunose quanto il decreto legge cui si riferiscono.
Non sono note e non potranno mai esserlo le basi tecniche di una stima che, per altro, estendendosi fino a 10 anni assume fin troppo il carattere che da tendenza passa a lettura della sfera di cristallo.
A poter ridurre il numero dei contratti di lavoro dello 0,4% l’anno (questo è il rapporto: 8000 contratti a termine sui 2 milioni attivati annualmente) piu’ realisticamente dell’accorciamento della durata massima da 36 a 24 mesi (si noti che in Europa è proprio di 24 mesi la durata generalmente ammessa, mentre sono circa 80.000 l’anno i contratti a termine che giungano fino al traguardo del 36 mesi) sembrerebbe l’incremento certamente non irrilevante dei contributi previdenziali. Ma, questo aumento interessa solo i rinnovi oltre il dodicesimo mese, in un mercato del lavoro nel quale la grandissima parte dei contratti a termine non va mai oltre i 12 mesi.
Insomma, la connessione diretta tra riduzione del numero dei contratti a termine ed effetti del decreto, che per altro sarebbe assolutamente possibile, sembra scritta un po’ con inchiostro di facile scoloritura.
Una seconda valutazione negativa della riforma è molto gettonata e concerne il “maggior costo” anche dei contratti a tempo indeterminato.
Detto “maggior costo” deriverebbe dall’aumento da 24 a 36 mesi delle mensilità da calcolare per il computo dell’indennità dovuta dai datori di lavoro nel caso di licenziamenti illegittimi per assenza di giustificato motivo soggettivo o giusta causa.
Questa connotazione negativa della riforma rasenta davvero il paradosso. In primo luogo, perché un lavoratore assunto a tempo indeterminato a partire dal 2015, quando è entrato in vigore il d.lgs 23/2015 sul contratto “a tutele crescenti” se licenziato possa ottenere non 24 ma 25 mensilità, occorre attendere 17 anni e mezzo. Se ne parlerebbe nel 2032. Per altro, con l’andamento attuale dell’economia e l’evoluzione del lavoro, l’aspettativa di contratti a tempo indeterminato che giunga fino a 18 anni non appare oggettivamente molto ampia, purtroppo.
Ma, al di là della circostanza che “l’aumento del costo del tempo indeterminato” si concretizzerebbe solo tra almeno 17 anni, si dimentica che nella realtà l’indennità che nel suo massimo passa a 36 mesi è una sanzione per un inadempimento del datore. Non si tratta di un costo del lavoro “corrente” o “ordinario”, ma appunto di un’indennità straordinaria, che deriva da una condanna del giudice cagionata da un licenziamento illegittimo, per assenza di giustificato motivo soggettivo o giusta causa. Non sarebbe, allora, il caso di dimenticare che se l’azienda non licenzia in modo avventato e illegittimo, non scatta alcun obbligo di pagare nessuna indennità, la quale non è “costo del lavoro”, ma, si ribadisce, penale per inadempimento.

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