La tragedia del ponte Morandi a
Genova ha scatenato una sequela incredibile di insensatezze e sciocchezze, diffuse
a piene mani dalla stampa, davvero non si capisce se allo scopo di distrarre,
depistare o reggere bordone a qualcuno. Tutto, comunque, fuorchè fornire
informazioni corrette, come sarebbe necessario.
Il governo non può farsi giustizia da sé. La principale tra le
considerazioni davvero prive di ogni fondamento è questa.
Indubbiamente le incaute ed
eccessive esternazioni dei ministri, compreso il Presidente del consiglio, a
botta calda non hanno aiutato.
La frase “non possiamo aspettare
i tempi della magistratura” è stata assolutamente infelice ed inopportuna.
Tuttavia, al di là della scarsa
capacità comunicazionale e di controllo denunciata da queste esternazioni, non
è corretto riferirsi ad esse per concludere che si stanno violando i principi
dello Stato di diritto, addirittura, con un Governo che vuol farsi giustizia da
sé nei confronti di Autostrade per l’Italia.
La sfortunata e comunque non
giustificabile, nella forma, dichiarazione del premier non può che essere letta
nel senso che il Governo avrebbe attivato i meccanismi sanzionatori nei
confronti del concessionario, compresi quelli finalizzati all’interruzione
anticipata del rapporto concessorio, senza collegare l’azione amministrativa e
civile con quella penale e, dunque, senza il vincolo dell’attesa dei tre gradi
di giudizio.
Anche perché il piano delle
responsabilità amministrative e civile è parallelo e completamente diverso da
quello penale. Le prime responsabilità possono verificarsi ed essere comprovare
anche se eventuali iniziative penali si dovessero concludere con assoluzioni
per tutti; e viceversa, la condanna penale non implica automaticamente
responsabilità amministrative e civili.
Queste cose chi grida alla “violazione
dello Stato di diritto” le sa benissimo e sta solo confondendo le acque.
Dopo troppi giorni a sparare dichiarazioni
bellicose, il Governo pare aver avviato la procedura prevista dall’articolo 9
della convenzione del 2007 con Autostrade per l’Italia, finalizzata alla
decadenza dalla concessione.
E’ bene precisare che per giungere
alla decadenza non occorre alcuna sentenza del giudice. Non si tratta né di
giustizia sommaria, né di travalicamento della separazione dei poteri, né di
giustizia “fai da te”.
L’ordinamento civile ed amministrativo
prevedono, da sempre, la possibilità per le parti di regolare, con clausole
contrattuali sulle quali prestano consenso reciproco, strumenti di cessazione
anticipata di rapporti durevoli nel tempo, aventi carattere sanzionatorio di
inadempimenti considerati gravi ed essenziali: la risoluzione o il recesso o,
nel diritto amministrativo, la decadenza.
Trattandosi di facoltà che il
contratto o, nel caso di specie, la convenzione rimette al potere del Governo,
se il esso attiva la procedura per la decadenza non sta compiendo nessuna
violazione di alcun principio giuridico di separazione dei poteri, né si sta
facendo “giustizia da sé”. Sta solo applicando una clausola contrattuale,
concettualmente ed astrattamente non diversa da quelle clausole che nell’ordinamento
lavoristico consentono al datore di lavoro di interrompere il rapporto col
lavoratore e che tutti considerano, per questo ambito, bellissime, dovute,
moderne e fonte di progresso.
Se si andrà davanti al giudice
sarà perché il Governo forse proverà ad ottenere una pronuncia di risarcimento
del danno e perché, per parte sua, Autostrade per l’Italia contesterà la
liceità della decadenza, pretendendo a sua volta un risarcimento (oltre alla
penale miliardaria conseguente alla dissennata clausola sulla decadenza) o comunque
la corresponsabilità del Governo per non aver adeguatamente vigilato sulle
manutenzioni.
Grandi opere e manutenzioni. L’altra grande millanteria è quella
che l’Italia in questi anni ha rinunciato alla modernità, per aver detto sempre
e solo no alle grandi opere.
Come esempio degli effetti negativi
del “no ad ogni costo” si cita la mancata realizzazione della Gronda, proprio a
Genova.
Si dimenticano, tuttavia, alcuni
particolari non trascurabili. In primo luogo, la Gronda anche fosse partita nel
2009, quando il comune di Genova si disse contrario al progetto, difficilmente
avrebbe visto la luce entro il 2018.
In secondo luogo, il declino
degli investimenti in Italia non è certamente causato dalla rinuncia alle grandi
opere. Queste richiedono tempi di progettazione e realizzazione lunghissimi e
defatiganti (fin troppo). Si pensi al Mose (e si ricordino anche gli scandali
connessi alla corruzione emersa).
Le grandi opere, anche quando
possono contribuire alla facilitazione di comunicazioni e collegamenti, come il
caso della Gronda, non si possono però sostituire alle necessarie manutenzioni
continue. Le quali hanno il solo “vizio” di essere spesso poco visibili e difficilmente
“inaugurabili”. Il ponte Morandi doveva essere manutenuto e controllato anche
durante la costruzione della Gronda, che per altro non lo avrebbe sostituito,
ma affiancato.
Inoltre, le grandi opere possono
rivelarsi utili solo se inserite in contesti ricettivi e coerenti. Per anni l’Italia
ha inseguito la chimera del ponte sullo Stretto: una mega opera, costosissima,
complicatissima, dai mille problemi costruttivi, che avrebbe collegato la Penisola
alle trazzere della Sicilia…
Responsabilità per il crollo e minoranze che dicono no. Se i
competenti che fino a pochi mesi fa hanno governato e gestito sono così
preoccupati di chi “dice sempre e solo no”, dovrebbero spiegare, allora, perché
abbiano introdotto nel codice degli appalti, per altro con fanfare e
strombazzature, l’istituto del debàt public (dibattito pubblico, causa il
misero provincialismo italiano, non si poteva dire…).
Cosa ci si aspetta? Che nelle
consultazioni tutti acclamino sempre e comunque qualsiasi progetto, utile o
dissennato, proposto dalla maggioranza di turno?
E’ evidente che in qualsiasi
consultazione si manifestino dissensi rispetto alle iniziative proposte: si
chiama “democrazia”.
Irridere nei confronti di chi
dissente, tacciandoli di affetti da sindrome di NIMBY, è ingeneroso e antidemocratico.
A parte che chi vive ai Pariolo o acquista mega ville milionarie pur con soli
15.000 euro nel conto corrente non dovrà mai fare i conti col pilone di un
viadotto a pochi centimetri dalle finestre di casa sua, il dissenso è ammesso e
regolato. La responsabilità di chi governa consiste nel ponderare l’interesse generale
con quello dei singoli, anche riuniti in comitati molto chiassosi e, se si
dimostra che l’interesse generale è prevalente, decidere nonostante i comitati
del no e anche a costo di perdere consenso e di non tornare a sedersi sugli
scranni politici al successivo giro.
Se chi governa non è in grado di
agire nel rispetto della democrazia e di fornire argomenti seri e forti contro
i “no” e si fa imbrigliare da questi, la responsabilità delle mancate scelte
non è di chi sta all’opposizione, ma sempre e solo di chi detiene il potere/dovere
di decidere.
Responsabilità del crollo. Una cosa è certa: il ponte è crollato, con
un tributo di sangue di oltre 40 vittime ed altre decine di ferite, oltre alle vite
spezzate dei familiari delle vittime e all’economia devastata di una città e dell’intero
Nord Ovest.
Altra cosa è certa: qualcuno ne
è responsabile. Si stanno cominciando a diffondere a macchia d’olio articoli
sulle carenze progettuali del Morandi.
Sarà anche vero che il ponte di
Genova si è subito mostrato afflitto da moltissimi problemi strutturali, tanto
che non sono mancati nel corso degli anni interventi sugli “stralli”.
Non si vorrebbe, però, che si
orientasse la responsabilità sul progettista, per altro da lungo tempo ormai
morto.
Qualcuno è responsabile. E’
emerso che Autostrade per l’Italia a maggio aveva pronto il bando di gara per “interventi
urgenti” sul ponte, però rinviati a settembre.
Ora, se da anni molti affermavano
la problematicità delle strutture del ponte, se un bando “urgente” per lavori
da 20 milioni era in rampa di lancio, convince ben poco la circostanza che si
leggano dichiarazioni secondo le quali non vi erano segnali o avvisaglie del
crollo imminente.
Il ponte fu costruito oltre 50
anni fa, con dimensioni per altro inadeguate al flusso di traffico di 50 anni
dopo e sena nemmeno corsie di emergenza. Giunti ai 50 anni di età e noti i
problemi strutturali, talmente noti da indurre anche alla soluzione della
Gronda, è da capire perché mai non si sia deciso di alleggerire il carico del
ponte, con opportuni divieti di transito da far rispettare in maniera ferrea.
Oppure di chiuderlo del tutto.
Certo, la chiusura avrebbe
creato disagi, ovvio. Ma, disagi di certo inferiori a quelli causati dal crollo
e, per altro, senza vittime.
Strade e province. Le province ormai da 3-4 anni chiudono l’accesso
a strade e ponti, o, se e quando va bene, limitano la velocità a 30 all’ora
oppure vietano il transito a carichi pesanti.
Chi oggi si stupisce o si
indigna per i pochi soldi dedicati alla manutenzione di strade vetuste,
costruite prevalentemente nel corso del boom della ricostruzione tra gli anni ’60
e ’70, spesso è anche chi ha avviato la campagna del populismo, oggi messo all’indice.
Per anni abbiamo assistito al
linciaggio delle province, alla richiesta a gran voce della loro abolizione, specie
da parte di giornali e giornalisti che, però, ora si rendono conto che occorre
un censimento delle strade e dei ponti pericolosi e che i 30.000 chilometri di
trade provinciali, essenziali per il convivere civile e l’economia, sono a
rischio.
Chi ha fatto le campagne contro
le province ha favorito la scelta dissennata del Governo Letta, portata a
termine dal Governo Renzi, di avviare una riforma che ha privato le province
delle risorse finanziarie ed umane per manutenere quelle strade e quei ponti.
Il tutto sotto la regia di Delrio,
Ministro per gli affari regionali sotto il Governo Letta ed autore della
tragica riforma delle province, poi passato al Ministero delle Infrastrutture,
tra vaneggiamenti di ponti sullo Stretto e tardive pubblicazioni, parziali
(senza i piani finanziari) delle concessioni autostradali secretate.
Grandi opere e manutenzioni – 2. Decenni passati a chiedere l’abolizione
delle province hanno prodotto scelte populiste assurde, come la riforma Delrio.
La quale non ha portato alcun risparmio per lo Stato: le risorse sottratte alle
province, gran parte delle quali erano destinate a manutenere strade e scuole
superiori (altri edifici quasi tutti “ammalati” e pericolosi), non sono servite
a ridurre le tasse e sono stati dirottati dai bilanci delle province a quello
dello Stato.
La spesa dello Stato ha
continuato a crescere, a differenza di quella degli enti locali, a causa di una
politica che dagli anni 2000 ad oggi, nella ricerca del taglio alla spesa per provare
a rispettare gli equilibri imposti dai trattati Ue, ha preso di mira quasi esclusivamente
i bilanci locali. E sono proprio gli enti locali proprietari e titolari del compito
di manutenere la gran parte delle strade e delle scuole in Italia.
Da qui, il crollo degli
investimenti e delle manutenzioni, proprio in quel decennio nel quale le opere
costruite tra gli anni ’50 e ’70 (quante scuole, quante strade…) entravano nel
periodo critico e a rischio.
Le manutenzioni sono state
ridotte drasticamente quando più erano necessarie, per assenza di finanziamento,
mentre appunto si favoleggiava di grandi opere, senza comprendere che non è
possibile immaginare di dirottare gli investimenti dalla manutenzione alle mega
strutture: le prime sono e restano essenziali, come le strade provinciali che
non saranno chiuse quando e se partirà la Pedemontana, come non furono chiuse
mentre si articolava la rete delle autostrade.
Dirigenti che non fanno gli appalti. Altra affermazione che di
diritto entra nel bestiario è quella che i dirigenti pubblici sono in fuga
dalla responsabilità e non vogliono presiedere le gare d’appalto, così da
rendere in ogni caso impossibile il rilancio delle infrastrutture.
Chi scrive queste cose davvero
non sa di cosa parla. Non sa che, sempre il populismo trionfante non solo oggi,
ma ormai da tre lustri, ha indotto a una regolamentazione degli appalti
semplicemente assurda.
Il nuovo codice dei contratti ed
una serie di leggi finanziarie rendono la procedura di acquisto della risma di
carta gravosa come l’appalto per la realizzazione di una piattaforma
petrolifera, imponendo più livelli progettuali, programmazioni pluriennali, sistemi
di impegno di spesa cervellotici causati da una contestuale riforma della
contabilità pubblica semplicemente senza senso, nonché una serie di
pubblicazioni spesso duplicate e mille adempimenti amministrativi, che l’Anac
sanziona prontamente se non portati avanti, mentre non riesce, però, a
prevenire le mega corruzioni degli appalti Consip o del sistema di Mafia
Capitale.
Però, se per acquistare una
penna occorre agire come se si attivasse un appalto da 10 miliardi, questo tipo
di appalti è spesso oggetto di deroghe e semplificazioni impensabili.
Il codice degli appalti ha
introdotto il principio della “rotazione” degli appaltatori, perfettamente corretto
ed utile allo scopo di evitare la continua chiamata senza gara dello stesso
appaltatore.
Ma, le Linee Guida dell’Anac ed
una consistente parte della giurisprudenza, anche a causa della scrittura del principio
di rotazione nel codice, ne danno una lettura radicale, tale da imporre il divieto
al precedente appaltatore di prendere parte a procedure successive, sebbene
queste non siano affidamenti diretti, ma confronti concorrenziali, anche
strutturati.
Così, mentre non si ammette la
banalissima regola concorrenziale secondo la quale la ditta che riesce a
dotarsi di un know how specifico possa e debba concorrere in posizione migliore
di altri per certi appalti, finchè altra ditta non la superi in capacità ed
efficienza, invece si ammette che le concessioni autostradali, megamiliardarie,
si affidino senza gara. E se è praticamente impossibile prorogare la durata di
un appaltino di pulizie per la sede di un piccolo comune, è invece possibile prorogare
di 4 anni dal 2038 al 2042 le concessioni autostradali, senza uno straccio di
motivazione, senza nessun beneficio sui pedaggi. E se per appalti anche piccoli
occorre pubblicare due, tre, quattro volte bandi, documenti, contratti, le
convenzioni autostradali per anni sono state sottoposte a segreto di Stato e
poi desecretate ma solo in parte. E se tutte le amministrazioni e società
pubbliche sono soggette alle centinaia, migliaia di adempimenti meri per
pubblicazioni ai fini della trasparenza, le società autostradali, siccome quotate
in Borsa, ne sono esentate.
Ma, il codice dei contratti non
finisce di regalare assurdità. I dirigenti pubblici non hanno alcun problema ad
adempiere al dovere d’ufficio di presiedere le gare.
Forse, però, a chi spara a salve
la critica sulla fuga dalla responsabilità sfugge che proprio il codice dei contratti,
ascoltando le lobby interessate (molto contente) ha imposto che presidenti e
componenti delle commissioni debbano essere esterni, non dipendenti pubblici;
ed ha previsto, però, una norma transitoria per regolare questo aspetto,
scritta malissimo ed incomprensibile: tanto che puntualmente la magistratura
amministrativa ha espresso sentenze diametralmente opposte ed inconciliabili.
Fermando, quindi, spesso le gare o sancendone l’illegittimità in molti casi.
Sicuro che la responsabilità sia dei dirigenti-che-fuggono-dalle-loro-responsabilità?
Della commissione non può far
parte il dirigente né chiunque altro abbia gestito le istruttorie tecniche o
amministrative; nel periodo transitorio (che tra poco si conclude), quindi ogni
amministrazione ha aperto la “caccia” a dipendenti che non avessero nemmeno
sfiorato con le molle le carte, per gestire gare di cui nulla sapevano (molto
efficiente tutto questo, vero?). Nemmeno il responsabile unico del
procedimento, secondo il codice, ma anche secondo l’Anac e anche secondo la
magistratura amministrativa puntualmente ed ovviamente divisa sul punto, può
partecipare alla commissione; però, dicono il codice, le Linee Guida e alcune
sentenze, invece può anche partecipare: una lotteria.
Chi vincerà alla fine? I professionisti
esterni che in autunno dovranno essere necessariamente chiamati per comporre le
commissioni con costi talmente esorbitanti che persino il Tar
Lazio ha considerato il decreto ministeriale in merito una follia. Ma, secondo
il bestiario del ponte, la colpa è dei dirigenti-che-fuggono-dalle-loro-responsabilità.
Penali. Chi ha avuto l’interesse a leggere la convenzione tra
Ministero delle infrastrutture ed Autostrade per l’Italia non potrà non restare
impressionato dalla laconicità, se non povertà, delle clausole sulle responsabilità
del concessionario.
Tutti i contratti di appalto,
anche quelli stipulati dal più sperduto comunello, prevedono casi espliciti di
risoluzione del contratto in danno dell’appaltatore per grave inadempimento,
descrivendo ipotesi come la rovina dell’opera.
Nella convenzione di ciò non si
ha traccia, sebbene una non sufficiente manutenzione o una non corretta
regolazione del traffico e dei carichi non elimini per nulla il rischio di
eventi tragici, sulla rete delle grandi autostrade, come purtroppo si è visto.
Sì, la manutenzione e la
riparazione sono indicate come un obbligo del concedente. Ma, non v’è traccia
di una codificazione di responsabilità direttamente connesse ad eventi clamorosi
come quelli di Genova.
E, pertanto, la decadenza, che
di per sé è uno strumento amministrativo di chiusura anticipata di una concessione
generalmente connessa proprio ad inadempimenti gravissimi, nella convenzione è
soggetta esattamente a quelle stesse penali, onerosissime, da decine di
miliardi (mentre si favoleggiava di inesistenti risparmi finanziari sulle
province, si segretavano concessioni che espongono lo Stato a 20 miliardi di
penale se prova ad interrompere le concessioni anche per inadempimento grave…),
previste per strumenti di chiusura anticipata come la revoca o la risoluzione,
non necessariamente connessi a danni gravi.
Mentre si accusa il Governo di
farsi giustizia da sé, lo si accusa anche di esporre il contribuente e il Mercato
a conseguenze dannose se prova ad avvalersi della decadenza, anche a causa
della penale prevista.
Ma ben poco si sta incentrando l’attenzione
sulle responsabilità di chi a cuor leggero abbia previsto penali a carico dello
Stato anche se faccia decadere il concessionario da responsabilità proprie
(certo, da accertare e dimostrare). Rendendo difficoltosissimo il percorso
giuridico ed eventualmente giudiziario per provare che il danno grave è tale che
la decadenza non è dovuta a semplice inadempimento ai doveri di manutenzione,
bensì ad una totale incuria (elemento di cui nella convenzione non si ha traccia).
La convenzione è, di fatto, un capestro che lo Stato si è autoinflitto, non si
sa perché, che però si sbandiera come strumento per impedire l’esercizio di una
facoltà, la pronuncia della decadenza, pur contrattualmente prevista.
Se un simile contratto fosse
stipulato da una piccola o media stazione appaltante ed andasse all’attenzione
della Corte dei conti, questa colpirebbe sena alcuna pietà l’autore di simile
regolazione giuridica tanto manifestamente dannosa per le casse pubbliche,
ovviamente dopo solo il danno prodotto alla logica ed al buon senso.
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