venerdì 14 dicembre 2018

Giovani che non vogliono lavorare? L'ennesimo specchietto per le allodole della stampa

Ci siamo abituati da tempo, ormai, alle "urla di dolore" disperate degli imprenditori che si rivolgono ai giornali per reperire così i lavoratori che cercano, ma proprio non riescono a trovare perchè, in particolare, i giovani sono choosy e non si candidano.

Ultimo in ordine di tempo è il caso della ditta Casile&Casile Fashion Group, che si è rivolta al Corriere della Sera, in preda allo sconforto, perchè nessuno rispondeva alla proposta di lavoro di venditore nel settore moda.
Come racconta qui lo stesso Corriere, a seguito della lettera al giornale, di domande ne sono giunte all'azienda oltre 1600!
La tesi che i giovani non si propongano e non abbiano voglia di lavorare, diremmo, viene leggermente smentita.
Ma, il titolare dell'azienda non demorde e insiste nella tesi che i lavoratori sono svogliati. Afferma, infatti, sempre nell'articolo linkato sopra, che, in sostanza:
1. i candidati scrivono all'azienda, "ma nessuno vuole lavorare davvero";
2. infatti, molti (ma quanti?) non allegano il curriculum;
3. alcuni chiedono se ci sia da lavorare il sabato o la domenica.;
4. dei soli "8 profili vicini all’offerta" tutti facevano «storie» in merito all’orario del possibile incontro per il colloquio.
Ora, appare evidente che se alcuni lavoratori abbiano fatto "storie", sicuramente quelle raccontate dall'azienda è una gigantesca "storia" a sua volta.
Sulla base di quale motivazione e valutazione, infatti, in presenza di oltre 1600 domande a seguito dell'offerta di lavoro, quell'azienda possa affermare che nessuno voglia lavorare davvero, sfugge totalmente.
Siamo sempre alle solite. Le aziende per cercare lavoratori non utilizzano i canali ufficiali, ma si rivolgono alle conoscenze. Fallito questo tentativo, si rivolgono ai canali istituzionali, agenzie per il lavoro o centri per l'impiego, ma di solito determinano requisiti lavorati estremamente capillari, tali da rendere difficile il reperimento della persona. Ai centri per l'impiego, per altro, ben difficilmente indicano con chiarezza i termini corretti della proposta di lavoro: orario, luogo, competenze, compensi.
La ricerca, quindi, fallisce. Più per difetti nel sistema di ricerca, che per mancanza di candidati. Ma, sicuramente, anche per una pretesa "alta": quella di trovare il candidato che già sappia svolgere con estrema competenza quella mansione. Peccato che questo candidato "ideale" spesso già lavori e se quindi l'azienda che lo cerca intende assumerlo sia costretta a pagarlo di più e trattarlo meglio del datore attuale.
Che su oltre 1600 candidati proprio nessuno, ma nessuno nessuno, voglia lavorare davvero, non è possibile nemmeno statisticamente crederci.
E', semmai, vero che sicuramente la ditta, sepolta sotto quel numero elevatissimo di domande, non abbia ovviamente saputo come gestire. Allora, il trincerarsi dietro la domanda senza curriculum; perchè, non lo si poteva chiedere ad integrazione?
Poi, infastidiscono davvero le pretestuose lamentazioni contro i candidati che chiedono se vi sia da lavorare il sabato o la domenica. Ma, si abbia pazienza: la Casile&Casile Fashion Group lo sa che se si intende attivare un rapporto di lavoro subordinato, fa parte essenziale del contratto la descrizione del tempo di lavoro, dunque l'orario ed i giorni di svolgimento? Quale sarebbe il male nel chiedere quali siano i giorni di lavoro? O si ritiene che il lavoratore debba solo accettare alla cieca una proposta?
Se, poi, su oltre 1600 solo 8 profili si sono rivelati vicini all'offerta, si pone, la Casile&Casile Fashion Group, la domanda se è stata capace di descrivere in maniera chiara e completa il lavoro e la competenza necessaria? Se così fosse stato, probabilmente non le sarebbero piovute addosso tutte queste candidature.
Ma, a leggere ancor meglio l'articolo riportato sopra in link, si scorgono gli elementi dello specchietto per le allodole mediatico. Il titolare dell'azienda afferma: «Cerco di rispondere con rispetto a tutti. Ma vorrei anche dare un consiglio ai giovani: scrivete una lettera in cui dite: “Mettetemi alla prova per 6 mesi, poi parliamo del contratto”».
Una dichiarazione che rivela molto bene il modo col quale troppi datori si sono acconciati a cercare i lavoratori, tra tirocini spesso sovvenzionati, o comunque contratti di varia durata limitata: la pretesa di proporre quella che gergalmente è chiamata "pre-prova", cioè un contatto, un lavoro (che in troppe zone d'Italia finisce per essere un rapporto in nero) di pochi mesi e, soprattutto, con poche pretese economiche e di orario, nel quale appunto il lavoratore dovrebbe rendersi disponibile a mettersi alla prova, per rinviare a dopo la trattativa sul contratto! Un messaggio a dir poco desolante e devastante, per come evidenzia con triste chiarezza la quasi ormai irrimediabile disparità tra datori e lavoratori, con i primi a pretendere mesi, se non anni, di disponibilità alla "prova", per contrattualizzare solo dopo il rapporto. Sarebbe questa la nuova via al lavoro?
Afferma, poi, il titolare dell'azienda: "Non scartate l’idea di aprire una partita Iva e rischiare in proprio: guadagnerete il doppio. Ho fatto i conti: se uno facesse questo lavoro per me aprendosi la partita Iva riuscirebbe a guadagnare oltre 4.000 euro al mese".
Ma, allora, quella ditta cosa cercava? Un lavoratore subordinato addetto alle vendite (un commesso, in sostanza)? Oppure un lavoratore autonomo? Ma, se questa fosse la seconda ipotesi, perchè attivare una ricerca che nulla aveva a che vedere con la reale intenzione a contrattare? In diritto civile, si direbbe di essere in presenza di una bella violazione di buona fede e correttezza nelle trattative.
Indubbiamente, con una partita Iva, rischiando "in proprio", chi accettasse la proposta, non darebbe noie: non avrebbe, ovviamente, da chiedere se si lavora il sabato o la domenica, non vi sarebbe orario, non vi sarebbe del tutto un contratto di lavoro, ma qualcosa d'altro.
Come sia possibile, poi, la sussistenza di un'equivalenza piena tra un lavoro subordinato e un incarico professionale, lo si spiega solo con le norme vigenti, troppo generiche, contorte, blande, incapaci di distinguere davvero due fattispecie diverse, il lavoro subordinato da quello autonomo professionale.
Insomma, lo specchietto per le allodole mediatico si rivela un boomerang. Lungi dal dimostrare che le persone non vogliono lavorare, rivela alcune cause forti e gravi del "mismatching": troppe volte le imprese non sono chiare nella domanda di lavoro, ma soprattutto in realtà non chiedono lavoro subordinato e contrattualizzato, bensì altro. Non dovrebbero stupirsi, poi, le imprese medesime e gli analisti se queste modalità di ricerca diano frutti con molta difficoltà.
Casi come questi, che non sono per nulla isolati, dovrebbero fornire la base per un riesame serio e molto approfondito delle regole di disciplina del lavoro. Il Jobs Act nulla ha potuto e nulla può. Il contratto unico di cui parlavano Tito Boeri e Pietro Garibaldi, come presupposto necessario per tutele realmente crescenti pare essere davvero l'unica strada per ridefinire il lavoro subordinato, mentre si dovrebbe aprire un cantiere enorme sul lavoro professionale. Va bene anche che si spingano i lavoratori a "rischiare in proprio"; ma, allora, che si definiscano come imprenditori o professionisti e non come lavoratori e che una buona volta si determinino indici precisi perchè un'attività lavorativa sia professionale o di impresa. Svolgere attività di vendita in azienda sa troppo di funzione da commesso, anche se svolta con le competenze e le funzioni più complesse, per convincere davvero che tale attività - sostanzialmente monocommittente - possa configurarsi come professionale a partita Iva.

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