Appare davvero incredibile che
ancora nel 2019 si debbano emettere sentenze come quella della
Cassazione,
Sezione lavoro (ud. 10/04/2019) 07/06/2019, n. 15514, nella quale
si afferma l’ovvio: cioè che un dirigente a contratto, incaricato
ai sensi dell’articolo 110 del d.lgs 267/2000 deve essere in
possesso di requisiti professionali di spiccatissima eccellenza, non
bastando la semplice esperienza professionale di 5 anni.
Questo dimostra alcuni elementi
piuttosto gravi, come
dimostra il commento analitico della sentenza proposto oltre:
- la pervicacia nel negare l’evidenza: la regolamentazione del reclutamento dei dirigenti è materia di potestà legislativa esclusiva dello Stato, rientrando nell’ordinamento civile;
- l’ostinazione nell’elaborare regolamenti di organizzazione o, peggio, adottare bandi pubblici che modifichino i contenuti della normativa sugli incarichi a contratto;
- l’insistenza nel considerare gli articoli 110 del d.lgs 267/2000 e 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 come fossero del tutto autonomi e separati, anche se lo stesso articolo 19, al comma 6-ter chiarisce senza ombra di dubbio: “ Il comma 6 ed il comma 6-bis si applicano alle amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2”, quindi anche agli enti locali;
- la perseveranza nel considerare gli incarichi a contratto:
- una sorta di investitura medievale, nell’esercizio di un potere arbitrario della politica di “creare” il dirigente “di fiducia”, tanto che si possa persino prescindere da requisiti di professionalità benchè minimi;
- una sorta di premio o progressione verticale a tempo determinato per funzionari che abbiano maturato alcuni anni di esperienza;
- la gravissima mancanza di controlli preventivi di legittimità, causa dell’impossibilità di impedire la violazione costante e continua delle norme, dovuta alla debolezza estrema dei controlli interni e della posizione dei segretari comunali che, soggetti allo spoil system, non hanno modo di frapporsi alla gestione degli incarichi a contratto intesa come esercizio di un potere arbitrario da parte della politica.
La sentenza analizza una serie
distinta di questioni giuridiche. La prima riguarda la tendenza degli
enti locali, specie appartenenti a regioni o province autonome (come
nel caso di specie), a considerare legittimo e possibile regolare gli
incarichi dirigenziali a contratto in modo peculiare e comunque
differente, rispetto alla disciplina normativa nazionale.
Nel caso particolare, il comune
di Rovereto ha ritenuto di dover applicare, con prevalenza rispetto
alla legge, l’articolo 119 del proprio regolamento di
organizzazione che, come moltissimi altre norme di regolamenti
comunali, invece di dettagliare le modalità attuative dell’articolo
110 del Tuel e dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001, ne
“riscrive” in parte i contenuti modificandone i presupposti e
quindi stravolgendone gli scopi.
La sentenza riporta il testo
dell’articolo del regolamento, che mettiamo a confronto con
l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001:
Regolamento |
Art. 19, comma 6 |
1. L'incarico ai dirigenti assunti a tempo determinato con
deliberazione della giunta comunale è conferito con provvedimento
del sindaco, accertata l'adeguata professionalità documentata da
specifico curriculum ed in possesso dei requisiti generali e
speciali per l'accesso agli impieghi presso l'amministrazione
comunale, secondo quanto previsto dal presente regolamento, o
abbiano conseguito una particolare specializzazione
professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione
universitaria e post-universitaria, da pubblicazioni scientifiche
o concrete esperienze di lavoro, o provenienti da settori della
ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei
ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato. 2. Il conferimento dell'incarico è predisposto sulla base della valutazione del curriculum e dei requisiti culturali e professionali previo avviso al pubblico contenente la funzione dirigenziale, i requisiti richiesti, il trattamento economico base e il termine per la presentazione delle domande (....) |
[...] Tali incarichi sono conferiti, fornendone esplicita
motivazione, a persone di particolare e comprovata
qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli
dell'Amministrazione, che abbiano svolto attività in
organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o
private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in
funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare
specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile
dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da
pubblicazioni scientifiche e
da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un
quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese
quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali
previste per l'accesso alla dirigenza, o che provengano dai
settori della ricerca, della docenza universitaria, delle
magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato.
Il trattamento economico può essere integrato da una indennità
commisurata alla specifica qualificazione professionale, tenendo
conto della temporaneità del rapporto e delle condizioni di
mercato relative alle specifiche competenze professionali. […]
|
Come si nota:
- il comune di Rovereto considera come alternativi:
- il possesso dei requisiti per accedere all’impiego; nel caso di specie, per l’accesso alla dirigenza la laurea e un minimo di permanenza in posizioni di vertice nell’area delle categorie;
- la particolare specializzazione professionale;
- il comma 6 dell’articolo 19, invece, impone che le concrete esperienze di lavoro in categorie che consentano l’accesso (concorsuale) alla dirigenza sia posseduto inscindibilmente insieme con la particolare specializzazione professionale.
Ma, può legittimamente un
regolamento di organizzazione contenere previsioni diverse da quelle
della norma, nel caso della disciplina del reclutamento di dipendenti
pubblici? Risponde la Cassazione: no! Il motivo è semplice: “Trova,
inoltre, applicazione il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19 nella specie
comma 6, in quanto la disciplina degli incarichi dirigenziali per
quanto attiene ai profili normativi del rapporto è
materia attratta all'ordinamento civile, e in quanto tale rimessa
alla potestà esclusiva dello Stato dall'art. 117 Cost., comma 2,
lett. l, (cfr., sentenze Corte Cost. n. 324 del 2010, n. 62 del
2019). Come
affermato dalla Corte costituzionale (sentenze n. 231 del 2017, n. 77
del 2013), la competenza statale esclusiva in materia di "ordinamento
civile" vincola gli enti ad autonomia differenziata anche con
riferimento alla disciplina del rapporto di lavoro con i propri
dipendenti. Si può ricordare, inoltre che, ai sensi dell'art. 4
dello statuto, la potestà legislativa primaria della Regione
Trentino-Alto Adige, in materia di "ordinamento degli uffici
regionali e del personale ad essi addetto" è esercitata, tra
l'altro, nei limiti principi generali dell'ordinamento giuridico
della Repubblica”.
E sul punto, ben prima: Cass.,
sez.lav., 20 gennaio 2015 n. 849: “se
è certamente vero che l'esercizio della potestà regolamentare
costituisce anch'esso espressione della autonomia dell'ente locale,
in quanto attua la capacità dell'ente di porre autonomamente le
regole della propria organizzazione e del funzionamento delle
istituzioni, degli organi, degli uffici e degli organismi di
partecipazione, ed ha trovato anch'esso riconoscimento costituzionale
nel nuovo testo dell'art. 117 Cost., è tuttavia altrettanto vero che
la disciplina delle materie che l'art. 7 del testo unico delle
autonomie locali affida al regolamento deve avvenire nel rispetto dei
principi fissati dalla legge e dello statuto: ciò vale a dire che il
potere di autorganizzazione attraverso lo strumento regolamentare
deve svolgersi all'interno delle previsioni legislative e statutarie,
così ponendosi un rapporto di subordinazione”, subordina la
potestà statutaria e regolamentare al rispetto di norme di legge,
ergo del TUEL, ma anche del d.lgs 165 del 2001 e, dunque, dell’art.
19, co.6 (con i suoi requisiti culturali), sia prima che dopo la
novella del 150”.
E’ assurdo che non bastino ai
comuni norme chiarissime di legge e sentenze della Corte
costituzionale per applicare una volta e per sempre in modo corretto
la disciplina degli incarichi a contratto.
Ma, perché mai il legislatore
(che bene farebbe ad estirpare per sempre la malaerba micidiale degli
incarichi a contratto, abrogandoli definitivamente) ha previsto in
modo così rigoroso che il semplice possesso dei requisiti per
accedere ad un concorso non siano sufficienti per ottenere l’incarico
dirigenziale a contratto?
La ragione è semplicissima. La
spiega la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Lombardia,
con sentenza 22.6.2017, n.
91: “se per accedere
tramite concorso alla qualifica dirigenziale occorre la laurea più
una pregressa esperienza lavorativa pluriennale (di regola, salvo che
per il c.d. corso-concorso tramite SNA-SSPA), e, soprattutto, il
superamento di selettive ed eclettiche prove scritte ed orali
(talvolta anche con valutazione di titoli) tese a reclutare “i
migliori” aspiranti secondo i dettami costituzionali, a
maggior ragione la sussistenza di ancor più elevati e cumulativi
requisiti culturali e professionali è richiesta, testualmente e
logicamente, in capo a soggetti esterni che, non sostenendo un
concorso teso a dimostrare cultura e capacità, solo e soltanto
attraverso un probante, autorevole ed assai elevato curriculum
(raffrontato con quello di altri aspiranti in una trasparente
procedura selettiva) possono comprovare la predetta “particolare
specializzazione professionale, culturale e scientifica” richiesta
dall’art.19, co.6 cit.
La suddetta, pur
comprensibile, deroga al meritocratico vaglio concorsuale, che di
regola valuta con prove scritte ed orali la reale preparazione dei
tanti candidati, necessita dunque, quale basilare
ed indefettibile requisito, della laurea,
oltre che di dimostrata significativa (elevata,
specifica e non comune)
esperienza lavorativa e di pubblicazioni comprovanti l’alta
specializzazione/professionalità posseduta, che
“compensa” la mancanza di un riscontro, in punto di preparazione,
in un esame pubblico.”.
Chiaro? Normalmente, alla
dirigenza si accede a seguito di un concorso finalizzato a
selezionare il migliore tra quei concorrenti che dispongano dei
requisiti minimi richiesti dalla legge per essere ammessi. E’
l’esito del concorso a determinare il migliore tra i concorrenti,
quale soggetto che possa ricoprire quindi la qualifica dirigenziale.
In assenza di concorso, non è
possibile un confronto concorrenziale. L’incarico a contratto, che
per altro ha il primario scopo – e presupposto – di rimediare ad
una dimostrata carenza di professionalità nell’ente procedente,
consente di non effettuare prove concorsuali perché finalizzato ad
“attingere dal mercato” figure dotate di requisiti di
professionalità così evidenti ed elevate, da far presupporre in
modo assoluto che la loro competenza non sia certamente inferiore a
quella che dimostrerebbe il candidato che superi il vaglio di un
concorso.
Ecco, quindi, che il mero
possesso di una certa anzianità di servizio in posizione di accesso
alla qualifica dirigenziale e della laurea, non possono che essere
requisito per accedere al concorso, ma non per ottenere un incarico
dirigenziale a contratto. A tale scopo occorre ben di più.
Come evidenzia sempre la sentenza
91/2017 della Sezione Lombardia, “La
chiarissima norma, nell’attuale come nel previgente testo
(anteriore cioè al d.lgs. n.150), stabilisce dunque la possibilità
di conferire incarichi di funzioni dirigenziali a tempo determinato,
fornendone espressa motivazione, a tre diverse categorie di soggetti
di particolare e comprovata qualificazione professionale e culturale,
non rinvenibile nei ruoli (dirigenziali) dell’Amministrazione:
a) soggetti che abbiano svolto
attività in organismi ed enti pubblici o privati, ovvero aziende
pubbliche o private, con esperienza acquisita per almeno un
quinquennio in funzioni dirigenziali;
b) persone che abbiano
conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale
e scientifica desumibile dalla indefettibile formazione universitaria
e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche o/e (congiunzione
mutata dopo il d.lgs. n.150) da concrete esperienze di lavoro
maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni
statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in
posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza;
c) soggetti che provengano dai
settori della ricerca, della docenza universitaria, delle
magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato”.
Un dettaglio che spessissimo gli
enti locali “dimenticano” è che, applicando l’articolo 110 del
Tuel debbono contestualmente anche applicare l’articolo 19, comma
6, del d.lgs 165/2001, sicché dovrebbero selezionare solo personale
che disponga di una delle possibili 3 alternative elevate
professionalità viste sopra. Il che non accade quasi mai. Specie,
poi, quando l’incarico sia attribuito – come accade troppo spesso
– a personale interno.
Ora, le lettere c) e d a)
evidenziate sopra dalla Corte dei conti sono piuttosto chiare. Che
professori o ricercatori universitari, magistrati ed avvocati o
procuratori dello Stato, selezionati sulla base di rigorosissimi
concorsi, dispongano di una professionalità adeguata a quella di un
dirigente non può essere messo in dubbio. In quanto all’ipotesi
a), la circostanza di aver svolto in passato funzioni dirigenziali
sia nel pubblico che nel privato (la norma parla di “funzioni”
perché parla anche di incarichi privati; nel caso di attività nel
pubblico è evidente che occorre avere un quinquennio nella
qualifica), suggerisce che il destinatario ha già dimostrato in
passato di poter svolgere la funzione. En
passant: anche per
questi soggetti è necessario il requisito imprescindibile della
laurea. Non è pensabile che un dirigente pubblico, pur reclutato a
contratto, non disponga di un requisito che, laddove mancante,
nemmeno gli consentirebbe di partecipare ad un concorso.
Il punto controverso allora è la
lettera b) evidenziata prima dalla Corte. Che spiega, però, perché
l’esperienza professionale da sola non basta: “la
sostituzione ad opera del d.lgs. n.150/2009 della originaria
congiunzione coordinativa disgiuntiva “o”
(dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni
scientifiche o da concrete esperienze di lavoro maturate) con la
congiunzione coordinativa copulativa “e”
(dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni
scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate) abbia sul
piano giuridico una portata decisiva ai fini del presente giudizio,
in quanto detta mutevole congiunzione (prima “o”, poi “e”),
per la sua collocazione testuale e per sua logica interpretazione,
coordina e rende (ieri) alternativi oppure (oggi e, dunque, nel caso
di specie) cumulativi i requisiti, aggiuntivi comunque alla laurea,
costituiti da “pubblicazioni scientifiche e concrete esperienze di
lavoro maturate” sintomatiche (in via un tempo alternativa, oggi
cumulativa) della richiesta “particolare specializzazione
professionale, culturale e scientifica”. In altri termini, dette
mutevoli congiunzioni non si legano e non si coordinano, sul piano
grammaticale e logico, al requisito imprescindibile della laurea,
rispetto alla
quale sono entrambe aggiuntive sia prima che dopo la novella del
d.lgs. n.150/2009 (v. C.conti, sez.Lombardia n. 97/2016 cit.), ma
raccordano in chiave oggi (e già all’epoca del conferimento
omissis)
cumulativa le “pubblicazioni scientifiche” con le “concrete
esperienze di lavoro maturate”.
La Cassazione, con la sentenza
15514 giunge alle identiche conclusioni: “il
giudice di appello afferma, altresì correttamente, in ragione della
lettera della disposizione e della ratio legis, anche in ragione del
confronto tra i testi normativi succedutisi nel tempo, che la
concreta esperienza di lavoro deve coesistere con quella scientifica
e deve essere dirigenziale o ad essa equiparabile. […]
correttamente la Corte d'Appello, da un lato, ha, nella sostanza,
disapplicato
l'art. 119 del regolamento comunale,
atteso che quest'ultimo, in quanto esula dai principi generali
sanciti dalla legislazione regionale, ha natura provvedimentale e non
è riconducibile alla potestà normativa regolamentare sancita
dall'art. 65 dello statuto; dall'altro, ha fatto applicazione del
D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19, comma 6. Consegue
a ciò l'illegittimità del bando di selezione e della relativa
procedura, nonchè dell'atto di conferimento dell'incarico che veniva
annullato.
C’è, dunque, una
giurisprudenza ormai granitica e consolidata che conferma: no, gli
incarichi a contratto non sono né un’investitura medievale
all’uomo di fiducia dell’organo
di governo e nemmeno una progressione verticale.
Nonostante il quadro sia
chiarissimo, negli enti locali imperversano incarichi a contratto
attribuiti senza alcun rispetto delle disposizioni.
E ancora si assiste alla
sottoposizione alla Corte dei conti della domanda se sia possibile
fare a meno del requisito della laurea per i destinatari
dell’incarico, come desolatamente dimostra il parere
19.6.2019 della Sezione regionale di controllo per la Puglia, n. 66.
Per altro, preceduto molti anni prima da analoghe pronunce.
Insomma, è chiaro: gli enti
locali che insistono nell’applicare la disciplina degli incarichi a
contratto in modo ellittico e difforme dalla legge non possono
giustificare questo modus operandi con la poca chiarezza della
normativa o l’incertezza interpretativa.
Si tratta di un’insistenza
dovuta ad un insieme di fattori: le pressioni che la politica fa per
acquisire persone di propria fiducia, la maggiore snellezza e
semplicità di acquisire un 110 invece che attivare un concorso,
l’assenza totale della capacità di fermare incarichi illegittimi
prima.
Questo è l’elemento più
grave. Vi fosse un organo di controllo preventivo di legittimità,
atti di incarico in violazione delle norme ben più difficilmente
verrebbero approvati; i segretari comunali, troppo isolati nelle loro
funzioni di controllo e vittime di uno spoil system che la Corte
costituzionale con la sentenza 23/2019 ha perso l’occasione di
cancellare (venendo meno alla propria coerenza di 12 anni di pronunce
sul tema), non hanno la forza, da soli, di gestire un controllo
preventivo di tipo ostativo. Un organo di controllo terzo ed esterno
sarebbe un appoggio formidabile, sia con funzioni dissuasive in fase
istruttoria, sia attraverso la funzione demolitoria del mancato visto
di controllo.
Non si tratta di riportare in
auge istituti vecchi o di limitare l’autonomia gestionale degli
enti locali. L’autonomia bisogna saperla conquistare e meritare. Se
essa è la scusa anche per incarichi a contratto farlocchi, a persone
senza laurea o senza i requisiti minimi (e logici) per un
reclutamento senza concorso, non c’è ragione perché possa essere
difesa.
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