Un passo verso il superamento degli
irrazionali blocchi, totali o parziali, delle assunzioni e verso la
valorizzazione dell’autonomia di bilancio.
Il “decreto crescita” (la cui
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale desta trepida attesa) all’articolo 33 lega
la capacità assunzionale dei comuni non più a percentuali del costo del
personale cessato anni precedenti, ma a un valore standard (da definire) di sostenibilità
finanziaria delle assunzioni.
Si stabilisce, infatti, che i
comuni possono assumere:
1.
sino ad una spesa complessiva per tutto il
personale dipendente, al lordo degli oneri riflessi a carico
dell’amministrazione
2.
non superiore al valore soglia definito come
percentuale, differenziata per fascia demografica, delle entrate relative ai
primi tre titoli delle entrate del rendiconto dell’anno precedente a quello in
cui viene prevista l’assunzione
3.
considerate al netto del fondo crediti dubbia
esigibilità stanziato in bilancio di previsione.
Le assunzioni, comunque, saranno
consentite a condizione:
a)
che vi sia coerenza con i piani triennali dei
fabbisogni di personale;
b)
fermo restando il rispetto pluriennale
dell’equilibrio di bilancio asseverato dall’organo di revisione.
Si prova, quindi, ad innescare
un sistema che valorizza la capacità di garantire la spesa del personale non
solo rispettando l’equilibrio del bilancio pluriennale, ma in relazione a specifiche
fonti di entrata, considerare idonee a farvi fronte. Si tratta, appunto, dei
primi tre titoli delle entrate:
·
Entrate correnti di natura tributaria,
contributiva e perequativa
·
Trasferimenti correnti
·
Entrate extratributarie
Mantenendo il complesso della
spesa di personale al di sotto di una certa soglia del rapporto tra detta spesa
ed i primi tre titoli delle entrate, i comuni potranno disporre sempre della
capacità di assumere slegata da fattori imposti casualmente dall’alto, come
appunto il costo delle cessazioni di anni precedenti.
Ai comuni si dà, quindi, la
possibilità di agire sia sul fattore del costo complessivo del personale, sia
su quello del volume delle entrate, per mantenere o migliorare il rapporto tra
queste grandezze, così da mantenere o allargare nel tempo le assunzioni.
Il che, in una gestione
particolarmente attenta e virtuosa, innesca la possibilità di andare anche
oltre il turn over del 100%: starà, dunque, all’indirizzo programmatico di ciascun
comune decidere nella sostanza il volume di spesa da destinare alle assunzioni,
agendo o sulla riduzione della spesa complessiva del personale, oppure sull’incremento
delle entrate dei primi tre titoli.
Il “decreto crescita” rimette ad
un decreto del Ministro della pubblica amministrazione, di concerto con il
Ministro dell’economia e delle finanze e il Ministro dell’interno, previa
intesa in sede di Conferenza Stato-città ed autonomie locali, (da adottare
netro il termine – ordinatorio - di 60 giorni dalla data di entrata in vigore
del d.l.) il compito di individuare:
1. le
fasce demografiche,
2. i
relativi valori soglia prossimi al valore medio per fascia demografica,
3. le
relative percentuali massime annuali di incremento del personale in servizio
per i comuni che si collocano al di sotto del predetto valore soglia.
Proprio nell’intento di
valorizzare l’autonomia e la capacità di agire sulle entrate o sulla riduzione
della spesa di personale, la norma prende atto che non tutti i comuni hanno la
medesima condizione iniziale di carattere finanziario, da un lato, e
tipologica, dall’altro.
Quindi il valore medio della
percentuale derivante dal rapporto tra spesa complessiva del personale
(compresi gli oneri) e primi tre titoli delle entrate sarà diversificato per
fasce demografiche. Probabilmente, sarebbe stato opportuno anche un’ulteriore
disaggregazione per tipologia di enti: a parità di popolazione, un comune
montano ha esigenze di personale differenti da un comune costiero fortemente
turistico.
In ogni caso, il valore medio sarà
la soglia di “virtuosità” nel rapporto tra spesa di personale e primi tre
titoli delle entrate.
E’ chiaro che i comuni il cui
rapporto risulti inferiore al valore medio per fascia demografica potranno effettuare
le assunzioni con spazi anche maggiori rispetto al semplice 100% del turn over,
potendo scegliere in questo caso di ridurre, per la programmazione futura gli
spazi assunzionali, o di conservarli (se non anche ampliarli), laddove
prevedano incrementi delle entrate costantemente crescenti così da mantenere
inalterato il rapporto tra spesa di personale (pur crescente); oppure, laddove
prevedano di ridurre la spesa di personale in modo opportuno, così da contenere
il costo maggiore delle assunzioni.
In sostanza, quindi, il “decreto
crescita” prova a restituire ai comuni quel che da oltre 15 anni di blocchi delle
assunzioni o tetti alla connessa spesa, è stato loro tolto: l’autonomia gestionale,
ovviamente connessa alla sostenibilità della spesa.
Ovviamente, non tutti i comuni avranno
un rapporto spesa di personale-primi tre titoli dell’entrata, inferiore ai
valori standard. Per questi, il “decreto crescita” delinea un percorso di
avvicinamento a parametri di virtuosità: si prescrive la graduale riduzione
annuale del suddetto rapporto fino al conseguimento nell'anno 2025 del predetto
valore soglia, anche applicando un turn over inferiore al 100 per cento,
sebbene la normativa, ormai a regime, in teoria consenta di coprire il 100% del
turn over. Qualora i comuni con un rapporto spesa di personale-primi tre titoli
dell’entrata dovessero ritrovarsi ancora nel 2025 con un rapporto superiore al
valore soglia, applicheranno un turn over pari al 30 per cento, fino al
conseguimento del predetto valore soglia.
Il decreto, opportunamente,
dunque, distingue tra comuni virtuosi e non. Si prova a rimediare ad un grave
torto, denunciato da anni: sistemi di blocchi delle assunzioni indifferenziati,
o di tagli lineari, o di imposizione di tetti di spesa uguali per tutti, hanno
finito sempre per danneggiare i comuni con bassa spesa di personale in termini
assoluti e di rapporti con l’entrata, avvantaggiando, invece, comuni con
dotazioni organiche sovradimensionate e spesa molto elevata.
Il “decreto crescita”, al
contrario, con il sistema proposto permette ai comuni virtuosi un numero di
assunzioni teoricamente superiore al turn over del 100%, mentre per gli altri l’imposizione
di tetti al turn over diviene conseguenza della loro condizione finanziaria
delicata e un’indiretta “sanzione” alla mancanza di volontà o di capacità di
agire sulle entrate o sulla spesa, così da conseguire l’obiettivo di andare al
di sotto del valore soglia di virtuosità.
La norma prova a depotenziare ulteriormente
il deleterio articolo 23, comma 2, del d.lgs 75/2017, stabilendo: “Il limite al trattamento accessorio del
personale di cui all’articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 27 maggio
2017, n. 75 è adeguato, in aumento o in diminuzione, per garantire l’invarianza
del valore medio pro-capite, riferito all’anno 2018, del fondo per la
contrattazione integrativa nonché delle risorse per
remunerare gli incarichi di posizione organizzativa, prendendo a
riferimento come base di calcolo il personale in servizio al 31 dicembre 2018”.
Il Legislatore torna sulla micidiale
norma della riforma Madia:
a)
dopo aver stabilito, dunque, che la norma non si
applica ai contratti successivi alla sua emanazione (ma: a quali altri
contratti collettivi avrebbe mai potuto riferirsi?);
b)
dopo aver già in qualche modo consentito di
incrementare la spesa complessiva in rapporto all’aumento del costo delle
posizioni organizzative (a patto, però, di ridurre simmetricamente le capacità
assunzionali), con l’articolo 11-bis, comma 2[1], del
d.l. 135/2018, convertito in legge 12/2019.
La preliminare domanda da porsi,
allora è: ma perché, molto più semplicemente, non si abroga l’articolo 23,
comma 2, del d.lgs 75/2017 e la si fa finita con una norma appartenente ancora
proprio alla categoria dei tagli lineari e dei blocchi indifferenziati alla
spesa di personale, che il “decreto crescita” vorrebbe superare?
Constatato che il Legislatore si
avvicina alla soluzione (abolire la norma), senza coglierla, si deve quindi osservare
che di fatto ormai l’articolo 23, comma 2, è un relitto del passato.
Il tetto complessivo della spesa
di personale riferito al 2016 di fatto salta. Col “decreto crescita” emergono
altre basi di riferimento volte a garantire un tetto al trattamento accessorio
e, cioè:
1.
il valore medio pro-capite, riferito all’anno
2018, del fondo per la contrattazione integrativa;
2.
il personale in servizio al 31 dicembre 2018;
3.
le risorse per remunerare gli incarichi di
posizione organizzativa, sempre da riferire al 2018.
La disposizione del “decreto
crescita” considera non più l’importo del valore assoluto del costo del salario
accessorio del 2016, bensì il diverso valore medio pro capite del fondo,
consistente, che si reperisce ovviamente dividendo l’ammontare complessivo del
fondo per il numero dei dipendenti in servizio.
Il riferimento al valore medio
pro capite del fondo è più equo e corretto di un tetto assoluto di spesa del salario
accessorio. Infatti, gli enti virtuosi che potranno assumere anche superando il
100% del turn over, se non vi fosse l’esplicita previsione normativa introdotta
dal “decreto crescita” potrebbero correre il rischio di dover ridurre il
salario accessorio medio disponibile per i dipendenti, in funzione della
crescita del loro numero. Ciò, considerando che il decreto indirettamente identifica
i primi tre titoli delle entrate come fonte di sostegno della spesa di
personale, apparirebbe assurdo: se, infatti, un comune assume nei margini di
virtuosità consentiti dalla norma, deve poter incrementare non solo la spesa di
personale connessa alle assunzioni, ma anche quella del salario accessorio, in modo
da scongiurare l’effetto paradossale che con l’incremento del numero dei
dipendenti, a parità di valore assoluto del salario accessorio, si riduca per
ciascun dipendente la potenziale “fetta di torta”.
Il “decreto crescita”, dunque,
permette di incrementare il fondo del salario accessorio, ed anche
eventualmente il capitolo di bilancio posto a finanziare le retribuzioni di
posizione e risultato delle posizioni organizzative, così da mantenere
inalterato il valore medio pro capite del fondo, per altro parametrandolo, come
visto, al fondo 2018 (rideterminato a seguito del Ccml 21.5.2018) e al
personale in servizio il 31.12.2018.
Allo stesso tempo, qualora il
personale in servizio debba ridursi, anche per garantire il rispetto del
rapporto tra spesa di personale e primi tre titoli dell’entrata agendo sul
primo valore e non sul secondo, anche il fondo del salario accessorio deve
ridursi in valori assoluti, sebbene questa conseguenza appaia meno giustificabile:
la riduzione del personale in servizio, a parità di qualità e quantità dei
servizi erogati e delle attività svolte, implica un incremento di produttività,
che andrebbe valorizzato e non penalizzato.
Ultima considerazione: una volta
entrato in vigore questo nuovo sistema di determinazione delle risorse da
destinare alle assunzioni, occorre chiedersi se il meccanismo previsto dall’articolo
3, commi 5 e seguenti, del d.l. 90/2014, convertito in legge 114/2014, recentemente
modificato dall’articolo 14-bis, comma 1, lettera a), del d.l. 4/2019, convertito
in legge 26/2019, cioè la previsione di un turn over del 100% del costo delle
cessazioni dell’anno precedente, cui cumulare un quinquennio di resti assunzionali,
resti ancora in piedi.
La risposta da darsi dovrebbe
essere negativa. La valorizzazione dell’autonomia programmatoria e finanziaria
disposta dal “decreto crescita” poco si concilia con un regime vincolistico quale
quello evidente nell’articolo 3, comma 5, del d.l. 90/2014. Maglio sarebbe
stata la sua abolizione esplicita, perché in assenza di questa non è difficile
immaginare pareri della magistratura contabile che finiscano per combinare impropriamente
regole del “decreto crescita” con quelle del 2014, creando nuovamente
inestricabili problemi operativi, prima ancora che interpretativi.
[1]
Fermo restando quanto previsto dai commi 557-quater e 562 dell'articolo 1 della
legge 27 dicembre 2006, n. 296, per i comuni privi di posizioni dirigenziali,
il limite previsto dall'articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 25 maggio
2017, n. 75, non si applica al trattamento accessorio dei titolari di posizione
organizzativa di cui agli articoli 13 e seguenti del contratto collettivo
nazionale di lavoro (CCNL) relativo al personale del comparto funzioni locali -
Triennio 2016-2018, limitatamente al differenziale tra gli importi delle
retribuzioni di posizione e di risultato già attribuiti alla data di entrata in
vigore del predetto CCNL e l'eventuale maggiore valore delle medesime
retribuzioni successivamente stabilito dagli enti ai sensi dell'articolo 15,
commi 2 e 3, del medesimo CCNL, attribuito a valere sui risparmi conseguenti
all'utilizzo parziale delle risorse che possono essere destinate alle
assunzioni di personale a tempo indeterminato che sono contestualmente ridotte
del corrispondente valore finanziario.
Buongiorno, le chiedo se come conseguenza si ha anche che la mobilità in uscita non "spreca" piu' spazi assunzionali come in passato; in altre parole adesso un dipendente che va via in mobilità puo' essere sostituìto con uno scorrimento di graduatoria? In questo caso gli enti dovrebbero essere meno restii a concedere i nulla osta o sbaglio?
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