Il Sole 24 Ore del 21 gennaio 2020 nell'articolo a firma di Gianni Trovati "Milleproroghe, altri 172 segretari e gestioni associate all’assemblea dei sindaci" informa in modo secco che il Governo tra gli emendamenti alla legge di conversione del d.l. 162/2019 ne starebbe preparando un con l'obiettivo di eliminare "il comma 51 della legge Delrio, quello in virtù del quale le Province sono disciplinate dalla legge 56/2014 «in attesa della riforma del Titolo V». Osserva il Trovati, che "La bocciatura referendaria della riforma Renzi-Boschi il 4 dicembre 2016, che fra le altre cose avrebbe cancellato le Province dalla Costituzione, ha di fatto chiuso l'«attesa» per un nuovo intervento".
In perfetto stile anglosassone, il quotidiano confindustriale in questo caso si limita a fornire la notizia, il fatto, separato da ogni commento.
Cosa opportuna, visto che ancora siamo sul piano delle mere intenzioni e queste non sono ancora state tradotte in legge.
Tuttavia, chi ha sempre guardato in modo estremamente critico alla più populista e devastante delle riforme, attivata solo per rispondere agli ukaze dei troppi giornalisti "inchiestisti" della PA che dell'amministrazione sanno poco e quel poco lo interpretano male, improduttiva di qualsiasi risparmio di risorse, causa soltanto di 2 anni di blocco di assunzioni e di irrazionali procedure di trasferimento di 20.000 dipendenti pubblici, oltre che di complicazioni procedurali e contrattuali inenarrabili, non può esentarsi da un breve commento.
Sono passati quasi 6 anni dall'approvazione definitiva della legge 56/2014, che l'articolo non definisce "legge Delrio". Andava di moda qualificarla in questo modo "legge Delrio", quando l'aria che tirava contro le province era molto sfavorevole e promuovere l'iniziativa per la loro riforma (sempre erroneamente qualificata come "abrogazione": non si abrogava nulla) era un titolo di merito. Evidentemente, adesso che mestamente si fa il bilancio degli effetti di quell'assurda riforma, abbinarla ad un nome non è più così a la page.
Ma, resta comunque la "legge Delrio". E resta un fallimento totale, un dispiego senza costrutto di energie legislative ed organizzative durato anni ed anni, in spregio alla Costituzione.
Il comma che l'iniziativa dell'attuale Governo (per altro composto da forze politiche che negli anni della legge Delrio avevano fatto a gara a chi urlava di più la necessità di abolire le province) contiene uno sfregio gravissimo alla Costituzione e all'ordinamento: "In attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione, le province sono disciplinate dalla presente legge".
Come sia stato possibile che accettare che l'ordinamento fosse così gravemente inciso da una norma semplicemente improponibile, risulta ancora misterioso. Accettare che una legge, una qualsiasi legge, possa approvarsi "in attesa della riforma della Costituzione" è un assurdo giuridico senza senso. E' come affermare che sperando in una possibile riforma della Carta (e nel 2014 la convinzione di poter modificare la Costituzione era tanto ampia, quanto infondata, come si dimostrò il 4 dicembre 2016), intanto si adotta una legge che contrasti con quella Carta.
E lo sfregio è durato per oltre tre anni, anche successivamente alla sonora bocciatura della riforma della Costituzione che la legge Delrio volle anticipare in alcuni suoi contenuti.
Dal 4 dicembre 2016 si è dovuto aspettare l'inizio del 2020 per prendere atto che quel comma 51 dell'articolo 1 della legge Delrio no, proprio non è accettabile, non può trovare spazio in un ordinamento giuridico coerente, ordinato, rispettoso appunto della Costituzione.
La cancellazione di quella norma-sfregio, tardiva, troppo tardiva, chiude un dissennato episodio, durato circa 8 anni, di populismo senza senso. E senza che nessuno senta il bisogno di chiedere scusa per la mala amministrazione cagionata da un'iniziativa fallimentare, certificata dalla cancellazione mesta e tardiva del vlunus alla Costituzione sul quale si era basata.
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