E così anche il disegno di legge delega “Per il miglioramento della Pubblica Amministrazione” ha preso corpo.
A leggerlo, chiunque conosca la
travagliatissima stagione dei quasi 30 anni di riforme della pubblica
amministrazione, non può che restare sgomento, di fronte alla coazione a
ripetere sempre e costantemente le stesse idee fruste, vetuste, ritrite, vecchie,
fallimentari, che ritornano in un continuo circolo vizioso.
Sembra che il tempo si sia fermato
a due eventi: la riforma Bassanini e la riforma Brunetta, tanto che qualsiasi
altra riforma altro non è nella sostanza se non una riformina bassaninina e
brunettina, un cocktail che prende un po’ qua e un po’ là le idee contenute in quelle
due pietre miliari del riformismo all’italiana del tutto vano e rovinoso. Di
quelli che produce disastri come la riforma delle province, per capirsi.
E’ evidente che si pone un
problema piuttosto grave di staff. La continuità nella riproposizione delle
stesse misure, più o meno annacquate e più o meno in contraddizione tra loro
(ruolo unico della dirigenza sì, poi no, poi forse, mobilità senza nulla osta
sì, poi no), a prescindere dalla persona che occupa il ruolo di Ministro a
Palazzo Vidoni ed a prescindere dalla formazione politica di cui è espressione,
a questo punto svela che vi sono consulenti e componenti della struttura fermi
alla riproposizione ossessiva di questi e soltanto questi temi, configurandola
sempre come la grande riforma della PA, a disdoro degli anni ed anni in cui si
è dimostrata la totale inefficacia di queste idee.
Guardiamo la prima delega,
relativa alle modalità di accesso al pubblico impiego. Come criterio di delega,
per “migliorare” la PA si prevedono “prove
differenziate, di tipo teorico e pratico, in relazione alle professionalità da
reclutare e orientate a selezionare i candidati migliori sulla base delle
competenze possedute”. Ma, chi scrive questi criteri ha mai fatto parte di
una commissione di concorso? Gli è noto che da oltre 25 anni è esattamente così
che le prove sono condotte? E, poi, quale sarebbe la scoperta che il concorso dovrebbe
selezionare i candidati migliori?
Inevitabilmente, accanto ai
cascami bassaniniani e brunettiani non possono non emergere acquisizioni più
recenti dell’amministrativismo all’amatriciana, come l’accentramento
procedurale. Non essendo ancora chiaro che per gli appalti pubblici una delle
idee maggiormente fallimentari è costituita esattamente dalla riduzione delle
stazioni appaltanti e dall’accentramento delle procedure (cosa che favorisce
casi clamorosi di mala amministrazione come il caso del facility management
della Consip), si intende ripetere questo schema controproducente anche per i
concorsi. La delega vuole spingere le amministrazioni al concorso unico anche per
tutte le amministrazioni locali. Per fortuna, si pensa di agire con incentivi e
non mediante imposizioni. Ma, l’idea di fondo è il caricamento di decisioni e
competenze presso il centro, come se l’accentramento fosse la soluzione al
problema della selezione. Che certamente ha necessità di criteri standard, ma
non può non conformarsi ad esigenze operative, di tempistica e di
programmazione locali, che un apparato unico ben difficilmente potrà garantire.
E, come per gli appalti, il
disegno di legge immagina un albo nazionale dei componenti delle commissioni di
concorso: la ripetizione del collo di bottiglia procedurale, nel quale nel 2019
inevitabilmente si strozzeranno le procedure di appalto.
L’articolo 3 “scopre” un altro
tema “inedito”: il “merito” e la “premialità”. In effetti, in questi anni non
se ne è mai parlato.
Nella pubblica amministrazione
sono proprio mancate, leggi, decreti, regolamenti, commissioni, autorità,
nuclei, che si occupassero del “merito” e della “performance”.
Ancora si torna su un tema, che
ingabbia da anni le amministrazioni nella creazione di una complessa
documentazione contrattuale e regolamentare, a costituire e remunerare gli organismi
indipendenti di valutazione, di attivare il “ciclo della performance”, irto di
documenti, allegati, afflitto da scadenze, revisioni, aggiornamenti, composto
da modalità complicatissime e capillari per riconoscere il “merito” attraverso
una “premialità” che, alla luce della realtà dei fatti, si traduce in un
compenso lordo medio annuo di circa 2000 euro.
Un sistema bizantino,
farraginoso e costosissimo per “premiare il merito” che nel
privato nessuna azienda si sognerebbe mai.
Eppure, anche nel 2018, ancora
nel 2018, si insiste su questa strada. E anche in questo caso con l’accentramento
che intaserà immancabilmente tutto. Infatti, i criteri di delega immaginano un “Sistema nazionale di valutazione della
performance coordinato dal Dipartimento della funzione pubblica, finalizzato
anche all’individuazione e condivisione delle buone pratiche in materia di
gestione del ciclo della performance”. Facile pensare subito all’infelice e
tragicomica esperienza della Civit, affondata poco dopo la sua nascita, senza
che alcuno abbia traccia del lavoro svolto.
E poiché la “produttività” del
lavoro pubblico si continua a comparare con quella del sistema privato, senza
riconoscere la differenza profonda dei due sistemi, per l’ennesima volta si
pensa all’utilizzazione “di soggetti,
anche estranei alla pubblica amministrazione, in possesso di una comprovata
competenza in materia di organizzazione amministrativa e di gestione delle
risorse umane”. Come se le migliaia di costosi “consulenti esterni” esperti
di aziendalismo non avessero in questi anni, dall’alto della loro “competenza
in materia di organizzazione” prodotto il nulla di concreto, che induce ogni
sei mesi qualsiasi Governo a riformare la riforma della riforma della riforma
del sistema di valutazione, per produrre, come detto sopra, alla fine solo una
riformina brunettina e poco più.
Il sistema dovrà “rendere effettiva la confrontabilità della
performance organizzativa delle amministrazioni attraverso la definizione di
indicatori comuni, anche allo scopo di individuare le migliori pratiche e
favorire la loro diffusione”. Ottima idea. Identica pensata contenne nel 2009
il d.lgs 150/2009. A che serve ripetere continuamente questi archetipi? Perché non
metterli in piedi, una buona volta?
La risposta a questa ultima
domanda è semplice. Perché il legislatore, ancora una volta, invece di badare
al contenuto, insegue il contenitore. Non si pensa a cosa valutare, ma al metodo,
alla consulenza, alla procedura, all’iter.
Siamo ancora avvolti nella fiction modello delle pubblicità anni ’80 e ’90 piena di finti
manager che brindano col whisky dopo aver affermato "abbiamo
l'esclusiva" in una "Milano da bere", nella quale le donne, nel
trucco e nel profumo, cercano la performànce, “perché io valgo”. Un ritratto
del mondo, del lavoro figlio di un trentennio di illusione sociale, televisiva
e giornalistica e, comunque, lontanissimo dalle concrete questioni concernenti
la pubblica amministrazione.
Essa non è un corpo unico. Anche
un ente considerabile univoco, come il comune, in realtà è una struttura
complessa, chiamata ad esercitare una quantità enorme di competenze e funzioni
diversificate, cosa che mai nessuna azienda, perfino una multinazionale affronterebbe
mai.
Ancora, si ripete allo
sfinimento che il dipendente pubblico sia da incentivare con lo zuccherino
della produttività. Insufflando sempre e costantemente la convinzione, nei dipendenti
stessi ma soprattutto nei cittadini, che il buon andamento, l’efficienza, lo
svolgimento corretto dei compiti siano condizionati dal premio finale. I
cittadini, quindi, sono portati a pensare che il dipendente gestisce ed agisce
solo in funzione del “premio”. I dipendenti pubblici sono continuamente immersi
in strategie che, lungi dall’essere realmente premiali ed incentivanti,
finiscono per essere una spinta a gareggiare tra loro all’arma bianca per dividersi
somme che nel privato attribuiscono senza fatica alcuna con la quattordicesima
e con gli scatti di anzianità. Il tutto, creando, oltre al caos dei sistemi di
valutazione macchinosi, complesse e conflittuali relazioni sindacali e rivalità
interne, il cui frutto tutto è, salvo la maggiore produttività.
Tanto da aver indotto il
legislatore a forzare il sistema e far figurare comunque una diversificazione obbligatoria
in dipendenti bravi, medi e scarsi: le famose tre fasce di Brunetta, mai entrate
in vigore, ma mai uscite dallo schema mentale di chi insiste a proporre queste
riforme.
Lo abbiamo già
scritto e lo ripetiamo: “nel sistema privato,
sempre preso a riferimento, parametro e confronto per discettare di lavoro
pubblico, le cose stanno così? Cioè, l’assegnazione del salario di produttività
deve essere collegata necessariamente a complessi progetti da cui discenda
l’incremento dei servizi erogati, o comunque una prestazione lavorativa
maggiore ed ulteriore a quella ordinariamente richiesta al lavoratore, tale,
per altro, da imporre una differenziazione globale così minuta da escludere
attribuzioni di premi “aziendali”, per riferirli quasi al livello di singolo
dipendente?
Diremmo
proprio di no. Per convincerci, basta dare un’occhiata attenta al decreto del
Ministero del lavoro 25 marzo 2016, attuativo dell’articolo 1, comma 182, della
legge 208/2015, che ha reintrodotto gli sgravi appunto per il salario “di
produttività”. Detto decreto in allegato approva una scheda di monitoraggio
delle caratteristiche dei contratti aziendali, per valutare se essi abbiano i
requisiti perché le aziende possano accedere agli sgravi. La Sezione 6 di
questo modulo, titolata “Indicatori previsti nel contratto” è molto istruttiva,
perché contiene 19 possibili indicatori: eccoli:
1)
Volume della produzione/n. dipendenti
2)
Fatturato o VA di bilancio/n. dipendenti
3)
MOL/VA di bilancio
4)
Indici di soddisfazione del cliente
5)
Diminuzione n. riparazioni, rilavorazioni
6)
Riduzione degli scarti di lavorazione
7)
% di rispetto dei tempi di consegna
8)
Rispetto previsioni di avanzamento lavori
9)
Modifiche organizzazione del lavoro
10)
Lavoro agile (smart working)
11)
Modifiche ai regimi di orario
12)
Rapporto costi effettivi/costi previsti
13)
Riduzione assenteismo
14)
N. brevetti depositati
15)
Riduzione tempi sviluppo nuovi prodotti
16)
Riduzione dei consumi energetici
17)
Riduzione numero infortuni
18)
Riduzione tempi di attraversamento interni lavoraz.
19)
Riduzione tempi di commessa.
Come
si può agevolmente notare, il decreto individua indicatori di produttività che,
per la maggior parte, si estendono alla totalità dell’azienda e, quindi, ai
dipendenti: ne sono un chiaro segno i punti 1, 2, 3, 7, 8, 12, 13, 16, 18 e 19.
Vi sono, poi, indicatori più specifici, ma sostanzialmente il decreto punta su
rapporti tra risorse e prodotti.
Se
un ente locale prevedesse nel proprio contratto decentrato un criterio come
quello della riduzione dell’assenteismo o della riduzione degli interventi
correttivi sugli atti (parallelo alla riduzione degli scarti di lavorazione),
probabilmente nessuna ispezione e nessuna procura della Corte dei conti, ma
neanche l’Aran, glielo perdonerebbe e si attiverebbero, con tuoni e fulmini,
procedure per danno erariale e restituzione del salario accessorio.
Certo,
occorre maneggiare la produttività nel lavoro pubblico con estrema cura, perché
si tratta di risorse pubbliche. Ma, non è da dimenticare che anche gli sgravi
alle aziende per il salario di produttività sono risorse pubbliche,
corrispondenti a minori entrate di imposte. Non si capisce, dunque, perché a
parità di natura pubblica delle risorse gestite, la concezione di salario di
produttività nel lavoro pubblico debba essere oggetto di bizantine contorsioni
acrobatiche, mentre nel sistema privato si ha la capacità piena di individuare
la produttività per quello che. A tacere, per altro, del fatto che spessissimo
i contratti aziendali connettono la produttività banalmente alla presenza in
servizio, alle ore di lavoro prestate ed agli straordinari (basta dare
un’occhiata in rete agli accordi stipulati), cosa che nel lavoro pubblico
desterebbe solo l’ira funesta dei numi.
La
speranza (certamente vana) allora è che accanto alla voglia di fare riforme
sempre “epocali”, qualcuno abbia la curiosità di guardare davvero nel dettaglio
ciò che si fa nel privato e non si lasci trasportare dal sentito dire, per
rivedere i sistemi di valorizzazione della produttività alla luce dei semplici
e chiari strumenti utilizzati nel sistema privato appunto, abbandonando le
contorsioni normative, che fin qui hanno solo prodotto contenziosi e sanatorie
(per altro mal riuscite)”.
Invece di cercare Nuclei,
Autorità, Sistemi e fantasie varie, basterebbe riavvolgere il nastro. Ricordarsi
e ricordare che per un dipendente pubblico il primo incentivo è quello di
essere un servitore dello Stato a servizio della collettività. Il compimento
delle proprie attività è un dovere, non un sinallagma per un premio. Non che
non si debbano introdurre strumenti di incentivazione. Ma bisognerebbe finirla
con lo scimmiottamento, mal fatto, del privato, che non ci pensa nemmeno ai bizantinismi
normativi ed in modo estremamente pragmatico lega i premi a concreti elementi
di produttività (maggiori output rispetto agli input, a partire da specifici
dati di base) e sulla base di pochi e decisivi strumenti, connettendo il premio
individuale essenzialmente, poi, alla presenza in servizio.
La legge delega continua, invece,
la predicazione di fronte al totem dell’ “obbligo
di procedere ad un’adeguata differenziazione delle valutazioni”. Resta quindi
permanente la confusione tra un esito possibile, la differenziazione, ed un
obiettivo. La “differenziazione” secondo lo schema brunettiano, deve essere obbligatoria;
sicchè nella logica della pubblica amministrazione non potrà che tradursi in
procedura e forma, senza sostanza. Senza nemmeno la possibilità di chiedersi perché
mai se un gruppo di lavoro ottiene come gruppo un risultato, necessariamente si
deve ricorrere a strumenti divisivi.
Eppure, la riforma Brunetta ed
anche i recenti contratti collettivi nazionali un metodo di differenziazione
utile lo hanno: il premio per poche, e dunque riconoscibili e dimostrabili, eccellenze.
La differenziazione non dovrebbe essere un esercizio statistico (memorabili
sono i pareri dei consulenti e a suo tempo anche della Civit, tesi a misurare
la capacità di differtenziazione mediante il sistema dello scarto quadratico
medio, come se la valutazione alla fine altro non fosse che un esercizio
statistico-matematico).
La coazione a ripetere talvolta
anche rende anche più pesanti e complesse le procedure. Il disegno di legge
contempla anche la delega a predisporre “concorsi
per titoli ed esami riservati al personale dipendente con le valutazioni
migliori nell’ultimo triennio”. Ma, come è possibile immaginare concorsi
riservati in un sistema centralizzato? E in un concorso centralizzato come si
fa a qualificare le valutazioni migliori, senza aver prima definito un modello
unico di valutazione? Ma un modello unico è realmente esportabile in un comune,
come in un’autorità portuale, come all’Inps?
C’è, ovviamente, anche una
delega per la riforma della dirigenza. Il disegno di legge rinuncia alla follia
del ruolo unico ed alla precarizzazione incostituzionale degli incarichi, con
evidenti profili di politicizzazione della dirigenza, propri della riforma
Madia.
Anche in questo caso si pensa
alla centralizzazione dei concorsi, nella Scuola superiore della pubblica
amministrazione. Ma, per quanto concerne la dirigenza, potrebbe trattarsi di
una scelta corretta. Sempre che l’ente sia rafforzato adeguatamente. Un contro
è operare per selezionare le dotazioni ministeriali, circa 4000 dirigenti,
altro è estendere l’attività agli altri circa 26.000 ruoli dirigenziali, non
contando ovviamente i dirigenti medici che costituiscono la parte preponderante
della dirigenza pubblica.
Certo, qualche allarme desta il
criptico criterio connesso al delicatissimo tema del conferimento e revoca
degli incarichi dirigenziali, secondo il quale la legge delegata dovrà “ridefinire i criteri, nel rispetto dei
princìpi di trasparenza, di rotazione, di parità di genere e di valorizzazione
del merito, favorendo lo scambio di esperienze e la crescita professionale del
dirigente”. E’, come si nota, una formula astratta, se non vuota, nella quale
può esservi tutto ed il suo contrario, quindi non è dato comprendere esattamente
verso quale direzione la riforma andrà. Sappiamo dalla bozza di ddl, però, che,
la legge delega dovrà “prevedere la
possibilità di rinnovare, in deroga agli obblighi di pubblicità previsti
dall’articolo 19, comma 1-bis del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165,
per una sola volta, l’incarico a condizione che sussistano tutti i seguenti
presupposti:
3.1 alta specializzazione dei compiti dell’ufficio da ricoprire;
3.2 elevata competenza professionale dell’interessato;
3.3 livello significativo dei risultati conseguiti dall’interessato nell’espletamento
dell’incarico”
Dal che si può desumere, a
contrario, il ritorno all’enfatizzazione della rotazione tanto per rotare come criterio
obbligatorio del conferimento degli incarichi, in un tourbillon continuo ed
assurdo, perché ovviamente slegato dalla valutazione e dai suoi esiti, in
totale incoerenza con i predicati connessi alla “premialità”; e possiamo anche
dedurre che il legislatore delegato dovrà stabilire che comunque i dirigenti
potranno avere un certo incarico solo per una volta e per un giro. Problemi di precarizzazione
e politicizzazione usciti dalla porta, grazie al flop della riforma Madia,
potrebbero rientrare dalla finestra.
Sul tema della precarizzazione, incide
ovviamente quello connesso degli “incarichi a contratto”: questi, misti allo
spoil system, sono alla base della possibilità di creare una dirigenza
reclutata per “fedeltà” piuttosto che per competenza. Lo schema di ddl anche in
questo caso enuncia un criterio criptico, quasi in bianco: “modificare la vigente disciplina in materia
di conferimento degli incarichi ai soggetti estranei alla pubblica
amministrazione, assicurandone l’omogeneità nei vari settori anche
relativamente alle quote percentuali di dotazione organica, nel rispetto del
principio dell’adeguata valorizzazione delle professionalità interne e della
conferibilità degli incarichi soltanto laddove non sia possibile rinvenire le
occorrenti competenze all’interno dell’amministrazione”. La disciplina
vigente, infatti, può essere modificata ampliandola o restringendola. L’ottimo
sarebbe abolirla, ma non appare affatto questo l’intento del legislatore.
Fantastica, poi, è la sempre più
accentuata propensione del legislatore a creare fattispecie di responsabilità
oggettiva, come col seguente criterio di delega, indirizzato a creare un capro
espiatorio: “qualificare, anche sulla
base di quanto accertato dai sistemi di valutazione, come ipotesi di
responsabilità sia disciplinare che dirigenziale le fattispecie di assenteismo,
anche del personale assegnato, di scarsa produttività o di inefficiente
organizzazione delle risorse a disposizione”.
Degni di nota appaiono due
criteri di delega sulla materia dei principi direttivi in materia di rapporto
di lavoro alle dipendenze della PA. Il primo riguarda la mobilità: “semplificare e omogeneizzare le procedure di
mobilità volontaria, anche limitando le ipotesi di obbligatorietà di
espletamento preventivo rispetto alle nuove assunzioni, ed escludendo il rilascio del nulla osta da parte dell’amministrazione di
appartenenza e fermo restando l’obbligo di permanenza nella sede di prima
assegnazione previsto dall’articolo 35, comma 5-bis, del decreto legislativo n.
165 del 2001”.
L’idea francamente assurda dell’eliminazione
del nulla osta, come si ricorda, era stata accarezzata nel 2014 dalle bozze della
prima riforma Madia, quella che introdusse l’ipotesi della mobilità d’ufficio
entro i 50 chilometri. Poi, saggiamente, se ne fece a meno. Si comprese che
trasformare la mobilità in una sorta di diritto potestativo del dipendente, creerebbe
un caos operativo ingestibile. Le amministrazioni non potrebbero mai contare su
un assestato contingente di dipendenti, sperperando risorse nella formazione e
nell’esperienza. Certo, la mobilità è utile per la migliore collocazione
logistica dei dipendenti. Ma, attivare un sistema incontrollato nel quale le
amministrazioni finiranno per rubarsi tra loro i dipendenti è davvero quanto di
meno “aziendalistico” e attento alla “performance” si possa immaginare. Eppure,
riecco qui, appare nuovamente un’idea alla quale evidentemente a Palazzo Vidoni
non si riesce a rinunciare.
Seconda previsione degna di
nota, quella secondo la quale dovrà essere risolto il rapporto di lavoro per i
dipendenti in disponibilità se nel corso dei 24 mesi di iscrizione nelle liste
rifiutino due proposte di ricollocazione presso altri enti. Sembra riecheggiare
qualcosa del progetto del reddito di cittadinanza, no? Peccato che il
legislatore non preveda nulla per la diffusa omissione di pubblicità dei posti
o l’abitudine, molto radicata e estremamente censurabile, delle amministrazioni
di rinunciare a bandire concorsi, specie di livelli alti, appena apprendono che
qualche dipendente sia nelle liste di disponibilità. Nessuno si è mai
interessato di attuare la previsione contenuta nell’articolo 2, comma 13, del
d.l. 95/2012: “La Presidenza del
Consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione pubblica avvia un
monitoraggio dei posti vacanti presso le amministrazioni pubbliche e redige un
elenco, da pubblicare sul relativo sito web. Il personale iscritto negli elenchi
di disponibilità può presentare domanda di ricollocazione nei posti di cui al
medesimo elenco e le amministrazioni pubbliche sono tenute ad accogliere le
suddette domande individuando criteri di scelta nei limiti delle disponibilità
in organico, fermo restando il regime delle assunzioni previsto mediante
reclutamento. Le amministrazioni che non accolgono le domande di ricollocazione
non possono procedere ad assunzioni di personale”. Questo sarebbe un
sistema davvero efficace per la ricollocazione, ma da 6 anni nessuno si occupa
di attuarlo. E si inseguono le fate delle proposte di ricollocazione.
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