Il principio di legalità come limite della
delegazione
Si è visto
in precedenza che dall’articolo 97 della Costituzione deriva il principio
dell’inderogabilità delle competenze fissate per legge, nonché della riserva
relativa di legge, per effetto della quale l’autonomia statutaria e
regolamentare non può innovare l’ordine delle competenze, laddove la legge
espressamente non lo consenta.
Il
principio dell’inderogabilità delle competenze può essere letto anche come
principio di legalità nella previsione delle competenze degli organi: l’assetto
delle competenze, in sostanza, deve rispettare l’ordine legale stabilito,
sicchè in caso contrario gli atti adottati in violazione di tale ordine sono
viziati per incompetenza dell’organo procedente.
Dall’analisi
combinata del principio di inderogabilità delle competenze e del principio di
legalità dell’ordine delle competenze deriva la fondamentale conseguenza:
l’assetto dell’esercizio dei poteri pubblici non può essere modificato dalle
autorità amministrative, se non lo consente la legge.
Ogni
modifica dalla quale derivi la traslazione di un complesso di attribuzioni e
competenze da una figura soggettiva ad un’altra, o da un organo ad un altro,
perché sia rispettoso del principio di legalità richiede necessariamente a
monte una disposizione di legge che la consenta espressamente.
Ora, la
delega amministrativa consiste proprio in quel fenomeno che consente di
modificare in via straordinaria l’ordine giuridico delle competenze, in modo
che il delegante dismetta alcuni dei suoi poteri, per attribuire al delegante
le potestà a provvedere in merito alle materie oggetto della delega.
Se, dunque,
è la legge che fissa l’ordine giuridico delle competenze, la modifica di tale
ordine è necessariamente vincolata alla previsione a monte di una legge. In altre
parole, la delega è legittima solo ed esclusivamente in quanto sia
espressamente prevista dalla legge, come atto organizzativo di secondo grado,
dal quale possa derivare la modifica dell’assetto dei poteri tra organi.
Tale
principio è pacifico per la giurisprudenza amministrativa. Si è ritenuto che a
delega tra organi amministrativi, poichè modifica l'ordine legislativo delle
competenze, necessita di un fondamento di legge[1].
Con specifico riferimento all’ordinamento locale, si è ritenuto che ai sensi dell'articolo
1 comma 1 della legge 142/1990, l'atto normativo direttamente attributivo della
competenza funzionaria ordinaria degli organi principali del comune è la legge
statale; pertanto, un'eventuale delega di funzioni interorganica deve avere un
espresso fondamento normativo nella stessa legge statale[2].
Ancora, sempre con riferimento all’ordinamento locale, si è ritenuto che sia
illegittima, in mancanza di una espressa norma di legge, la delega al sindaco
di poteri attribuiti al consiglio comunale, a meno che non abbia ad oggetto
atti meramente esecutivi[3].
Ancora, è da ritenere illegittima la disposizione con cui lo statuto di un
comune attribuisce alla giunta, seppure sotto il nomen di proposta al
consiglio, la potestà deliberativa di sottoporre a quest’ultimo il criterio del
riparto delle competenze degli organi monocratici, in quanto tale norma, ben
lungi dall’avere una modesta funzione autorganizzativa a rilevanza meramente
interna, attribuisce alla giunta stessa un ampio potere discrezionale teso a
definire anche i compiti propri ed esclusivi del sindaco e, pertanto, è idonea
ad alterare il quadro legislativo del riparto di dette competenze, invadendo il
potere di delega istituzionalmente spettante al sindaco[4].
Anche il funzionamento interno delle commissioni deve rispettare il principio
di legalità: si è deciso[5]
che illegittimamente un comune prevede con il regolamento delle commissioni
consiliari l’indiscriminata facoltà dei commissari di farsi sostituire da
altri, mediante una delega di attribuzioni, che finirebbe per vanificare la
competenza del consiglio comunale, dal quale la nomina promana.
Sono quasi
isolate le voci che hanno visto nello statuto fonte di una possibile disciplina
della delega, in mancanza di specifiche previsioni legislative[6].
Anche la
dottrina è unanime nel ritenere che la delega costituisca una modifica
nell’ordine legale delle competenze, da fondare necessariamente su disposizioni
di legge.
Simmetricamente,
allora, quando una misura organizzativa non incida nell'ordine legale delle
competenze, non si è in presenza di una delega bensì di una mera ripartizione
di compiti, all'interno dell'apparato burocratico che fa capo all'organo
titolare della funzione, come tale sottratta alla necessità di una espressa
autorizzazione normativa: ciò implica che se, nella delega in senso proprio,
l'atto emanato è imputabile al delegato - che ne assume la responsabilità -
nella "delega interna" l'atto rimane del delegante ed è soggetto al
regime giuridico di questi[7].
Nonostante
la delega sia un sistema tendenzialmente mirato ad aumentare l’efficienza
dell’azione amministrativa, in quanto permette una distribuzione dei poteri
all’interno dell’amministrazione più confacente a contingenti necessità
operative, dai principi costituzionali e dalla consolidata giurisprudenza
occorre trarre un’ulteriore conclusione: non esiste un principio di generale
delegabilità delle funzioni amministrative[8].
Sia gli
enti, sia gli organi, dunque, per procedere all’operazione di migliore
distribuzione delle competenze, insito nella delegazione amministrativa, non
possono farsi guidare esclusivamente da valutazioni di opportunità: la
necessità di un supporto normativo almeno di pari livello della fonte su cui si
basa l’esercizio del potere da delegare è imprescindibile, perché diversamente
opinando l’amministrazione diverrebbe arbitra di spostare caso per caso e senza
alcuna previsione di limiti oggettivi e soggettivi le competenze precostituite,
con l’effetto di privare i cittadini delle garanzie che sono insite nelle attribuzioni
di uno specifico organo[9].
Per altro
verso, se sussistesse un generale potere di delega, non si capirebbe perché la
Costituzione avrebbe assegnato al legislatore il compito di assegnare in via
preventiva a certe autorità e non altre determinati poteri, in quanto una
capacità illimitata di delega porrebbe sostanzialmente nel nulla l’attività del
legislatore.
Pertanto,
operativamente, quando un ente od un organo intenda avvalersi della delega ha
il compito non solo di valutare nel merito l’opportunità e l’utilità di
incidere sull’esercizio dei poteri loro assegnati, ma deve verificare se esista
la norma puntuale, che consenta di emanare l’atto di delega per l’esercizio di
quello specifico potere.
In mancanza
della norma autorizzativa, la sola delega di per sé è insufficiente. Infatti,
la delega consiste in un provvedimento amministrativo, che, come tale, deve
rispondere al principio di legalità. L’atto di delega, dunque, deve fondarsi su
una norma che lo preveda e lo consenta espressamente. Altrimenti, si darebbe
luogo ad una modifica dell’assetto ordinamentale dei poteri per via
esclusivamente amministrativa, il che pare oggettivamente inammissibile.
Il conferimento della delega come combinazione
di due atti
Si
comprende, allora, che il fenomeno della delega è di tipo complesso. Poiché la
delega mira a modificare gli assetti delle competenze fissate a titolo
originario dalla legge, occorre che essa sia basata sulla legge.
Dunque, la
traslazione del potere dal delegante al delegato ha come presupposto ineluttabile
la combinazione di due atti[10],
che si integrano tra di loro:
1)
la
legge, che attribuisce all’organo titolare originario del potere, la
possibilità di delegarlo ad altri;
2)
un
atto amministrativo, cioè la delega vera e propria, col quale il delegante esplica
il potere di delegare parte delle proprie competenze ad un terzo, conferitogli
dalla legge.
L’atto
amministrativo, dunque, si salda con la legge: la delegazione amministrativa si
perfeziona, dunque, con l’espressione di una duplice e coerente volontà. In
primo luogo, quella del legislatore, il quale prevedendo la possibilità che un
certo potere sia traslato mediante la delega, esprime una sua valutazione
generale ed astratta sulla potenziale capacità dell’organo titolare originario
del potere di avvalersi della delega. In secondo luogo, occorre la concordante
volontà dell’organo e del suo titolare, il quale rende concreta la valutazione
potenziale del legislatore, adottando il provvedimento amministrativo con cui
effettivamente delega alcuni suoi poteri ad altro organo. Da ciò deriva che
l’atto di delega è per sua natura discrezionale: l’autorità delegante, quindi,
è libera di apprezzare di volta in volta l’opportunità di delegare o meno i
propri poteri ad altra autorità. Se la delega fosse obbligatoriamente prevista
dalla legge, allora la legge creerebbe, nella sostanza, una titolarità
originaria, sicchè è un controsenso considerare il potere di delega come
obbligatorio, invece che discrezionale.
Ovviamente,
affinché sia possibile la verifica della concorrente volontà del legislatore e
dell’autorità amministrativa di dare luogo alla delega, è necessario che la
norma legislativa che consente all’autorità di avvalersi della delega, lo
preveda in via espressa. Solo in questo modo, infatti, è possibile un controllo
successivo, sia da parte del destinatario dell’azione amministrativa posta in
essere dal delegato, sia da parte del giudice, sulla legittimità della delega.
Il
corollario di questo assunto è che il provvedimento di delega, a sua volta,
deve essere adottato in modo espresso e deve richiamare esplicitamente la
disposizione normativa sulla quale esso poggia.
Come
ulteriore corollario, l’autorità amministrativa delegata quando adotta i
provvedimenti in virtù della delega ricevuta è tenuta a richiamare
esplicitamente il provvedimento di delega.
Gli effetti della delega: costituzione di veri e
propri uffici e non semplice trasferimento dell’esercizio di competenze
Si può,
dunque, provare a fornire una definizione della delegazione amministrativa.
Classicamente, la delega è considerata non come un’attribuzione di competenza,
ma esclusivamente come la legittimazione all’esercizio della stessa competenza
da parte di un soggetto diverso dal titolare originario[11].
Questa
definizione, tuttavia, pare cogliere solo una delle tante sfaccettature della
complessa fattispecie giuridica della delega, quella, ovvero, della possibilità
che una certa competenza sia svolta da un soggetto che non ne sia titolare a
titolo originario.
Ma, a ben
vedere, anche altre forme organizzative ammettono che una competenza possa
essere esercitata da più soggetti, senza che ciò dia luogo alla delega: ad
esempio, la sostituzione vicaria, oppure la delega di firma.
Bisogna,
allora, precisare che la definizione classica, quando ritiene che la delega non
comporta l’assegnazione di una competenza dal delegante al delegato, ma solo il
trasferimento dell’esercizio della stessa, appare preoccupata di sottolineare
che la delega non determina una definitiva modifica all’assetto ordinamentale
dei poteri e che, pertanto, l’organo delegante non si spoglia della competenza,
ma solo del suo esercizio. Dunque, il titolare originario, delegante,
rimarrebbe comunque pienamente titolare della competenza. Il delegato,
pertanto, riceverebbe solo la capacità di agire connessa alla competenza, ma
non la competenza stessa.
Tale
visione della delega è corretta quando intende sottolinearne la caducità, ma
appare eccessivamente limitativa, in quanto trascura un elemento essenziale:
sia la durata, sia l’ampiezza del potere esercitato dall’autorità delegata,
dipendono interamente dalla volontà dell’autorità delegante. Poiché è
quest’ultima che la legge individua come titolare originaria del potere
delegato, perché essa torni ad esercitarlo non deve far altro che consolidarlo
nella sua sfera giuridica, lasciando che decada il termine fissato con l’atto
di delega, oppure semplicemente revocandola.
In effetti,
contrariamente a quanto tende a far rilevare la definizione classica della
delega, essa comporta realmente una modifica dell’assetto delle competenze. Se
così non fosse, allora il fenomeno darebbe vita a strumenti finalizzati a
creare la con titolarità di due o più funzionari in capo ad un determinato
organo. Ma l’effetto specifico della delega, invece, mira a costituire un nuovo
e diverso organo, il delegato, quale risultato di una misura organizzativa di
secondo grado, esercitabile dal delegante in base ad una legge che
esplicitamente gli conferisca tale possibilità.
Più
corretta, allora, appare la definizione proposta dalla Cassazione[12],
secondo la quale la delega consiste in quel fenomeno per effetto del quale il
soggetto delegante, investito in via originaria della competenza a provvedere
in una determinata materia, conferisce ad altro organo o ad altro ente,
autoritativamente ed unilateralmente, una competenza di tipo derivativo nella
medesima materia; il delegato, pertanto, esercita il potere in nome proprio ed
è direttamente responsabile del suo esercizio.
Questa
concezione della delega mette in luce gli elementi propri del fenomeno:
1)
la
sussistenza di un organo titolare originario della competenza in una certa
materia;
2)
il
conferimento unilaterale ed autoritativo di parte della competenza del
titolare, nella medesima materia;
3)
la
costituzione, per effetto della delega, di una competenza di tipo derivativo o
di secondo grado in capo al delegato;
4)
la
capacità del delegato di esercitare i poteri connessi alla delega in nome
proprio, in quanto direttamente responsabile degli atti connessi alla
competenza delegata.
A completamento
della definizione, si possono enucleare altri elementi propri del fenomeno
della delega:
1)
l’atto
di delega consiste nell’estrinsecazione di un potere espressamente consentito
dalla legge;
2)
la
costituzione di una competenza nuova, di cui il delegato prima non disponeva,
implica una modificazione temporanea nell’ordinamento delle competenze;
3)
l’esercizio
dei poteri delegati è ammissibile, finchè la delega non venga revocata o non
perda la propria efficacia altrimenti.
Se, dunque,
la legge istituisce un potere ed un connesso soggetto di diritto che lo
esercita; se, ancora, in funzione di tale legge il soggetto di diritto è
organizzato in organi, i quali svolgono le competenze connesse, a titolo
originario, all’ufficio del quale sono titolari; con la delega, sempre che la
legge la consenta espressamente, si modifica l’ordine delle competenze, in
quanto una porzione di queste viene assegnata dal delegante al delegato. Si
tratta, dunque, di un vero e proprio trasferimento di poteri, non del semplice
esercizio di un potere.
A sostegno
di questa conclusione concorrono ulteriori considerazioni, relativamente alla
definizione del concetto di “potere”.
Preliminarmente,
pare necessario definire con precisione il tema. Il “potere” viene attribuito
dalla legge ad una soggettività giuridica nel suo complesso. In sostanza, il
potere è connesso al soggetto di diritto, ente locale, regione, ministero,
azienda, che secondo la legge ha il compito di perseguire, mediante l’esercizio
di tale potere, i fini che la legge gli assegna.
In questo
senso, allora, la titolarità del potere può essere affiancata alla capacità
giuridica del soggetto di diritto[13]:
questo, infatti, è l’unico che dispone della possibilità di perseguire i fini
connessi al potere. Ora, la configurazione della titolarità del potere come
espressione della capacità giuridica, consente di concludere che il concetto di
potere come complessiva attribuzione dell’ente che per legge, mediante tale
potere persegue determinati fini, può essere considerato autonomo dall’esercizio
del potere, inteso come svolgimento concreto delle azioni nelle quali il potere
si manifesta.
Il potere,
infatti, rimane sempre ascritto ad un’entità giuridica che è immanente e
permane; le azioni nelle quali il potere si concretizza, al contrario, sono
poste in essere da soggetti agenti, i quali null’altro sono se non persone
fisiche, legittimate dalla legge a ricoprire alcuni particolari ruoli interni
all’ente, sì da esplicare parte delle attività che concretizzano i poteri
dell’ente.
Questa
ricostruzione consente di affermare che il potere di un soggetto di diritto
pubblico trascende la capacità di agire delle singole persone fisiche che lo
concretizza: il potere, in sostanza, rimane sempre in capo al soggetto di
diritto, anche se cambia la persona fisica che agisce ed a prescindere dalla
capacità giuridica di tale persona fisica. La quale non agisce come
rappresentante dell’ente, ma come semplice articolazione dell’ente: l’agente,
dunque, altro non è che un organo dell’ente e la sua attività viene imputata
direttamente all’ente al quale l’organo appartiene. Sicchè, la soggettività
giuridica della persona fisica titolare dell’organo, ma anche quella
dell’organo stesso si annullano, in quanto l’attività da loro prodotta è
attività, comunque, dell’ente del quale fanno parte, non specifica attività
dell’organo, né tanto meno della persona fisica. Questi sono gli effetti
dell’immedesimazione organica, che fa sì che i titolari degli organi, così,
come gli organi stessi, non siano autonomi soggetti di diritto, ma solo
strumenti mediante i quali l’ente esercita i propri poteri. In questo senso,
allora, in termini generali è possibile parlare di scissione tra potere
pubblico, che la legge assegna come complesso inscindibile di attribuzioni ad
un ente pubblico, e suo esercizio: questo, infatti, viene svolto non dall’ente
considerato nel suo complesso, ma dalle sue articolazioni interne. Al variare
delle persone fisiche titolari degli organi, così come al variare degli organi
stessi, il potere rimane pur sempre in capo all’ente (in questo senso il potere
trascende gli agenti). Ed il potere può essere esercitato anche qualora il
soggetto agente non sia quello previsto dalla norma generale: in questo caso,
infatti, si incorre nel vizio dell’incompetenza relativa, che è, sì, causa di
annullabilità dell’atto conseguente, ma a condizione che il terzo interessato
proponga ricorso nei termini al giudice amministrativo, perché in caso
contrario gli effetti dell’azione si consolidano e risultano inattaccabili, in
quanto riferibili sempre alla soggettività dell’ente.
Detto
questo, però, l’articolazione interna degli enti è, a sua volta, predeterminata
dalla legge o, in base a questa, dai regolamenti di organizzazione. Ciò
significa che gli enti dispongono di uno o più organi, ai quali è demandato
l’esercizio concreto del potere complessivamente spettante all’ente.
Ai sensi
dell’articolo 97 della Costituzione, al fine di garantire al cittadino la piena
conoscenza sulle modalità dell’azione amministrativa e proprio per contrastarla
qualora sia male esercitata, occorre definire non solo l’ente che detiene il
potere e la misura di tale potere (la competenza dell’ente), ma anche i limiti
dell’azione propri degli organi nei quali l’ente si articola. Infatti, se
l’organizzazione dell’ente risulta complessa, allora alcuni organi potranno
esercitare solo una specifica porzione del potere dell’ente, mentre altri
organi svolgeranno diverse ulteriori porzioni.
Dunque,
anche gli organi, nonostante non siano soggetti di diritto autonomi, dispongono
di una propria specifica competenza, tendenzialmente più dinamica di quella
generale dell’ente, che tende ad essere durevole nel tempo. Le competenze degli
organi, invece, sono più mutevoli, in quanto la legge interviene con maggiore
facilità a modificare l’assetto interno degli enti, più che a ridefinirne i
poteri generali. In ogni caso, poiché parte degli assetti interni degli enti è
fissato per via regolamentare, si assiste ad una maggiore mutevolezza del
quadro delle competenze interne.
Ora,
occorre esaminare il problema se anche al livello delle articolazioni interne
degli enti, cioè degli organi, possa esservi una scissione tra titolarità della
porzione di potere connesso alla competenza dell’organo, ed esercizio di tale
potere.
A questo
punto, occorre anche provare a definire in cosa consista il potere
amministrativo. Esso altro non è che l’espressione tangibile dell’ordinamento
giuridico. Questo è formato da un insieme di regole, miranti a regolare la vita
della comunità amministrata: ciò comporta che le persone fisiche e giuridiche,
nonché gli stessi enti pubblici sono tenuti ad osservare le norme imposte
dall’ordinamento giuridico. Poiché la vita sociale è, soprattutto, una vita di
relazione, nell’ambito della quale la libertà dell’agire di ciascuno incontra
un limite nella libertà ed autonomia degli altri componenti la società,
l’ordinamento giuridico fissa una serie di regole e precetti, considerati
necessari a garantire le libertà di ognuno, nel rispetto dell’interesse
collettivo di tutti.
Le autorità
pubbliche sono chiamate all’importante compito di rendere concreti molti dei
precetti generali fissati dalle norme: così agendo, esse esercitano, appunto,
il potere, il quale, dunque, in prima approssimazione consiste in un’autorità
pubblica, in grado di fissare nel caso concreto gli obblighi ed i doveri che i
singoli soggetti di diritto debbono osservare nel loro concreto agire.
Il potere,
pertanto, consiste in una forza attiva, propria di determinati soggetti
giuridici pubblici, che lo esercitano avvalendosi di propri organi, titolari di
una porzione di tale potere.
Gli organi
hanno il compito di conoscere di alcune (e non altre) situazioni concrete
regolate dalle norme, per verificare i presupposti in base ai quali i
destinatari dei precetti possano svolgere la propria azione.
L’esercizio
del potere dell’organo, allora, consiste nello svolgimento della tipica
funzione propria dell’amministrazione pubblica, volta a costituire, modificare
o estinguere situazioni giuridiche soggettive concrete.
Proprio per
questa ragione l’articolo 97 della Costituzione impone la predeterminazione
delle sfere di competenza degli organi: i destinatari dei precetti normativi
debbono conoscere in via anticipata quali organi potranno incidere sulle
proprie posizioni e con quali modalità, in modo da apprestare sia le opportune
modalità di relazione, sia eventuali strumenti di tutela.
Il potere
amministrativo, tipicamente, allora consiste nel potere di emanare i
provvedimenti amministrativi, quegli atti dai quali consegue la costituzione,
modificazione od estinzione di una situazione giuridica soggettiva. Per effetto
del citato articolo 97 della Costituzione, il potere è attribuito al soggetto
di diritto ed all’organo che ne diviene titolare. Tale attribuzione è disposta
dall’ordinamento giuridico, che fissa le titolarità originarie dei poteri degli
organi. L’esercizio del potere da parte di un organo, allora, è strettamente e
necessariamente connesso alla titolarità del potere stesso.
Pertanto,
qualora la legge, in via eccezionale, permetta che la titolarità possa essere
ridefinita in via amministrativa, ammettendo la delega della competenza
connessa al potere, ciò significa che il soggetto delegato esercita, per via di
attribuzione in via derivata, poteri qualitativamente identici a quelli del
delegante.
Di
conseguenza il delegante, quando attribuisce la delega, compie un’operazione
analoga a quella della legge: “attribuisce” parte della propria competenza e
dei propri poteri al delegato, che ne diviene titolare a titolo derivativo.
Allora, il
potere viene assegnato, in base ad una legittimazione attiva indiretta[14],
dal delegante al delegato, il quale ne diviene titolare vero e proprio.
Non si ha,
quindi, scissione tra potere e titolarità, nel caso di delega. Si ha un
fenomeno diverso e più complesso:
a)
l’organo
titolare a titolo originario del potere, abilitato dalla legge a delegarlo, non
perde la titolarità originaria del potere, ma decide di non esercitare i
relativi poteri ed in tal modo, conferisce la delega;
b) per effetto della delega, il potere
di costituire, modificare o estinguere situazioni giuridiche soggettive rimane
in capo all’organo delegante, ma in stato di “quiescenza”, in quanto con la
delega il delegante ha stabilito di non esercitare i poteri;
c)
il
delegato, sempre per effetto della delega, viene costituito come titolare a
titolo derivativo del potere e, quindi, è legittimato ad esercitarlo: il
delegato, dunque, non è solo titolare dell’esercizio del potere, ma del potere
stesso, di un potere “attivo” e non quiescente.
Se così non
fosse, se il delegato fosse titolare solo dell’esercizio del potere, allora non
sarebbe dotato della forza attiva che gli consente di costituire, modificare od
estinguere una situazione giuridica soggettiva: si tratterebbe, in sostanza, di
un mero nuncius, che formalizza l’agire di un diverso soggetto. Ma
questo non è possibile: la rappresentanza, il rapporto organico, la delega sono
figure giuridiche diverse, tutte quante, però, tendenti ad attribuire, con
diverse modalità, la titolarità di un potere, di una correlata competenza e di
una o più funzioni. In particolare, per il principio della legalità dell’azione
amministrativa, l’agente che esercita il potere o ne è titolare, oppure vuol
dire che è privo del potere e, dunque, agisce illegittimamente. Pertanto,
poiché effetto della delega consiste nell’individuare un titolare derivativo
diverso dal titolare originario in grado di costituire, modificare o estinguere
situazioni giuridiche soggettive, la delega non può non comportare l’attribuzione
in capo al delegato del potere attivo, con contestuale annullamento del potere
del titolare originario.
La delega,
è bene precisare, non determina una rinuncia alla titolarità del potere da
parte del titolare, se per rinuncia si intenda un trasferimento di competenza
permanente in capo al delegato. La delega, invece, determina solo
un’assegnazione temporanea al delegato della competenza, il quale ne diviene
titolare e, perciò, la titolarità originaria diviene “dormiente”: ma può
riprendere piena forza per effetto della revoca della competenza o qualora
l’atto di delega perda i propri effetti.
Le delega,
dunque, consiste in una dismissione temporanea delle competenze e dei poteri
del delegante, cui consegue la temporanea attribuzione di tali poteri e competenze
in capo al delegato.
Da quanto
visto sin qui, risulta chiaro che il delegato esercita poteri, s’è detto prima,
qualitativamente uguali a quelli di cui il delegante è titolare a titolo
originario.
Pertanto,
occorre necessariamente concludere che il vero e proprio effetto della delega è
la costituzione di un vero e proprio “organo di secondo grado”.
Per questo
la delega è atto organizzativo: perché incide sull’organizzazione dell’ente e
lo arricchisce di un nuovo soggetto agente, non previsto dall’ordinamento
generale “statico”, ma sorto a seguito della volontà del delegante di
esercitare il potere straordinario concesso dalla legge di traslare parte delle
proprie competenze ad altro soggetto.
Il
delegato, si è visto prima, esercita un potere, costituisce, modifica ed
estingue situazioni giuridiche soggettive. Dunque, è un organo vero e proprio.
Non è un mero ufficio, un’articolazione dell’ente esclusivamente interna, che
svolge, sì, funzioni amministrative, ma non finalizzate al diretto esercizio
del potere, ma di supporto a tale esercizio e, come tali, destinate a
dispiegare i propri effetti esclusivamente all’interno dell’ente o, talvolta,
anche all’esterno, ma non con la capacità di incidere sulle posizioni
giuridiche dei terzi, bensì di assicurare loro l’alimentazione del procedimento
amministrativo, attraverso funzioni istruttorie, di ispezione, di controllo, di
relazione, di comunicazione, rilevanti, poi, anche per la decisione finale.
La
configurazione del delegato come vero e proprio organo ha rilevantissimi
effetti in merito alle relazioni intercorrenti col delegante e con l’ente,
oltre che con i terzi, nei confronti dei quali esso è certamente considerabile
come soggetto agente dell’amministrazione alla quale appartiene. Inoltre, la
considerazione del delegato come vero e proprio organo comporta conseguenze
precise nella determinazione delle sue responsabilità interne ed esterne.
La relazione funzionale tra delegante e
delegato: revoca della delega, possibilità di annullamento e riforma degli atti
del delegato
La
ricostruzione delle relazioni funzionali tra autorità delegante e delegato è
uno degli elementi fondanti del rapporto di delegazione, perché da ciò dipende
sia il regime della legittimità degli atti adottati dal delegato, sia il regime
della sua responsabilità.
Consistente
e radicata sia in dottrina, sia in giurisprudenza, è la tesi secondo la quale
il delegante, dal momento che con la delega non perde la titolarità originaria
del potere, conservi anche la legittimazione ad agire, la quale, pertanto,
contrariamente a quanto visto prima, non andrebbe in stato di quiescenza. Il
mancato esercizio del potere, da parte dell’autorità delegante, insomma, in
costanza di delega sarebbe semplicemente effetto della propria volontaria
inerzia. Sicchè, il delegante potrebbe sempre “riappropriarsi” della
legittimazione ad agire, al posto del delegante. Non solo, secondo altra
consistente tesi, il delegante risulterebbe un superiore gerarchico del
delegato, rispetto al quale deterrebbe non solo poteri di indirizzo, ma anche
di revisione e di annullamento dei provvedimenti adottati. Questa visione è
influenzata dalla circostanza che il potere esercitato dal delegato è della
medesima qualità di quello del delegante, sicchè il secondo, quale titolare
originario, potrebbe sempre determinare le modalità del suo esercizio, tanto da
riformare gli atti che non si rivelino conformi ad un indirizzo operativo
generale fissato dal delegante stesso.
Queste
tesi, tuttavia, per quanto trovino sostegno anche in buona parte della
giurisprudenza[15],
non possono essere condivise, perché portano ad un travisamento delle relazioni
funzionali delegante-delegato ed a conseguenze inaccettabile sul regime di
responsabilità del delegato.
Si
potrebbe, invero, affermare che nell’ordinamento esistono specifiche
disposizioni normative che attribuiscono espressamente al delegante il potere
di ingerenza diretta nell’attività delegata, con la conservazione della
legittimazione ad agire.
Ad esempio,
a mente del primo comma dell'articolo 2 del Dpr 396/2000, il conferimento della
delega non priva il sindaco della titolarità delle funzioni di ufficiale dello
stato civile. Il sindaco, dunque, pur avendo delegato altri soggetti può
espletare in ogni momento le funzioni connesse alla competenza delegata[16]. In altre parole, il sindaco può
in ogni momento celebrare i matrimoni o adempiere alle funzioni di
certificazione e registrazione previste dall'articolo 5 del Dpr 396/2000, senza
che allo scopo sia necessario neanche un contrarius actus: non occorre,
in altre parole, che il sindaco, per svolgere attività connesse al ruolo di
ufficiale dello stato civile, revochi la delega al soggetto destinatario.
Pare, però,
evidente che il riferimento al Dpr 396/2000 piuttosto che configurare un
principio generale valevole come modello astratto delle relazioni tra delegante
e delegato, sia, al contrario, una norma speciale, che rappresenta l’eccezione
al tipico modello relazionale, secondo il quale, invece, l’attribuzione della
delega crea un nuovo organo, dotato di competenze “proprie”, che il delegato
non più esercitare, perché ha dismesso la legittimazione ad agire, delegando la
competenza.
Se il
delegante, per principio generale, conservasse la possibilità di agire
nell’ambito della materia oggetto della delega, allora la specificazione
contenuta nell’articolo 2, comma 1, del Dpr 396/2000 sarebbe risultata inutile:
non vi sarebbe stata alcuna ragione per spingere il legislatore a specificare i
poteri dell’autorità delegante[17].
In realtà,
la previsione normativa assume senso, non è inutilmente tautologica,
esclusivamente se la si interpreta come norma “speciale”, che in via
straordinaria conserva in capo al delegante la legittimazione ad agire. Ciò per
una ragione evidente: la delega, nel Dpr 396/2000 ha il fondamentale scopo di
estendere il novero dei soggetti competenti a svolgere le funzioni di stato
civile, non di traslare le competenze da un soggetto all’altro. Funzione
peculiare dell’ufficio di stato civile consiste nel ricevere per tempo gli atti
di morte o di nascita. Il servizio, dunque, per funzionare in modo fluido e
continuativo non può essere configurato in modo tale che l’autorità delegante,
per riappropriarsi della legittimazione ad agire, debba, come ordinariamente
sarebbe necessario, revocare la delega: il delegante può agire direttamente,
nonostante la delega, allo scopo di assicurare il risultato della funzione.
Dunque,
appare chiaro che il particolare regime della delega di cui al Dpr 396/2000 è
del tutto peculiare, connesso strettamente alla necessità di non pregiudicare
la funzionalità del servizio e, dunque, costituisce tutt’altro che un principio
di carattere generale.
La
configurazione tipica della delegazione amministrativa, infatti, implica da
parte del delegato la dismissione della legittimazione ad agire correlata alla
competenza delegata, con la conseguente istituzione, mediante provvedimento di
secondo grado, di un nuovo organo, l’organo delegato.
Il
delegato, in quanto organo, è un ufficio, una struttura organizzativa diversa
da quella del delegante, dotata di proprie risorse, proprie responsabilità, di
un proprio regime operativo. Solo il titolare dell’organo delegato, dunque, è
legittimato ad esplicare le funzioni connesse, legittimato dal provvedimento di
delega previsto dalla legge. Se così non fosse, la delega non sarebbe tale, ma
un mero provvedimento di ripartizione di compiti tra soggetti appartenenti ad
un medesimo ufficio.
Non
mancano, in effetti, visioni riduttive della portata della delega
amministrativa. Si è, per esempio, stabilito[18]
che il provvedimento di delega di funzioni, pur se si configuri come
accrescitivo della potestà del delegato, non priva il delegante della sfera di
attribuzioni ad esso devolute dalla legge e del potere di autotutela che può
esercitarsi, ove ne ricorrano i presupposti, nei riguardi degli atti adottati
in virtù della delega. E’, questa, una sorta di interpretazione “di
compromesso”, secondo la quale in effetti la delega crea in capo al delegato
una potestà nuova e diversa, ma lascia al delegante il potere di incidere tale
potestà, mediante anche provvedimenti di secondo grado.
In tal
modo, allora, si finisce indirettamente per considerare effetto proprio della
delega la costruzione di una relazione di gerarchia tra delegante e delegato,
il quale ultimo, dunque, sarebbe un subordinato del primo.
Altre
pronunce giurisprudenziali considerano la delega, invece, come l’assegnazione
di attribuzioni piene ed esclusive in capo al delegato. Secondo il Consiglio di
Stato, Sezione V, 26 gennaio 1999, n. 56, l'attribuzione dei poteri attraverso
lo strumento della delega (nel caso, dal Consiglio comunale alla Giunta
municipale) investe l'organo delegato di tutte le potestà attribuite dal
delegante, estendendosi anche alla facoltà di sanare i vizi di precedenti
provvedimenti, compreso il potere di convalida. Il delegato, dunque, assume le
funzioni proprie di organo autonomo, tanto da poter convalidare eventuali atti
viziati, originariamente prodotti dal delegante. Ancora il Consiglio di Stato,
Sezione V, 29 luglio 19997, n. 841, ha sottolineato che poichè la delega
determina, sia pure in modo non permanente, lo spostamento "pleno iure"
della competenza per quanto attiene all'attività amministrativa rientrante
nella materia delegata, il delegato del sindaco ex art. 38, l. 8 giugno 1990 n.
142 nelle sue funzioni di ufficiale del governo è investito, in mancanza di
prescrizioni limitative da parte dell'organo delegante, pure della
rappresentanza processuale dell'ente nelle controversie inerenti alle predette
attività, previa l'autorizzazione della giunta municipale. Ciò a conferma che
il delegato è un organo con attribuzioni del tutto piene, non scalfibili
dall’azione del delegante, il quale, pertanto, è privo di ogni potere di
ingerenza sugli atti del delegato.
Giurisprudenza
risalente[19]
ha ritenuto che la delega opera nel campo organizzatorio, incidendo nell'ordine
delle attribuzioni e delle competenze cosicchè l'attività delegata rimane
propria del soggetto delegato ed i relativi atti non vengono imputati al
delegante, bensì al delegato, che ne assume la responsabilità.
Si è anche
stabilito[20]
che a differenza della delega di funzioni, la delega di firma, senza alterare
l'ordine delle competenze, attribuisce al soggetto titolare dell'ufficio
delegato (e non all'ufficio oggettivamente considerato) il potere di
sottoscrivere atti, i quali continuano ad essere sostanzialmente atti
dell'autorità delegante e non di quella delegata. Alla luce di questa
osservazione, a contrario si ricava che la delega vera e propria costituisce
nel delegato un vero e proprio organo, dotato di competenze sue specifiche,
necessariamente diverse da quelle dismesse dall’organo delegante. Tanto è vero
che si può ritenere che nell'ambito della delegazione amministrativa
intersoggettiva, l'unità dell'azione amministrativa si realizza "ex
cohaerentibus", nel senso che più soggetti coordinati cooperano per
conseguire il fine individuato, assumendo, il delegato, non una posizione
strumentale, ma istituzionale e realizzandosi, quindi, una contitolarità
ripartita della funzione tra delegante e delegato con esclusione di qualsiasi
potere sostitutivo o repressivo del primo nei confronti del secondo[21].
Qualsiasi
ingerenza diretta del delegante nei confronti dell’azione del delegato
causerebbe inaccetabili conseguenze nei riguardi dei cittadini, i quali non
potrebbero mai determinare, a priori, la titolarità (originaria o derivata)
della competenza e la legittimazione ad agire, che risulterebbe
continuativamente modificata, secondo meccanismi non oggettivi. E’ da
escludere, allora, che una volta conferita la delega il delegante possa ancora
esercitare il potere che ne è oggetto: ciò determinerebbe un’ulteriore
inaccettabile rottura del principio dell’inderogabilità dell’ordine legale
delle competenze, principio che può essere derogato solo dalla legge che
ammetta la delega di funzioni, ma che verrebbe violato, una volta conferita la
delega, se il delegante ne esercitasse le funzioni. Infatti, l’ordine legale
delle competenze, in merito, diviene quello “fissato” con l’atto di delega,
finchè questo rimanga efficace[22].
Si deve,
dunque, concludere che il delegante, poiché con la delega assegna ad altro
organo diverso da sé, per via indiretta la competenza e la legittimazione ad
agire, non è legittimato in alcun modo a provvedere sulla materia delegata in
costanza dell’efficacia della delega.
La
discrezionalità del delegato nell'attuazione della delega medesima, allora, può
essere limitata o indirizzata dalle istruzioni e dalle direttive eventualmente
impartite dal delegante nell'atto stesso di delega o in atti successivi. Alle
citate direttive ed istruzioni deve essere riconosciuto carattere vincolante,
per cui gli atti compiuti dal delegato in difformità da esse devono essere
considerati illegittimi, perchè emanati in violazione dei limiti prefissi
all'esercizio delle funzioni delegate, sia nell'ipotesi in cui l'atto di delega
che contiene le direttive rivesta la forma della legge, sia nell'ipotesi in cui
le direttive siano impartite con atto amministrativo, tanto che questo sia lo
stesso atto di delega quanto che si tratti di un atto successivo alla delega
medesima[23].
D’altra parte, è solo per mezzo degli atti direttivi che il delegante può
esercitare un incontestabile potere di indirizzo.
Così come
il delegante non dispone di alcuna legittimazione a provvedere sulla materia
delegata (con l’eccezione di disposizioni speciali, come l’articolo 2 del Dpr
396/2000), allo stesso modo occorre concludere che il delegante non possa
esercitare alcun potere di revoca, annullamento o avocazione in merito al
provvedimento espressione del potere delegato.
Anche in
questo caso, non mancano posizioni di segno opposto. Secondo alcuni con
l'attribuzione di una delega, l'autorità delegante non si priva dei propri
poteri, in ordine all'attività delegata, ma demanda al delegato solamente
l'esercizio dei poteri stessi e conserva l'ingerenza (potere di direttiva e di
sorveglianza, nonchè di avocazione) in detta attività[24].
Si tratta
di posizioni, tuttavia, non accoglibili. Con specifico riferimento alla revoca
del provvedimento amministrativo adottato dal delegante, occorre porre
attenzione allo specifico fenomeno revocatorio.
La dottrina
e le giurisprudenza hanno da tempo individuato le caratteristiche peculiari
della revoca, pur con alcuni distinguo rispetto alla sua configurazione[25].
Vi è
sostanziale concordia nel ritenere che la revoca:
1)
possa
essere emanata attraverso un provvedimento che segua il medesimo procedimento
prescritto per il provvedimento di primo grado da revocare, in modo da
ripercorrere con le stesse modalità il percorso logico e, in base a questo,
evidenziare i motivi di opportunità che portano all’estinzione dei suoi
effetti;
2)
sia
necessariamente di competenza del medesimo organo che ha emanato il
provvedimento di primo grado, a meno che il potere di revoca non sia assegnato
all’organo gerarchicamente superiore (ed a condizione che non si verta in
materia di competenza riservata).
Entrambi
gli aspetti sono rilevatori di una specifica esigenza posta dall’ordinamento,
che è sempre quella della garanzia della legalità nell’esercizio delle
competenze proprie degli enti e degli organi. La certezza dell’agire è data, ai
cittadini, dalla circostanza che l’esercizio di un potere, così come del potere
contrario, spetti esclusivamente ad una sola autorità. In tal modo, il
destinatario di un provvedimento ritenuto inopportuno può sapere
preventivamente a chi rivolgersi per chiederne la revisione e la revoca. Se non
vi fosse una regola a monte sulla revisione dei provvedimenti, vi sarebbe una
situazione di potenziale anarchia, dalla quale deriverebbero privilegi per gli
uni, effetti negativi degli altri, a seconda che questa o quella autorità
amministrativa si arroghi il diritto di rivedere gli effetti di un
provvedimento adottato da altra diversa autorità.
Solo il
rapporto di gerarchia, in quanto pre-determinato dalla legge, costituisce
eccezione alla regola indicata sopra. Ma ciò in quanto il superiore gerarchico
esplica il medesimo potere dell’organo subordinato, ma con una forza maggiore,
sicchè la revoca adottata dall’organo sovraordinato consiste pur sempre in atto
di secondo grado adottato dalla medesima autorità emanante, per il tramite di
un organo dotato di una forza superiore a quella dell’organo che ha disposto in
primo grado.
Allora,
così stando le cose, il delegante deve essere considerato assolutamente privo
del potere di revocare il provvedimento adottato dal delegato, in quanto
quest’ultimo è un organo autonomo, dotato di una competenza non più
esercitabile dal primo. Se, allora, il delegante è privo della capacità di
agire nella materia delegata, tanto da non poter adottare i relativi poteri in
costanza di delega al posto del delegato, a maggior ragione il medesimo
delegante non potrà revocare gli atti del delegato, in quanto si violerebbe il
già visto principio della competenza alla revoca in capo alla medesima autorità
che adotta il provvedimento di primo grado.
Lo stesso,
allora, vale per l’annullamento, fattispecie per certi versi analoga alla
revoca, con la differenza che essa ha lo scopo non di rimuovere gli effetti
dell’atto, ma di rimuovere direttamente l’atto stesso, con efficacia
retroattiva, per vizi genetici di legittimità. Anche l’annullamento, infatti,
come la revoca, è di competenza della medesima autorità che adotta l’atto di
primo grado, a meno che non vi sia una relazione di gerarchia tra l’organo
annullante e l’organo che ha deciso in primo grado.
Ancora, le
stesse conclusioni debbono essere tratte per l’avocazione: può avocare a sé
l’esercizio di una competenza solo l’organo sovraordinato ad un altro col quale
sia posto in relazione di gerarchia, sempre per la già vista ragione che gli
organi posti in relazione di gerarchia pura esplicano, con diversa forza, uno
stesso potere e non sono, dunque, titolari di competenze distinte ed autonome.
Ciò non avviene nell’ambito delega, per effetto della quale il delegato è
accresciuto di poteri dismessi dal delegante, che non può più esercitarli, né
per ingerenza diretta, né, a maggior ragione, per avocazione.
Sicchè,
l’unico sistema a disposizione del delegante di riappropriarsi della
legittimazione ad agire non è né avocare, né revocare, né annullare il
provvedimento adottato dal delegato, ma, invece, revocare l’atto di delega. In
tal modo la competenza si riconsolida in capo al delegante, che così può
legittimamente esercitarla, in quanto riottene la capacità di agire nella
specifica materia.
Quanto
detto fin qui potrebbe essere oggetto di critica, se si dimostrasse che tra
delegante e delegato intercorra una relazione di gerarchia[26].
In questo
caso, il delegante potrebbe essere configurato come superiore gerarchico del
delegato. Così, potrebbe essere considerato dotati dei tipici poteri che, oltre
all’indirizzo, prevederebbero l’avocazione, la revoca e l’annullamento.
Ma, le cose
non stanno così. Si deve, infatti, ritenere che il rapporto tra delegante e
delegato non crea una gerarchia tra il primo ed il secondo, così come qualora
tra delegante e delegato un rapporto di gerarchia sia preesistente, il rapporto
di delega non si fonde con esso[27].
Come riconosce
unanimemente la dottrina, componente, anzi, presupposto fondamentale del
rapporto di gerarchia è l’esistenza di un concorso di competenza tra due
organi, nell’ambito della stessa materia e l’assegnazione, da parte della
legge, di una posizione di preminenza al superiore gerarchico, cui corrisponde
una posizione di soggezione da parte del subordinato. La ripartizione delle
funzioni tra i due organi ha valore solo organizzativo ed interno, perché
all’esterno entrambi possono indifferentemente gestire le competenze proprie
dell’unità organizzativa alla quale appartengono, in modo equivalente.
Ma, si è
visto prima, che mediante la delega il delegante dismette parte della propria
competenza, demandando il potere relativo al delegato e perdendo, fino a che il
provvedimento di delega mantenga la propria efficacia, la capacità di agire in
merito.
Dunque, la
delega non è un semplice atto interno di mera ripartizione di compiti, proprio
del rapporto gerarchico. E’ un atto organizzativo a rilevanza esterna, che
istituisce un organo di secondo grado, capace di esercitare verso l’esterno le
tipiche funzioni di costituzione, modificazione ed estinzione di situazioni
giuridiche soggettive.
Nel
rapporto di gerarchia tale potere non sussiste, perché il subordinato gerarchico,
dal momento che condivide col superiore i medesimi poteri, non necessita di un
provvedimento “costitutivo” di tale natura. Abbisogna, semmai, di un atto
organizzativo interno (che, spesso viene denominato proprio “delega interna”),
col quale il superiore gerarchico lo legittima ad agire, indicando
espressamente di non volersi interessare in prima persona della materia.
Pertanto,
la delega esorbita dal rapporto dal rapporto di gerarchia e non può confondersi
con essa. La conseguenza di ciò è che il delegante non ha i poteri propri del
superiore gerarchico e non può, di conseguenza, revocare, annullare o avocare i
provvedimenti del delegato, finchè la delega sia efficace.
Dunque, il
rapporto delegatorio non crea una dipendenza gerarchica tra delegante e
delegato. Di più, se un superiore gerarchico attribuisce ad un subordinato
gerarchico una delega in senso proprio, per la materia oggetto della delega tra
i due soggetti si estingue il rapporto di gerarchia, in quanto si crea un
rapporto di competenza. I due organi, dunque, limitatamente alle materie
delegate sono posti sullo stesso piano. Il rapporto di gerarchia persiste solo
con riferimento alla gamma dei poteri che non sono stati oggetto di delega.
Da ciò
consegue, per dirla con la dottrina[28]
che “il rapporto delegatorio non crea un rapporto gerarchico, e che anche
quando questo preesista non si fonde con quello” sicchè “i provvedimenti
emanati dal delegato hanno lo stesso carattere di quelli adottati dal
delegante, quando questi vi provvede direttamente. Per cui se definitivi sono
gli uni altrettanto sono gli altri”. Sicchè, in termini generali il
delegante non dispone del potere di annullare gli atti del delegante, né in via
di autotutela, né nell’ambito di un ricorso gerarchico.
Il
delegante per revocare o annullare gli atti, non ha che una scelta, sempre
percorribile: può revocare la delega. In questo caso, poiché la capacità di
agire si consolida con la sua competenza a titolo originario, può agire in
autotutela, annullando o revocando direttamente gli atti.
Il
Consiglio di Stato si è espresso nello stesso senso, col parere della
Commissione Speciale Pubblico Impiego 13 dicembre 1999, in merito
all’ammissibilità di un ricorso gerarchico contro gli atti dei dirigenti
delegati dai dirigenti generali. La questione muove dalla considerazione che a
mente dell’articolo 16, comma 4, del d.lgs 165/2001 gli atti e i provvedimenti
adottati dai dirigenti preposti al vertice dell’amministrazione e dai dirigenti
di uffici dirigenziali generali non sono suscettibili di ricorso gerarchico.
Per altro verso, la quasi totalità dei provvedimenti dirigenziali ha natura
definitiva. Nell’ordinamento degli enti locali, infatti, nel quale non esiste
una ripartizione della dirigenza in “fasce”, al contrario di quanto avviene nell’organizzazione
statale, per effetto del principio di separazione delle funzioni tra organi di
governo e dirigenza, appunto, gli atti emessi dai dirigenti non possono che
essere definitivi: solo la legge potrebbe stabilire diversamente, in via eccezionale.
I giudici
di Palazzo Spada, pronunciandosi in merito ad una delega conferita dal
Direttore Generale della Pubblica Sicurezza al Direttore della Divisione IV del
Dipartimento di Pubblica Sicurezza, autodefinito come delega di firma ha
ritenuto che non fosse suscettibile di ricorso gerarchico. Non solo perché
l’atto emesso dal delegato alla firma è atto del delegante. Ma anche perché “il
delegante si spoglia, infatti, per effetto implicito della delega, del potere
decisorio che inerisce al rapporto di gerarchia e lo trasmette al delegato. La
dismissione attiene sia l’esercizio attivo del potere, vale a dire l’azione che
si manifesta nel porre in essere l’atto, sia l’esercizio ‘passivo’, quale è
quello derivante dalla investitura, in concreto, a seguito di un ricorso di un
interessato”. Il Consiglio di stato aggiunge che “la disposizione del
potere da parte del delegante non fa venir meno la relazione gerarchica su cui
tale stessa disposizione si basa. Ma l’evocazione del rapporto gerarchico
attiene l’eventuale revoca della delega, cioè della situazione che è alla base
dell’investiture e esercizio da parte del delegato della funzione, non già il
regime che inserisce la vicenda successiva dell’atto, che resta caratterizzato,
non meno che l’atto stesso, dall’effetto traslativo proprio della delega”.
Si deve,
comunque, ritenere che il delegante disponga del potere di surrogarsi al
delegato, qualora esso abbia il dovere di agire, ma rimanga inerte.
[1]
Consiglio di Stato, Sezione IV, 4 dicembre 1998, n. 1401.
[2]
Tar Emilia Romagna, Sezione I, Bologna, 15 ottobre 1993, n. 472.
[3]
Consiglio di Stato, Sezione IV, 9 aprile 1999, n. 597.
[4]
Consiglio di Stato, Sezione V, 27 aogosto 1999, n. 1004.
[5]
Tar Lombardia, Sezione II, Milano, 19 novembre 1996, n. 1661.
[6]
Tar Campania, Sezione I, Napoli, 21 luglio 1993, n. 236.
[7]
Tar Puglia, Sezione II, bari, 17 dicembre 1996, n. 827.
[8]
Così A. M. Sandulli, Manuale cit., pag. 218: “è importante sottolineare che
per principio generale il soggetto preposto a un organo (e generalmente quello
preposto a un ufficio) non può delegare ad altri le proprie attribuzioni se non
nei casi in cui norme specifiche espressamente o implicitamente lo consentano”;
nello stesso senso, F. Staderini, Diritto degli enti locali, ed. Cedam, Padova,
1997, pag. 333.
[9]
Consiglio di Stato, Sezione V, 24 novembre 1978, n. 1170.
[10]
P. Sacco, Il profilo della delega cit., pag. 8.
[11]
Corte dei conti, Sezione controllo 13 giugno 1997, n. 92.
[12]
Cassazione civile, Sezione Lavoro, 5 agosto 1998, n. 7672.
[13]
Così, A. Romano, in Diritto Amministrativo, cit., pag. 289.
[14]
P. Sacco, Il profilo della delega cit., pag. 32.
[15]
Tar Piemonte, Sezione II, 17 marzo 2000, n. 309: Ai sensi dell'art. 3, comma 6,
d.lg. 30 dicembre 1992 n. 502, e dell'art. 10 l. reg. Piemonte 24 gennaio 1995
n. 10, il direttore generale di Usl esercita le proprie funzioni direttamente
ovvero delegandole al direttore amministrativo o al direttore sanitario;
pertanto, al direttore generale fa capo una competenza di ordine generale, che
esclude attribuzioni esterne di altri organi o uffici del medesimo apparato
organizzativo, a meno che a questi non venga delegato l'esercizio di
determinate funzioni (esclusivamente il direttore amministrativo e il direttore
sanitario) o la sottoscrizione di specifiche tipologie di atti (cosiddetta
delega di firma, che senza alterare l'ordine delle competenze attribuisce al
soggetto titolare dell'ufficio delegato il potere di sottoscrivere atti, i
quali però continuano ad essere sostanzialmente atti dell'autorità delegante e
non di quella delegata); Tar Basilicata, 31 marzo 1993, n. 99: la pronuncia
circa l'ammissione di un partecipante ad un pubblico concorso - e, quindi, la
verifica del possesso dei requisiti prescritti - compete all'amministrazione
che lo ha bandito a meno che essa non abbia espressamente delegato il relativo
potere alla commissione giudicatrice; anche in tal caso, tuttavia, poichè la
delegazione non spoglia il delegante dal potere di provvedere sulla materia
delegata, l'amministrazione può comunque disporre, anche direttamente, in
ordine all'ammissione ovvero all'esclusione dal concorso; Tar Marche, 22 marzo
1991 n. 161: posto che l'autorità delegante non si priva dei propri poteri in
ordine all'attività che viene delegata, ma demanda solamente al delegato
l'esercizio dei poteri, conservando la facoltà di intervento nell'attività
stessa, occorre verificare caso per caso se la delega crei nel soggetto
delegato una legittimazione esclusiva o soltanto concorrente (con quella
dell'autorità delegante) in ordine all'oggetto della delegazione (la
fattispecie si riferisce a sanzione amministrativa ex art. 15 l. 29 giugno 1939
n. 1497 in riferimento a sub delega dalla regione Marche ai comuni dotati di
strumento urbanistico di alcune funzioni amministrative in materia di
protezione delle bellezze naturali, sulla base di l. reg. Marche 21 agosto 1984
n. 24, interpretata come attributiva di potere in concorrenza per gli
amplissimi poteri di intervento nelle attività dei comuni riservati dalla
regione, che resta legittimata a valutare il corretto esercizio dei poteri
delegati e a sostituirsi ai comuni, previa diffida senza esito, in caso di persistente
inerzia o violazione di leggi o di direttive regionali.
[16]
Questa conclusione era esplicitata in modo più chiaro dall'articolo 4 del r.d.
1238/1939, a mente del quale “la delegazione non priva il podestà della sua
qualità di ufficiale dello stato civile; egli può sempre ricevere gli atti,
anche indipendentemente dal caso di assenza o impedimento del delegato”.
[17]
In tal senso, P. Sacco, Il profilo della delega, cit., pag. 40.
[18]
Tar Lombardia, Sezione II, Milano, 8 marzo 1984 n. 110.
[19]
Tar Campania, Sezione I, Napoli, 4 aprile 1985 n. 207.
[20]
Cons.giust.amm. Sicilia, 30 maggio 1995, n. 182.
[21]
Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale Sicilia, 2 novembre 1992, n. 251.
[22]
In tal senso, V. Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo cit., pag.
149.
[23]
Tar Calabria Catanzaro, 17 dicembre 1990 n. 790.
[24]
Tar Calabria Catanzaro, 2 dicembre 1988 n. 519.
[25]
Vi è una sostanziale concordia nel ritenere che la revoca consista in un
provvedimento di riesame o di “secondo grado”, mediante il quale l’autorità
rimuove un provvedimento amministrativo da essa adottato per ragioni di
opportunità. Secondo la maggior parte degli autori la revoca consegue,
tipicamente, ad un vizio genetico di opportunità. A parere di altri (R.
Villata, in Diritto amministrativo, cit., vol. II, pag. 1533) a ben vedere la
revoca non consegue ad una situazione di “vizio”, perché il rimedio proprio nei
confronti di atti viziati è l’annullamento. La revoca, al contrario, è un
provvedimento il cui fine è far cessare gli effetti di un provvedimento
amministrativo valido, esclusivamente in base a ragioni di opportunità. Chi
considera la revoca un provvedimento di rimozione di un vizio, ritiene che
dispieghi i suoi effetti retroattivamente (V. Italia, V. Landi, G. Potenza,
Manuale di diritto amministrativo cit., pag. 256). La maggior parte degli
autori (G. Corso, L’attività amministrativa cit., pag. 189; R. Villata, in
Diritto amministrativo, cit., vol. II, pag. 1536; U. Di benedetto, Diritto
Amministrativo, ed. Maggioli, Rimini, 1996, pag. 350; M. S. Giannini,
Istituzioni di diritto amministrativo, ed. Giuffrè, Varese 1981, pag. 392, il
quale rileva che essendo la revoca atto estintivo di un rapporto e non
rimozione dell’atto, non può che esplicare i propri effetti successivamente
alla sua emanazione). Si discute, poi, se la revoca sia espressione propria
dello ius poenitendi, della capacità della pubblica amministrazione di
“pentirsi” e di rivedere la propria decisione, di “disvolerla” e, dunque, di
rimuoverne gli effetti. Negano che si tratti di una capacità di disvolere la
maggior parte degli autori. L’esercizio dello ius poenitendi, anche
secondo la giurisprudenza amministrativa, è eventualmente ravvisabile solo nei
riguardi dei provvedimenti che ancora non hanno esplicato i loro effetti, o nei
confronti degli atti cosiddetti preliminari, la cui efficacia è ricondotta a
successivi atti attuativi, come nel caso delle determinazioni a contrattare.
[26]
Nel senso della possibilità di un potere di sostituzione per inerzia del
delegato e di un potere di annullamento sugli atti del delegato è E. Barusso,
Il ricorso all’istituto della delega negli enti locali cit.
[27]
P. Sacco, Il profilo della delega cit., pag. 43 e pagg. 73-80.
[28]
P. Sacco, Il profilo della delega cit., pag. 75.
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