La gerarchia
Si evince
chiaramente che mentre la suddivisione della competenza per territorio pone
pochi problemi all’esatta individuazione dei confini che separano i poteri
rispettivi degli organi, più difficile è individuare una reale distinzione di
poteri nell’ambito della competenza per materia e, ancora, la distinzione
concreta tra la competenza per materia e la competenza per grado.
In effetti,
quest’ultima è abbastanza facile da percepire, in quanto è dato sostanzialmente
assiomatico che l’organo posto più in alto in una scala di gerarchia disponga
di poteri superiori all’organo inferiore. Il modello di ripartizione delle
competenze nell’esercito è il paradigma di tale tipo di organizzazione.
Il modello,
invece, dell’ordinamento giudiziario è il paradigma opposto: tra magistrati non
opera un ordine gerarchico, ma solo un rapporto di competenza, che nei riguardi
di alcune figure (ad esempio il procuratore capo della Repubblica) si
arricchisce di funzioni di coordinamento ed indirizzo.
Per comprendere
meglio la differenza dei due modelli una delle note caratteristiche del
rapporto di gerarchia puro, sia pure non esclusiva[1],
è la concorrenza tra i poteri dell’organo superiore e quelli dell’organo
inferiore, nel senso che il superiore gerarchico dispone di una competenza
comprensiva di quella dell’inferiore gerarchico. Si parla, in
questo caso, di competenza di carattere “concorrente”.
La figura
riportata sopra rappresenta il fenomeno della condivisione delle medesime
competenze tra organo sovraordinato ed organo sottoordinato: il primo,
condividendo col secondo i poteri esercitabili, è in grado di avvalersi
dell’opera del secondo per svolgere le proprie funzioni. E’ una sua facoltà di
esercitare i poteri lasciando che sia il sottoordinato a svolgere le relative
competenze. Altrimenti, il superiore gerarchico può direttamente esplicare le
sue competenze, limitando le funzioni del sottoordinato, la cui sfera di
competenze, dunque, è sempre soggetta a limitazioni, che incidono direttamente
su di essa, comprimendola.
Ciò
avviene, perché nel modello gerarchico puro, tra gli organi non v’è una vera e
propria separazione di competenza. In effetti, nel modello di gerarchia in
senso stretto, la competenza si può confondere con l’attribuzione[2],
nel senso, sopra individuato, di insieme dei poteri spettanti ad una figura
soggettiva (ente), senza la specificazione dell’assegnazione di tali poteri ai
singoli organi che compongono il soggetto stesso.
La
precedente figura, dunque, potrebbe essere presentata come una piramide, alla
base della quale stanno le competenze, mentre nei vari livelli gli organi che
le esercitano: ogni livello superiore, travolge la competenza di quello
inferiore:
Nell’ambito della competenza
per materia, invece, questo non accade. La competenza per materia, infatti,
presuppone proprio la specificazione del complesso delle attribuzioni di poteri
assegnati ad una figura soggettiva, da cui deriva l’assegnazione a ciascuno
degli organi che la compongono di specifiche sfere di competenza.
Ciò significa che gli organi
sono posti sullo stesso piano o, meglio, che non sono organizzati in forma
piramidale. Geometricamente, le relazioni tra gli organi posti tra loro in una
relazione di competenza può essere resa come una serie di connessioni.
Nel rapporto
di competenza, nessuno degli organi condivide proprie competenze con altri
organi. Questo significa che nessuno degli organi può, reciprocamente,
ingerirsi nella sfera di competenza di un altro organo, pena la violazione di
legge, proprio per difetto di competenza.
Il sistema del rapporto di
competenza dà luogo, quindi, ad una serie di organi ai quali la legge, o il
regolamento nel rispetto degli spazi ad esso lasciato dalla prima, attribuisce
assegna direttamente, effettuando una ripartizione chiara, il compito di
esercitare alcuni dei poteri attribuiti alla figura soggettiva alla quale
appartengono. In questo caso, si può parlare di competenza esclusiva, in quanto
la norma specifica chiaramente l’organo al quale tale competenza è attribuita,
senza che alcun altro organo, anche dotato di poteri eventualmente più ampi,
possa interferire sull’azione di altro organo.
Quando tra
organi della medesima figura giuridica intervenga una relazione di competenza e
non di grado gerarchico, allora debbono subentrare strumenti organizzativi,
finalizzati a garantire che l’azione di ciascun organo o ufficio non sia in
contrasto con i fini generali e gli indirizzi della figura soggettiva, da un
lato, e che non vada in direzione opposta a quella tracciata da altri organi.
In questo
caso, l’organizzazione dell’ente prevede la costituzione di una funzione di
direzione, che pone due o più organi equiordinati in una relazione tale che uno
tra essi si assuma il compito di garantire la reciproca coerenza dell’attività
svolta da ciascuno degli altri, nonché il rispetto degli indirizzi generali di
governo dell’ente.
L’organo al
quale sia assegnata la funzione di direzione, allora, non può esercitare propri
della relazione di gerarchia pura, quali dare ordini vincolanti, controllare
l’operato mediante ispezioni ed inchieste, annullamento degli atti, revoca,
soluzione di ricorsi, sostituzione sia in caso di inerzia, sia come potere di
ingerenza diretta nella sfera di attività del subordinato.
Al
contrario, può esercitare poteri quali le direttive, ovvero atti di indirizzo
che non impongono al destinatario un comportamento o una scelta, privandolo del
potere di autodeterminarsi sul come seguire quel dato comportamento, o,
addirittura, di non seguirlo, previa adeguata motivazione. Le direttive,
infatti, a differenza degli ordini, non stabiliscono disposizioni concrete e
puntuali, limitandosi a fare presente al destinatario, invece, quali sono gli
obiettivi da perseguire, senza obbligarlo ad utilizzare determinati mezzi e
risorse, né prevedendo termini diversi da quelli fissati con atti di governo,
in modo da lasciare spazi per una flessibilità gestionale. Sicchè, il
destinatario della direttiva è obbligato, nella sua azione, a tenere
specificamente conto dell’indirizzo ricevuto, come criterio operativo, che,
tuttavia, non vincola ad agire in una determinata modalità, ancorché la scelta
di non seguire l’indirizzo ricevuto obblighi ad una specifica motivazione.
Ancora,
nell’ambito del potere di direzione è ammissibile l’esercizio della funzione di
coordinamento, consistente nel fare in modo che i vari organi sui quali sia
esercitabile il potere di direzione agiscano sulla base di una condivisa
interpretazione delle norme, adottando comportamenti omogenei di fronte a
situazioni di fatto definite, seguano una programmazione delle attività
condivisa, rispettando reciprocamente ruoli, tempi e risorse di ciascuno. Si
ritiene in dottrina[3]
che al potere di direzione fa da contrappunto un interesse particolarmente
protetto dell’organo soggetto al potere di direzione, interesse specificamente
rivolto al rispetto della propria autonomia, meritevole di tutela in sede
giurisdizionale.
Il potere
di sostituzione, nell’ambito del rapporto di direzione, non è contemplato come
forma generale di organizzazione e deve essere specificamente stabilito dalla
legge. Tuttavia, nell’ambito della funzione di coordinamento[4]
è possibile assicurare proprio mediante la sostituzione il corretto
espletamento delle attività, così come è esercitabile la funzione di risoluzione
dei conflitti di competenza o la creazione di “unità di progetto”, intese come
figure organizzative straordinarie, non previste in modo fisso nella struttura
organizzativa, create proprio allo scopo di realizzare momenti di coordinamento
tra pool di risorse appartenenti ad organi diversi, per perseguire fini
comuni, al conseguimento dei quali il pool si scioglie.
Il principio dell’inderogabilità della
competenza
L’articolo
97 della Costituzione dispone, come visto in precedenza, che i pubblici uffici
sono organizzati secondo disposizioni di legge e che è sempre la legge a
determinarne le attribuzioni e le sfere di competenza.
Poiché nel
sistema democratico l’ordinamento rimette alla legge l’individuazione
dell’interesse generale e degli strumenti per perseguirlo, la disposizione
della Costituzione deve essere letta come norma di garanzia[5].
E’ il legislatore, quale rappresentante del corpo elettorale, che rilevato il
fine pubblico da perseguire, stabilisce a quale soggetto pubblico attribuire i
poteri connessi e indica come ripartire tra gli organi che compongono tale
soggetto pubblico l’esercizio di tali poteri, fissando, quindi, le loro sfere
di competenza.
Questa
funzione di garanzia assolta dalla legge, è tipica degli ordinamenti giuridici
denominati come “stato di diritto”, che si contrappongono in particolare alle
monarchie assolute o alle monarchie illuminate (altrimenti conosciute come
“stato di polizia”).
Nelle
monarchie assolute si assiste ad una completa concentrazione dei poteri
pubblici in capo al sovrano, il quale è “assoluto” perché dispone del potere di
determinare il bene pubblico e, correlativamente, della capacità di fissare le
regole per il suo perseguimento, ma la sua potestà non è assoggettata a tali
regole (le leggi): il sovrano è assoluto non tanto nel senso che dispone di
tutto il potere, quanto nel senso che la sua potestà è sciolta (in latino ab-solutum)
dalle leggi. Il sovrano assoluto è, dunque, al di sopra delle leggi, non ne è
vincolato. Simili regimi di fatto ammettono che l’amministrazione della cosa
pubblica sia mutevole, non sorretta da regole predeterminate, ma influenzata da
esigenze anche rilevate sul momento o relative a singole, concrete fattispecie
(privilegi regali). Ciò significa che il potere amministrativo non è precostituito,
le sfere di competenza non note o, comunque, soggette a continue mutazioni. Il
cittadino, insomma, non può contare su un giusto procedimento, in quanto egli è
soggetto a regole che talvolta non è in grado di conoscere, mentre il soggetto
pubblico può mutarle nel corso delle cose.
Non molto
diversa è la situazione dei cosiddetti stati di polizia, nei quali la più
evidente volontà di curare gli interessi generali (polizia, dal greco “cura
della comunità”), da un lato limita la potestà del sovrano, il quale non è più
assoluto, ma sottoposto alla legge; dall’altro, però, il sovrano continua a
determinare in via esclusiva gli interessi da perseguire e le modalità
concretamente operative, senza una precisa determinazione di regole del “giusto
procedimento” che consentano al cittadino di entrare in relazione con lo Stato
in posizione di equilibrio.
Solo lo
stato di diritto introduce, tra le altre importanti innovazioni come la
divisione dei poteri legislativo, giudiziario ed amministrativo, il principio
che anche lo Stato, ma tutti gli organi pubblici, sono soggetti alla legge, ed
il principio del “procedimento legale”. In sostanza, la macchina pubblica deve
funzionare in base a regole generali che vincolano non solo i cittadini, ma
anche gli enti pubblici, e tali regole non sono fissate dalla medesima autorità
amministrativa, bensì dalla legge. Ciò allo scopo di evitare la mutevolezza
delle regole nel tempo, al mero scopo di adattarle all’interesse specifico
dell’amministrazione stessa o di singoli “potentati”.
La
predeterminazione, mediante legge, delle regole alle quali deve sottoporsi
anche l’organizzazione amministrativa, implica:
1)
la
predeterminazione dei fini pubblici;
2)
la
predeterminazione degli enti e degli organi dotati del potere di perseguirli;
3)
un
insieme di procedimenti fissati a loro volta da regole procedurali vincolanti.
Ciò
consente al cittadino di porsi in una relazione “negoziale” con la pubblica
amministrazione, abbandonandosi il concetto dell’amministrazione come soggetto
posto in una posizione di supremazia speciale nei confronti dei terzi,
sostituito dal già citato principio del giusto procedimento.
Stando così
le cose, l’ordine delle competenze assume con ogni evidenza un’importanza
determinante. La predeterminazione dei fini, dei poteri, della competenza
assegnata a certi organi, consente al cittadino di sapere qual è, di volta in
volta, l’autorità preposta alla cura di certi interessi, quali sono gli organi
attivi di questa, sulla base di quali regole essi agiscono, come, in base a
tali regole, è possibile sia “negoziare” con loro, sia tutelarsi
amministrativamente o giudizialmente nei loro confronti.
Se l’ordine
delle competenze fosse rimesso alla volontà dell’autorità amministrativa, esso,
in funzione dell’elevata propensione alla mutevolezza degli assetti
organizzativi interni alle pubbliche amministrazioni, sarebbe difficilmente
fissabile a priori: in tal modo, però, si vanificherebbe il principio del
procedimento legale.
Ecco,
pertanto, perché la Costituzione ha previsto la riserva di legge, quale fonte
principalmente competente a dettare gli assetti delle attribuzioni e delle
competenze delle autorità e degli organi pubblici.
Ciò
significa, allora, che autorità ed organi pubblici non possono, mediante
provvedimenti amministrativi, alterare tali assetti.
In altre
parole, dalla Costituzione deriva il principio dell’inderogabilità della
competenza, riconosciuto come pacifico dalla dottrina[6].
D’altra
parte, dal principio dell’inderogabilità della competenza deriva direttamente
uno dei principali vizi dei provvedimenti amministrativi, il vizio di
incompetenza, riconosciuto una specie del genere della violazione di legge,
proprio in quanto la determinazione delle sfere di competenza è rimessa, dalla
Costituzione alla legge.
Se, come
visto prima, la legge ha il compito di individuare i fini da perseguire ed i
poteri connessi, così da affidarli ad un certo soggetto appartenente
all’amministrazione pubblica identificato come competente ad esercitare quei
poteri, è evidente che l’esercizio di tali poteri da parte di altro soggetto
che non abbia ricevuto dalla legge la legittimazione a provvedere, implica una
violazione della legge.
L’atto,
pertanto, adottato da organo incompetente è per questo solo da considerare
invalido. L’organo incompetente, infatti, si presume non solo non dotato dei
poteri di decidere e, quindi, privo radicalmente della potestà amministrativa,
ma si presume anche non idoneo a ponderare gli interessi in gioco e ad
effettuare le valutazioni istruttorie, che solo l’organo competente è in grado
di porre in essere in modo compiuto.
Ovviamente,
perché vi sia effettivamente incompetenza, è necessario che la legge abbia con
chiarezza stabilito che uno specifico potere sia di un certo ente, o di un
certo organo.
Per questo,
qualora l’organizzazione interna all’ente non comporti un’assegnazione di
distinte competenze tra organi, ma, al contrario, un’attribuzione complessiva
senza specificazione, dandosi così luogo alla relazione di gerarchia pura tra
gli organi dell’ente, l’esercizio delle funzioni da parte di ciascuno degli
organi preposti non comporta incompetenza, ma, semmai, responsabilità interna
dell’organo inferiore nei confronti dell’organo superiore, qualora l’esito
finale dell’azione amministrativa sia contrario alle disposizioni fissate dal
superiore gerarchico.
Se l’ente è
organizzato al suo interno in base al principio della competenza, al contrario,
il rischio dell’impropria violazione delle competenze è direttamente
proporzionale al grado della loro specificazione, da parte della legge o dei
regolamenti.
La
competenza attribuita dalla legge all’organo da essa individuata, può essere
definita come competenza a titolo originario.
Occorre,
comunque, specificare che la riserva di legge di cui all’articolo 97 della
Costituzione è solo relativa. Sicchè, la legge può demandare ad altre fonti non
tanto il compito di attribuire i poteri agli enti, quanto di specificare le
competenze degli organi.
La legge
può disporre di se stessa, limitandosi a fissare solo alcuni principi,
nell’ambito dei quali, dunque, le autorità amministrative possono muoversi, per
meglio delineare gli ambiti di competenza dei propri organi.
Tuttavia,
tali autorità non possono provvedere con provvedimenti amministrativi (con
l’eccezione proprio della delega), bensì mediante atti generali ed astratti.
Dunque, sono i regolamenti di organizzazione degli enti le fonti che possono
integrare o parzialmente diversificare l’assetto generale delle competenze, nel
rispetto, comunque, dei limiti previsti dalla legge.
Le fonti attributive della competenza negli enti
locali: legge, statuto o regolamenti?
Ci si
interroga se questo assunto debba essere revisionato, a seguito della legge
costituzionale 3/2001, che ai sensi dell’articolo 117, comma 6, ha dato rilievo
costituzionali allo statuto ed ai regolamenti locali, assegnando a questi la
competenza normativa in merito disciplina dell’organizzazione e dello
svolgimento delle funzioni loro attribuite.
E’
possibile, in effetti, fornire una lettura della disposizione costituzionale
nel senso che la potestà della legge di disciplinare le competenze sia stata
dismessa e vi sia, dunque, in conseguenza una delegificazione di tale potere, a
vantaggio della potestà regolamentare locale. Il che, dunque, avrebbe abbassato
al livello di fonte regolamentare, particolarmente tutelata dalla Costituzione,
la disciplina complessiva della competenza negli enti locali, che sarebbe,
dunque, integralmente rimessa a quanto disposto dallo statuto e dai
regolamenti, anche, pertanto, disapplicando le leggi attualmente in vigore.
Tale
approccio, per altro, sembrerebbe ulteriormente confermato dall’articolo 4,
comma 6, della legge 131/12003, a mente del quale “fino all’adozione dei
regolamenti degli enti locali, si applicano le vigenti norme statali e
regionali, fermo restando quanto previsto dal presente articolo”.
Pare,
tuttavia, preferibile una lettura diversa e meno radicale. Gli effetti che la
riforma della Costituzione ha determinato sul regime delle fonti locali non
pare possano giungere a ritenere che la carta costituzionale abbia determinato
una equiordinazione delle fonti locali rispetto alla legge.
La recente
sentenza de Tar Campania, Napoli, Sezione II, 18 dicembre 2003, n. 15430
fornisce precise argomentazioni per contestare la tesi della sussistenza di una
riserva di competenza per statuti e regolamenti.
I giudici
campani hanno ritenuto che la competenza all’attribuzione degli incarichi
professionali negli enti locali spetti esclusivamente alla dirigenza, senza che
allo scopo occorra alcuna intermediazione statutaria, posto che l’articolo 107
del d.lgs 267/2000 esaurisce del tutto la fattispecie normativa, in merito al
riparto delle funzioni tra organi di governo ed organi gestionali. La sentenza,
pertanto, enuncia l’applicabilità immediata e diretta del principio di
separazione, nonostante fosse già da qualche tempo in vigore la legge 131/2003,
oltre che la riforma costituzionale. La decisione del Tar Napoli appare di
estremo rilievo in particolare per questo motivo. E’ la constatazione che le
fonti normative locali non hanno assunto una diversa forza, né una nuova
collocazione, nella gerarchia delle fonti.
Nonostante
la particolare attenzione riposta dall’articolo 117, comma 6, della
Costituzione e dall’articolo 4, commi 3 e 6, della legge 131/2003 alla potestà
normativa locale sulla specifica materia dell’organizzazione, la corretta
individuazione del concetto di organizzazione è uno degli elementi fondamentali
per comprendere quale sia la forza normativa di statuti e regolamenti locali in
merito, tanto nell’attuale sistema, come nel precedente.
Si è
osservato che la costituzionalizzazione della potestà statutaria e
regolamentare locale avrebbe comportato una riserva di competenza a tali fonti
normative, in merito, in particolare, all’organizzazione dell’ente.
La
decisione del Tar Napoli è utile per ricondurre l’osservazione – corretta
–secondo cui il rilievo dato dalla Costituzione a statuti e regolamenti non
possa rimanere privo di conseguenze, da posizioni eccessivamente propense a
considerare fonti in rapporto di competenza rispetto alla legge, verso
posizioni più aderenti al dato storicamente oggi presente.
La
Costituzione e la legge 131/2003 rappresentano disposizioni che tracciano nei
confronti del futuro legislatore le linee di tendenza da seguire, che dovranno
necessariamente puntare verso la valorizzazione delle fonti locali, principio,
del resto, desumibile dall’articolo 114, comma 2, della carta costituzionale,
ed espressamente formulato nelle deleghe legislative contenute nella legge
131/2003.
Se,
comunque, si evidenzia qual è il significato della materia “organizzazione” si
comprende che la potestà normativa di statuti e regolamenti, anche qualora si
dovesse configurare come concorrente con la legge, incontrerebbe limiti molto
precisi, tali da non consentire la modifica degli assetti delle competenze,
previsti dalla legge medesima.
Enciclopedie
e vocabolari concordano nel definire il verbo “organizzare” come attività volta
a coordinare un complesso di organi in modo armonico tra loro, per integrarli e
concorrere allo svolgimento di una funzione comune.
L’attività
di organizzazione, allora, non consiste né nell’individuazione degli organi, né
nell’assegnazione di poteri nei loro confronti. Questo genere di funzioni,
infatti, attiene all’attività costituente. E’ mediante lo statuto e l’atto
costitutivo di una società di diritto civile che si individuano gli organi e si
definiscono i loro poteri. Con successivi atti organizzativi, poi, si
stabilisce come ciascun organo si avvale di tali poteri, per il conseguimento
di fini e strategie di azione. Nell’esercizio della fase “costituente”,
comunque, tali soggetti debbono rispettare alcuni limiti e vincoli posti dalla
legge (il codice civile), che impone la presenza di alcuni organi e ne fissa le
competenze minime, oltre a prevedere precise modalità per rendere pubblici i
dati delle persone fisiche che li compongono.
La fase
costituente, dunque, si compone di due momenti normativi: uno lasciato alla
legge, che fissa l’architettura essenziale delle società; l’altro completato
dallo statuto e dall’atto costitutivo.
Questo
accade anche nell’ambito pubblico. Con una differenza essenziale: l’estensione
della funzione “costituente” della legge è stata, almeno fino ad oggi,
notevolmente più ampia rispetto a quella prevista nel diritto civile, sì da
determinare una forte compressione delle funzioni costituenti delle fonti
normative locali.
Il motivo
di tale fenomeno è legato, ancora una volta, all’articolo 97 della
Costituzione, il quale stabilisce che sia la legge a determinare
l’organizzazione degli uffici. Pertanto, si è assistito nel corso degli anni ad
uno straripamento delle norme di rango legislativo dalla funzione costituente
(individuazione di organi e di poteri), alla funzione organizzativa
(indicazione di dettaglio delle attività degli organi stessi, delimitazione
delle reciproche sfere di competenza, modalità di funzionamento).
Tale
straripamento ha anche determinato la storica difficoltà a distinguere ciò che
attiene alla materia costituente-ordinamentale, dalla vera e propria funzione
di organizzazione.
Una vera e
propria valorizzazione delle funzioni normative locali si avrà quando il
legislatore, nel disciplinare la materia degli organi e dei loro poteri,
seguirà la falsa riga del codice civile per le società private, senza fissare
nel minimo dettaglio né gli organi, né le competenze.
In ogni
caso, comunque, se statuti e regolamenti si caratterizzano per una specifica
potestà normativa in materia di organizzazione, non si può che concordare col
Tar Napoli quando sottolinea che l’articolo 107 del d.lgs 267/2000, nel
menzionare lo statuto come fonte destinataria del potere di individuare le
competenze dirigenziali in attuazione del principio di separazione:
1) attribuisce allo statuto non la
potestà “costituente” di stabilire a quale organo locale assegnare la
titolarità di poteri pubblici, perché tale titolarità è predeterminata dalla
legge;
2) si limita ad assegnare allo statuto
il compito di precisare le modalità di esercizio dei poteri degli organi dirigenziali.
Lo statuto,
allora, fermo restando che le funzioni di gestione sono ascritte in modo
invariabile alla competenza dirigenziale, ha il compito di organizzare (o
gettare le basi dell’organizzazione) il modo con cui il complesso della
dirigenza esercita tali funzioni. Infatti, posto che alla dirigenza siano
attribuiti poteri gestionali, poiché tali poteri sono esplicabili
nell’estesissima gamma delle funzioni e dei servizi che gli enti locali debbono
erogare, occorre stabilire come organizzare l’esercizio di tali funzioni e
servizi, fissando le regole per la ripartizione dei vari compiti all’interno
degli uffici e dei funzionari di diverso livello. In altre parole, le
attribuzioni di poteri alla dirigenza ed agli organi di governo locali sono di
pertinenza della legge. La specificazione di tali competenze è compito dello
statuto e dei regolamenti locali, precisando che il dettaglio della norma in
merito alle competenze degli organi di governo è tale che ben poco può lo
statuto in merito.
Organizzare
implica il compito di attribuire compiti operativi, nell’ambito di competenze
fissate dalla legge.
Gli enti
debbono, quindi stabilire:
1) di quante strutture di massima
dimensione dotarsi;
2) i modi di attribuzione degli
incarichi di direzione di tali strutture;
3) quali funzioni gestionali assegnare
a ciascuna struttura, individuando criteri di omogeneità, influenzati dalla
quantità e qualità delle dotazioni di personale, strumentali e finanziarie;
4) in quante e quali strutture
intermedie quelle di massima direzione si scompongono;
5) quali sono le funzioni di questi
ulteriori elementi organizzativi;
6) quali sono i poteri da assegnare a
tali strutture;
7) quali sono i sistemi di
coordinamento delle funzioni e di controllo;
8) quali sono gli organismi o i soggetti
ai quali sono assegnate funzioni di coordinamento (per il coordinamento della
dirigenza di vertice è già la legge a prevedere che provveda il segretario
comunale o il direttore generale);
9) quali sono le modalità di esercizio
delle funzioni gestionali, indicando risorse, tempi, indicatori di qualità e
quantità delle prestazioni;
10) quali sono i processi di workflow, la
modulistica da usare, i metodi gestionali concreti.
Si tratta
di una serie di operazioni che va dalla macro organizzazione, alla definizione
di dettaglio delle modalità operative, dalla strutturazione generale dell’ente,
all’attuazione della legge 241/1990.
In questo
ambito, lo statuto ha il compito di fissare una disciplina generale,
sostanzialmente limitata ai precedenti punti 1, 2 e 3, limitandosi, per questo,
a sole indicazioni di principio.
Il
regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi interviene a
dettagliare meglio i punti da 1 a 3 e a prescrivere la disciplina di cui ai
punti 5, 6, 7, 8.
Il Peg
precisa quanto al punto 9.
La concreta
gestione, mediante atti di micro organizzazione, attiene al punto 10.
Una volta
che si sia così delimitata la funzione organizzativa, non si potrebbe mai porre
il problema della competenza degli statuti o dei regolamenti di organizzazione a
determinare le titolarità dei poteri degli organi, che sono predeterminate
dalla legge senza alcuna possibilità di intervento delle fonti locali, se non
per la funzione di “specificare” le attribuzioni normative.
Questo
quadro non è stato intaccato dalla legge 131/2003, che consente ai regolamenti
di derogare alle disposizioni di legge in tema di organizzazione, ma nel
rispetto dei principi generali in materia di organizzazione pubblica e delle
disposizioni di legge sull’attribuzione delle competenze.
In sostanza,
si consente di trasportare una disciplina organizzativa dalla fonte legislativa
a quella regolamentare locale, ma pur sempre nei limiti in cui la legge
consenta ai regolamenti di provvedere in tal senso e nella misura in cui la
legge non si riappropri di tale funzione.
E’,
comunque, da escludere che norme sull’organizzazione possano contenere
disposizioni sulla “costituzione” dei poteri, almeno finchè il legislatore non
lo disponga espressamente.
La
valorizzazione della potestà normativa locale operata dalla legge 131/2003 va
correttamente inquadrata nel quadro della gerarchia delle fonti, pur sempre
fissato dalla Costituzione.
Sebbene in
termini generali si possa affermare che l’assetto del rapporto tra le fonti
vada sempre più verso l’abbandono del rigido criterio gerarchico, in favore del
principio della competenza, a ben vedere la legge 131/2003 non modifica la
posizione di statuti e regolamenti nella gerarchia delle fonti, in quanto è la
stessa legge costituzionale 3/2001 a non aver prodotto, in realtà, una modifica
di tale rapporto.
E’
certamente corretto rilevare che per effetto dell’articolo 114 novellato della
Costituzione la potestà normativa locale assume un ruolo ed una veste mai
posseduta in precedenza. Infatti, sebbene il combinato disposto degli articoli
5 e 128 della Costituzione ante riforma consentiva di reperire nella carta
costituzionale la radice di una potestà normativa locale, essa era posta
espressamente solo dal legislatore ordinario. In particolare, è stata la legge
142/1990 ad introdurre la potestà statutaria e a ridefinire l’assetto della
potestà regolamentare, già da molto conosciuta e regolata dalla legge.
Con la
riforma del Titolo V della Costituzione, tuttavia, le tipiche fonti normative
locali, statuti e regolamenti, trovano un espresso riconoscimento
costituzionale. Per la prima volta la Costituzione pone e disciplina la potestà
normativa locale. Si è compiuta, dunque, una scelta normativa molto forte, che
preclude al legislatore ordinario ogni possibilità di tornare indietro sulla
volontà di attribuire agli enti locali una forte potestà normativa. Solo il
legislatore costituente, infatti, potrebbe rivedere l’assetto normativo
ridisegnato dalla legge costituzionale 3/2001.
In
presenza, in particolare, di una forte costituzionalizzazione della
sussidiarietà (operata con la novellazione dell’articolo 118 della
Costituzione), non può che sussistere in capo agli enti locali, per definizione
quelli maggiormente prossimi alla popolazione amministrata, una correlata
intensa potestà normativa.
La
valorizzazione, però, di tale potestà non conduce ad una modifica dell’assetto
delle fonti, così come conosciute dalla Costituzione.
Né tale
modifica potrebbe derivare dalle disposizioni contenute nella legge 131/2003,
la quale, essendo una legge ordinaria, la cui dichiarata funzione è
l’attuazione della riforma costituzionale, non potrebbe certamente dare corso a
ciò che la Costituzione stessa non ha fatto, cioè elevare di rango le fonti
locali, sì da porle allo stesso livello della legge o, comunque, in relazione
di competenza con la legge.
L’articolo
4, comma 1, della legge 131/2003, infatti, nell’affermare che comuni, province
e città metropolitane hanno potestà normativa secondo i princìpi fissati dalla
Costituzione e specificando che tale potestà normativa consiste nella potestà
statutaria e in quella regolamentare non fa altro che dettare una regola
pienamente conforme a quanto prevede il già citato articolo 114, dando luogo ad
una disposizione normativa priva di capacità innovativa del diritto[7].
Gli statuti
restano fonti normative secondarie. In primo luogo essi sono certamente
subordinati alla Costituzione, con la quale non possono contrastare, visto che
la potestà statutaria si esplica secondo i principi fissati dalla Costituzione,
cioè “nel modo richiesto da …”, “conformemente a …”, “in dipendenza di…”,
utilizzando espressioni analoghe a “secondo a…”, reperibili nei vocabolari. Ma,
se gli statuti “dipendono” dalla Costituzione, non possono contrastare con essa
e quindi, le sono certamente subordinati.
Tale
posizione di sottoposizione alla Costituzione è confermata dalla previsione
contenuta nell’articolo 4, comma 2, della legge 131/2003, a mente del quale “lo
statuto, in armonia con la Costituzione e con i princìpi generali in materia di
organizzazione pubblica, nel rispetto di quanto stabilito dalla legge statale
in attuazione dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione,
stabilisce i princìpi di organizzazione e funzionamento dell’ente, le forme di
controllo, anche sostitutivo, nonché le garanzie delle minoranze e le forme di
partecipazione popolare”.
Tale norma
pone i seguenti criteri di regolazione dei rapporti tra statuto Costituzione e
leggi:
1)
dipendenza
dalla Costituzione;
2)
armonia
con la Costituzione;
3)
armonia
con i princìpi di organizzazione pubblica (anche di fonte non costituzionale);
4)
rispetto
della legge di cui all’art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione.
In
particolare il quarto criterio è fondamentale per rilevare che lo statuto non
dispone di un’area normativa a sé riservata per la disciplina dell’ordinamento
interno. Al contrario, la Costituzione ha riservato alla legge dello Stato la
potestà di disporre legislativamente in merito a materie importantissime per la
disciplina ordinamentale, come la legislazione elettorale, la disciplina degli
organi di governo e la disciplina delle funzioni fondamentali degli enti.
E’ discusso
in dottrina se sulle altre materie dell’ordinamento locale abbia potestà
normativa la regione, in attuazione della potestà legislativa generale e
residuale assegnatale dall’articolo 117, comma 4, della Costituzione, o se,
invece, la Costituzione non abbia riservato agli statuti quanto meno una
potestà residuale sull’ordinamento locale, con l’eccezione delle sole materie
assegnate alla potestà normativa dello Stato.
Contro tale
tesi, tuttavia, concorrono due osservazioni. In primo luogo, la potestà
legislativa delle regioni è generale: riguarda, quindi, tutte, senza eccezione
alcuna, le materie non riservate alla potestà legislativa dello Stato. Ciò
significa che le leggi regionali incontrano una limitazione alla propria
potestà legislativa solo in riferimento alla potestà legislativa assegnata
dalla Costituzione allo Stato. Nella carta costituzionale non si riscontra
alcun limite alla potestà legislativa regionale in rapporto alla potestà
statutaria.
A
differenza degli statuti regionali, ai quali la Costituzione riserva materie
normative espressamente all’articolo 123, non si riscontra alcuna riserva
espressa di materie a beneficio dello statuto degli enti locali.
Ma, in
mancanza di una riserva di competenza, si deve concludere che non sussista un
rapporto di competenza tra fonti.
La
valorizzazione, allora, della potestà normativa locale non passa attraverso la
modifica della posizione degli statuti locali nella gerarchia delle fonti,
nonostante vi sia il chiaro intento del legislatore costituente di porre
comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato in posizione di “pari
dignità”, come enti territoriali tutti concorrenti alla costituzione della
Repubblica.
La pari
dignità, in effetti, comporta necessariamente il riconoscimento e la
valorizzazione di ruoli, competenze e funzioni di tali enti. Ma non può portare
alla medesima rilevanza di tali ruoli, competenze e funzioni.
Ciascun
ente ha pari dignità, ma nel rispetto della propria dimensione territoriale,
dell’estensione delle proprie competenze, dei confini della propria potestà
normativa.
La pari
dignità presuppone che la Costituzione riconosca espressamente una potestà statutaria
per gli enti locali e che parifichi la potestà legislativa regionale a quella
statale. Ma ruolo, competenze e funzioni dello Stato sono diversi, peculiari
rispetto a quelli degli altri enti. Lo stesso avviene nei rapporti reciproci.
Dunque,
l’articolo 114 della Costituzione pone la “pari dignità”, non “equiparazione”
tra enti. Del resto, se così non fosse, la legge costituzionale 3/2001 avrebbe
dato vita non ad un sistema di autonomia policentrica, ma avrebbe fatto sorgere
tantissimi enti dotati di sovranità, tutti provvisti di poteri normativi
legislativi equiparati tra loro.
La sentenza
24 luglio 2003, n. 274 della Corte Costituzionale conferma che agli enti locali
la legge 3/2001 non abbia attribuito una riserva di competenza a livello
statutario. La Consulta ha, infatti, chiarito in modo estremamente tranciante
che “lo stesso art. 114 della Costituzione non comporta affatto una totale
equiparazione fra gli enti in esso indicati, che dispongono di poteri
profondamente diversi tra loro: basti considerare che solo allo Stato spetta il
potere di revisione costituzionale e che i Comuni, le Città metropolitane e le
Province (diverse da quelle autonome) non hanno potestà legislativa”.
Dunque, la
potestà normativa statutaria non corrisponde a quella legislativa. E, mancando
una riserva di competenza espressa, allora non può che rimanere subordinata
alla legge, sebbene la Costituzione indubbiamente ponga, in via indiretta, un
principio di preferenza dello statuto rispetto alla legge nella disciplina
dell’ordinamento interno di ciascun ente (vedremo meglio di seguito come
dovrebbe esplicarsi tale “preferenza”).
Un punto
focale della legge 131/2003 è rappresentato dall’articolo 4, comma 3, a mente
del quale “l’organizzazione degli enti locali è disciplinata dai regolamenti
nel rispetto delle norme statutarie”.
L’Anci[8] attribuisce particolare enfasi a
questa disposizione, mettendola in stretta relazione con il comma 6 del
medesimo articolo 4, ai sensi del quale “fino all’adozione dei regolamenti
degli enti locali, si applicano le vigenti norme statali e regionali, fermo
restando quanto previsto dal presente articolo”.
Limitandosi
alla lettura di questi due commi, si potrebbe concludere che effettivamente
l’organizzazione è riservata ai regolamenti locali, i quali risultano soggetti
solo allo statuto.
Tuttavia,
richiamando quanto rilevato sopra in merito all’inesistenza di una riserva di
materie alla potestà normativa locale, il combinato disposto dei commi 3 e 6
dell’articolo 4 della legge 131/2003 non può né interpretarsi come riserva ai
regolamenti locali della materia dell’organizzazione, né considerarsi come
dettato che fissa un assoggettamento della legge ai regolamenti.
Infatti, se
la Costituzione non ha previsto tale riserva di competenza, certo non può provvedere
il legislatore ordinario, per il noto principio che la legislazione ordinaria
non può prevedere riserve normative, che possono essere fissate solo dal
legislatore costituente. Il legislatore ordinario può solo decidere come
attuare la propria potestà normativa, stabilendo di non intervenire in maniera
pervasiva su tutta la regolamentazione della materia di propria competenza,
demandando alla normazione secondaria, di altri organi o enti (Governo o enti
locali) una parte della disciplina normativa.
In secondo
luogo, se così non fosse, significherebbe che il legislatore ordinario,
esercitando poteri costituenti, avrebbe assegnato ai regolamenti un ruolo quasi
sovraordinato alle leggi.
In realtà,
l’articolo 4, comma 3, della legge 131/2003 risulta una norma priva di
contenuto particolarmente innovativo.
Essa,
infatti, non fa che riprodurre, quanto già previsto dall’articolo 89 del D.lgs
267/2000, che al comma 1 dispone che “gli enti locali disciplinano, con
propri regolamenti, in conformità allo statuto, l’ordinamento generale degli
uffici e dei servizi, in base a criteri di autonomia, funzionalità ed
economicità della gestione e secondo principi di professionalità e
responsabilità”. Anche in questo caso la legge 131/2003 ha posto in essere,
dunque, una norma dal contenuto innovativo inesistente.
L’identità
tra l’articolo 4, comma 3, della legge 131/2003 e l’articolo 89, comma 1, del
D.lgs 267/2000 appare assoluta. Quest’ultima norma si diffonde, poi (anche nei
successivi commi), nell’esplicitazione di una serie di principi regolatori
delle modalità di organizzazione.
I
regolamenti di organizzazione restano quelli che sono: regolamenti
indipendenti, ma pur sempre fonte secondaria, subordinata alla legge, che può
espandere i propri contenuti normativi, in conseguenza di una ritrazione da
tale compito da parte della legge.
Non si può
parlare di una riserva di competenza regolamentare sull’organizzazione, perché
l’articolo 117, comma 6, della Costituzione non pone affatto tale riserva in
modo espresso. Sicchè, tale operazione non potrebbe essere condotta dalla legge
ordinaria.
D’altra
parte, se, come correttamente affermato dalla Corte costituzionale, gli enti
locali non hanno potestà legislativa; se l’articolo 97 della Costituzione pone
la riserva di legge sulla materia dell’organizzazione; allora, i regolamenti
locali (così come gli statuti) non dispongono né di forza pari ordinata alla
legge, né sono con questa in relazione di competenza: la legge mantiene il
potere di disciplinare l’organizzazione.
Alcuni
interpreti, in base all’articolo 4, comma 6, della legge 131/2003, traggono la
conclusione che essa avrebbe attribuito ai regolamenti locali il potere di
caducare le norme di legge.
A mente
dell’articolo 4, comma 6, della legge 131/2003, infatti, “fino all’adozione
dei regolamenti degli enti locali, si applicano le vigenti norme statali e
regionali, fermo restando quanto previsto dal presente articolo”. Letta
così, isolata dal contesto, in effetti la norma in apparenza può sembrare
idonea a fondare nei regolamenti locali una generale forza disapplicativa delle
leggi.
Ma a ben
vedere, le cose non stanno e non potrebbero stare così. Perché se così fosse,
una legge ordinaria avrebbe posto in essere una fonte a sé sostanzialmente pari
ordinata. Esercitando così un potere che le è precluso, come sostiene la
pacifica ed unanime dottrina, la quale riconnette, in un sistema normativo
gerarchico e rigido quale quello italiano, solo alla Costituzione, quale fonte
di disciplina di tutte le altre fonti, il potere di stabilire quali fonti siano
collocate al livello primario, cioè quello legislativo.
Tuttavia,
come visto sopra, la Costituzione non ha fatto del regolamento locale una fonte
normativa equiordinata alla legge o, quanto meno, posta in relazione di
competenza.
Al contrario,
i commi 2, 3, 4 e 6 dell'articolo 117 della Costituzione costruiscono un
sistema delle fonti nel quale la preminenza normativa continua ad essere
attribuita alla legge, vista ancora come fonte primaria e privilegiata, in
quanto espressione della sovranità popolare al massimo livello territoriale,
quello statale.
La legge,
infatti, in primo luogo è la fonte dotata del potere di disciplinare tutte le
possibili materie e, dunque, a determinare l'ordinamento normativo. La
Costituzione non ha escluso nessuna materia dalla potestà legislativa
attribuita complessivamente a Stato e regioni, limitandosi solo a definire le
regole per ripartire la legislazione tra i vari enti in relazione a specifiche
materie. Non si riscontra, come già detto, nessuna assegnazione di una
particolare materia ad altre fonti.
La legge
dello Stato estende la sua disciplina nel rispetto dei limiti di competenza
fissati dai commi 2 e 3 dell’articolo 117; la legge regionale completa il
quadro, essendo competente in riferimento ad ogni altra materia non
espressamente riservata alla legislazione statale, senza eccezione alcuna.
Dunque, la legge, espressione della potestà normativa primaria statale e
regionale, disciplina in via prioritaria ogni materia.
L’articolo
4, comma 6, della legge 131/2003, allora, deve essere interpretato in altro
modo. I regolamenti, sia statali, sia regionali, sia locali, se la legge ha
un'estensione normativa infinita, non dispongono di alcuna area o sfera o
insieme di competenze proprie e riservate.
Per di più,
la lettura della Costituzione conferma che non solo i regolamenti locali non
sono posti in relazione di competenza con la legge, ma restano in posizione
sotto ordinata. Lo conferma la stessa formulazione del comma 6 dell'articolo
117 della carta costituzionale.
Appare
chiaro che il comma 6, citato, il quale disciplina i regolamenti dopo che i
precedenti commi hanno trattato della potestà legislativa, consideri i
regolamenti stessi come fonti che dipendono dalla legge, o che nella legge
trovano pur sempre la loro base e radice.
L'oggetto,
infatti, della fonte regolamentare è messo in stretta relazione con l'oggetto
della fonte legislativa. Il comma 6 dispone che la potestà regolamentare spetta
allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva. Spetta alle regioni, in
ogni altra materia.
Ma poiché
le materie sono disciplinate in via principale dalla legge, è evidente che i
regolamenti costituiscono ancora, anche vigente la novella costituzionale, il
completamento o il dettaglio della disciplina normativa primaria della legge.
La potestà
regolamentare è ancora connessa funzionalmente, come attività di completamento
o esecuzione, funzionale a quella legislativa, alla quale resta subordinata, in
quanto la Costituzione non ha eliminato il primato della legge come fonte
principale della disciplina dei rapporti sociali.
Se, allora,
la Costituzione non ha attribuito ai regolamenti locali né una posizione
equiordinata alla legge, né li ha posti con essa in relazione di competenza,
non è possibile concludere che tale funzione l’abbia svolta una legge
ordinaria, quale la 131/2003.
Occorre
necessariamente interpretare l’articolo 4, comma 6, di tale legge, allora,
sotto una luce del tutto diversa.
Una prima
chiave di lettura di questa norma è di considerarla come regola volta ad
assicurare la continuità del sistema normativo. L’articolo 4, comma 6, della
legge 131/2003 è, in sostanza, l’omologo dell’articolo 1, comma 2, della
medesima legge, il quale prevede il principio della continuità dell’efficacia
delle leggi statali nelle materie riservate dalla Costituzione alla legge
regionale e viceversa.
La regola
dettata con l’articolo 4, comma 6, non è diversa. Si stabilisce che nonostante
i regolamenti locali abbiano assunto una particolare preminenza per alcune
specifiche modalità di svolgimento delle funzioni degli enti locali, finchè
detti enti non abbiano adottato i regolamenti si applicano comunque le
disposizioni vigenti in materia di fonte legislativa, sia statale, sia
regionale.
In secondo
luogo, basta osservare che il comma 6 dell’articolo 4 della legge 131/2003 nel
disporre che "fino all'adozione dei regolamenti degli enti locali, si
applicano le norme statali e regionali, fermo restando quanto previsto dal
presente articolo" conferma espressamente che le leggi regionali hanno
competenza nella materia dell'ordinamento locale e dell'organizzazione degli
uffici degli enti locali. Pertanto, i regolamenti si inseriscono in un ambito
normativo pur sempre dominato dalla fonte legislativa, risultando privi di una
potestà esclusiva.
Ma,
soprattutto, il comma 6 non introduce alcun criterio di cedevolezza delle leggi
rispetto ai regolamenti. Infatti ribadisce che “rimane fermo quanto previsto
dal presente articolo”. Ma tale articolo prevede che gli enti locali
dispongono di una potestà normativa statutaria e regolamentare. La prima deve
essere esercitata in armonia con la Costituzione, con i principi generali in
materia di organizzazione pubblica e nel rispetto della legge statale di
attuazione dell’articolo 117, comma 2, lettera p).
La potestà
regolamentare, a mente del comma 3 dell’articolo 4, è prevalentemente volta
all’organizzazione degli enti locali ed è esercitata “nel rispetto delle
norme statutarie”.
I limiti
normativi, allora, incontrati dai regolamenti non possono essere diversi o meno
estesi rispetto a quelli previsti per gli statuti. La potestà normativa locale
è soggetta agli stessi limiti.
Anzi, i
regolamenti incontrano limiti maggiori, derivanti dalla necessità di rispettare
anche le disposizioni statutarie.
I limiti
degli Statuti, visti prima sono:
1)
dipendenza
dalla Costituzione;
2)
armonia
con la Costituzione;
3)
armonia
con i princìpi di organizzazione pubblica (anche di fonte non costituzionale);
4)
rispetto
della legge di cui all’art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione
I limiti
dei regolamenti sono i seguenti:
1)
dipendenza
dalla Costituzione;
2)
armonia
con la Costituzione;
3)
armonia
con i princìpi di organizzazione pubblica (anche di fonte non costituzionale);
4)
rispetto
della legge di cui all’art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione;
5)
rispetto
degli Statuti.
Vista la
loro subordinazione agli statuti, i regolamenti devono rispettare i limiti al
corretto esercizio della potestà statutaria, non essendo ammissibili deroghe
legislative in favore di fonti subordinate agli statuti, ai quali tali deroghe,
come visto sopra, risultano a loro volta precluse.
A ben
vedere, allora, il contenuto normativo dell’articolo 4, commi 1 e 6 della legge
131/2003 risulta nullo, perché l’autonomia regolamentare organizzativa era già
disciplinata con le medesime modalità dal testo unico sull’ordinamento delle
autonomie locali.
Poiché,
come visto prima, l’articolo 4, comma 6, della legge 131, comma 6, ammette una
possibilità di intervento della legge nella materia dell’organizzazione locale,
occorre concludere che leggi e regolamenti di organizzazione non sono posti in
rapporto di competenze e che, pertanto, non sussista una riserva in favore dei
regolamenti.
Non pare,
dunque, che vi siano eccessive modifiche rispetto al regime della potestà
regolamentare descritto dall’articolo 7 del d.lgs 267/2000. Questo vale anche
per lo statuto, dal momento che l’articolo 4, comma 2, della legge 131/2003,
assegna alla fonte statutaria solo una parte delle competenze già considerate e
previste dall’articolo 6 del d.lgs 267/2000.
Si può,
però, sostenere che l’ampliamento della potestà statutaria e regolamentare sia
rimesso alla capacità del legislatore di autolimitarsi, in adempimento alla
riforma della Costituzione che assegna alla legge il compito di definire gli ambiti,
i confini generali dell'organizzazione, dovrebbe astenersi dall’entrare
eccessivamente nel dettaglio definitorio delle modalità organizzative dell’ente
locale.
Occorre
considerare, ancora, che il testo dell'articolo 117, comma 6, della
Costituzione non è volto, a ben vedere, a determinare le “materie” assegnate
alla potestà regolamentare di comuni, province e città metropolitane. In altre
parole, l'organizzazione, citata da tale comma, non è la materia concernente la
definizione dei ruoli e dei compiti della struttura amministrativa.
L'articolo
117, comma 6, nel suo ultimo periodo, è da interpretare non isolatamente, ma
necessariamente in combinato disposto con l'articolo 118, del quale è
completamento e, nello stesso tempo, presupposto.
Infatti,
l'articolo 117, comma 6, lungi dall’assegnare ai regolamenti locali una
competenza esclusiva nella fissazione dell’organizzazione interna, rappresenta,
invece, la regola che detta le modalità con le quali sono esercitate le
funzioni amministrative degli enti locali.
Dunque,
l'articolo 118 stabilisce i criteri di attribuzione e conferimento delle
funzioni amministrative agli enti locali (costituzionalizzando i principi di
sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza come regole dinamiche di
assegnazione delle funzioni amministrative). Da parte sua, l'articolo 117,
comma 6, assegna agli enti locali, in quanto titolari delle funzioni
amministrative, la potestà di stabilire, mediante regolamenti, come organizzare
non tanto le proprie strutture, quanto, invece, le funzioni loro attribuite.
I
regolamenti locali di cui all'articolo 117, comma 6, dunque, hanno ad oggetto
non l'organizzazione degli enti, ma la definizione dei metodi di svolgimento
delle funzioni amministrative e, dunque, i procedimenti e l’assetto delle competenze
gestionali interne. Solo indirettamente, allora, la struttura dell’ente è
oggetto di detti regolamenti. Indirettamente perchè la conformazione delle
procedure da un lato è influenzata dall'organizzazione delle strutture;
dall'altro perchè una certa modalità di definizione di una procedura, può
portare alla modifica di una struttura organizzata (si pensi all'introduzione
degli sportelli unici).
D'altra
parte, poiché la legge dello Stato, a mente dell'articolo 117, comma 2, lettera
p), provvede in via esclusiva (ad esclusione, dunque, di qualsiasi altra fonte)
a disciplinare le funzioni fondamentali di comuni, province e città
metropolitane, è chiaro che in tali ambiti i regolamenti locali non possono che
essere fonti subordinate alla legge, poichè questa è l'unica fonte abilitata ad
intervenire. In questo senso, l'articolo 117, comma 2, lettera p), è una sorta
di riserva di legge. Dunque, i regolamenti locali rispetto alle funzioni
fondamentali possono intervenire con una propria disciplina solo nella misura
in cui il legislatore statale lo consenta. La portata dell'intervento
regolamentare sarà tanto più ampia, quanto più il legislatore legiferi per
ampli principi e consenta ai regolamenti di dare contenuto concreto e di
dettaglio alla norma.
Analoga
conclusione, tuttavia, può ricavarsi anche per i regolamenti attinenti alle
funzioni proprie e conferite. Infatti, tali funzioni sono attribuite o
conferite pur sempre con legge, in questo caso tanto statale quanto regionale.
Pertanto, la disciplina generale delle funzioni è, comunque, sempre basata
sulla legge. I regolamenti in ordine alla disciplina dell'organizzazione e
dello svolgimento delle funzioni, dunque, sono fonti comunque subordinate alla
legge.
Ma poiché
sono regolamenti esplicitamente assegnati alla potestà degli enti locali, Stato
e regioni non possono invadere la competenza regolamentare con altrettanti
regolamenti.
Se, allora,
la Costituzione non ha modificato la relazione gerarchica tra leggi e
regolamenti, ha certamente posto in relazione di competenza i regolamenti di
Stato, regioni ed enti locali. I primi due enti non possono, allora, con
regolamento incidere sull'organizzazione e lo svolgimento delle funzioni degli
enti locali.
Potrebbero
con legge. A patto, però, che si tratti di leggi brevi, di ampli principi, tali
da non comprimere un'autonomia regolamentare che, in quanto prevista dalla
Costituzione, non può non essere valorizzata.
Questa è la
corretta chiave di lettura per interpretare i commi 4 e 6 dell’articolo 4 della
legge 131/2003.
Il comma 4,
infatti, proprio in linea con quanto detto fin qui, stabilisce che "la
disciplina dell'organizzazione, dello svolgimento e della gestione delle
funzioni dei comuni, delle province e delle città metropolitane è riservata
alla potestà regolamentare dell'ente locale, nell'ambito della legislazione
dello Stato o della regione, che ne assicura i requisiti minimi di uniformità,
secondo le rispettive competenze, conformemente a quanto previsto dagli
articolo 114, 117 sesto comma e 118 della Costituzione". Si nota il
collegamento tra articolo 117, comma 6 ed articolo 118 della Costituzione
citato prima. Allora, la legge 131/2003 non ha previsto per i regolamenti
locali una vera riserva di competenza, ma si è occupata della definizione dei
rapporti tra legge e regolamenti nel senso di escludere che le leggi possano
entrare nella regolamentazione diretta della materia organizzativa, come per
esempio, indicando quali e quanti uffici debbano esistere, quali compiti
debbano svolgere, quali procedure debbano seguire. E, soprattutto, di escludere
che a questo scopo possano essere adottati regolamenti statali o regionali[9].
Le leggi
statali e regionali, semmai, possono solo limitarsi a dettare criteri minimi di
uniformità nella gestione delle funzioni, per evitare che da un ente all’altro
vi siano eccessive differenze, incidenti in maniera negativa sulla popolazione
amministrata.
Quindi, i
regolamenti cui si riferisce il comma 6 dell’articolo 4 della legge 131/2003
sono proprio quelli mediante i quali gli enti locali dettano la disciplina di
organizzazione e svolgimento delle loro funzioni, non i regolamenti “di
organizzazione” delle strutture amministrative.
Lo scopo
dell’articolo 4 della legge 131/2003 consiste, dunque, nel permettere agli enti
locali di emanare regolamenti dotati della forza normativa di stabilire le
regole procedimentali necessarie per il corretto espletamento delle funzioni di
propria competenza, sia quelle delle quali sono titolari originari, sia quelle
conferite dallo Stato o dalle regioni, in base al principio della
sussidiarietà.
Finchè non
siano emanati tali regolamenti, si applicano le leggi, anche per la parte in
cui dettino specifiche modalità procedurali.
I
regolamenti di cui all’articolo 4 della legge 131/2003, comunque, debbono rispettare
l’ambito definito dalla legislazione statale e regionale. Non sono idonei,
dunque, ad innovare l’ambito normativo, ma possono specificare modalità
operative all’interno di un disegno normativo previsto dalla legge.
[1]
A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, ed. Novene, Napoli 1989,
pag. 240.
[2]
V. Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo, cit., pag. 141.
[3]
F. G. Scoca, in Diritto amministrativo, pag. 609.
[4]
Secondo F. G. Scoca, in Diritto amministrativo, cit., pag. 610, il
coordinamento non è tanto una relazione organizzativa, quanto il risultato
dell’esercizio di poteri organizzativi, pertinente a diversi tipi di rapporti
organizzativi.
[5]
Secondo G. Corso, L’attività amministrativa, ed. Giappichelli, Torino, 1999,
pag. 200, la ripartizione del potere amministrativo tra una pluralità di
apparati, in modo che la competenza sia prefissata, corrisponde non alla sola,
ovvia, esigenza di dividere il lavoro, ma, soprattutto, di apprestare al cittadino
la garanzia di poter conoscere preventivamente i soggetti di diritto pubblico
ai quali rivolgersi, per il perseguimento dei propri interessi.
[6]
P. Sacco, Il profilo della delega cit., pag. 6; V. Cerulli Irelli, Corso di
diritto amministrativo, cit. pag. 144; V. Italia, G. Landi, G. Potenza, Manuale
cit., pag. 76.
[7]
In senso conforme, R. Nobile, L’accesso ai pubblici impieghi mediante pubblico
concorso e le sue deroghe nella giurisprudenza della Corte costituzionale, con
particolare riferimento agli enti locali territoriali, in
http://www.lexitalia.it/articoli/nobile_concorso.htm.
[8]
Allegato tecnico alla lettera di presentazione della legge 131/2003 ai sindaci,
in www.anci.it.
[9]
Si veda, in tal senso, O. Forlenza, G. Terracciano, Regioni ed enti locali dopo
la riforma costituzionale, ed. Il Sole 24Ore, Milano, 2002, pagg. 146-149.
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