domenica 8 marzo 2020

Caravaggio e l'eredità (presunta) di Giorgione lungo il filo steso da David

Sin dal '600 artisti, storici dell'arte e "critici" hanno evidenziato una certa affinità o, quanto meno, un debito artistico di Caravaggio rispetto a Giorgione.

Di certo la pittura del Merisi a Roma spiccò per la spaccatura molto forte nei confronti della tradizione manierista ed accademica, dovuta non solo al carattere innovatore del pittore ma anche alla sua innegabile cultura pittorica, affondata nel realismo lombardo e nel colorismo veneto.
Insomma, Caravaggio non ha certo inventato dal nulla la sua pittura e una tradizione, una formazione (anche auto-formazione) non aderente ai canoni manieristici ed accademici l'ha certamente ricevuta.
Guardiamo in particolare quello che viene considerato un possibile (la vita di Giorgione è imprigionata nelle ombre dei secoli e da una scarsità estrema di documenti) autoritratto, nelle vesti di David:
Braunschweig, Herzog Anton Ulrich-Museum
La campitura nera, il naturalismo e realismo della resa dell'incarnato e dei dettagli del volto e delle vesti, la luce di taglio che aiuta ad una tridimensionalità molto percepibile sono tratti decisamente comuni alle opere di Caravaggio.
Come per tutti i quadri di Giorgione, quello mostrato in alto ha una storia per nulla certa. Si pensa possa trattarsi appunto dell'autoritratto del pittore nelle vesti di Davide. E si pensa possa trattarsi dell'ultima sua opera o di una delle ultime, prima della prematura morte.
Ma, l'aria "pre caravaggesca" o, comunque, di forte rottura rispetto alla tradizione della pittura toscana e romana, è chiara.
Come rilevato, già nel '600 gli esperti si accorsero di questo legame tra la pittura veneta, di Giorgione in particolare, e Caravaggio.
I biografi del Merisi, Giovanni Baglione e Giovan Pietro Bellori, riportano la reazione di un accademico come il pittore Federico Zuccari di fronte ai laterali della cappella Contarelli in S. Luigi dei Francesi (la Vocazione e il Martirio di San Matteo): "Che rumore è questo? Io non ci vedo altro che il pensiero di Giorgione".
Un'osservazione da considerare necessariamente negativa? Sia Baglione (meno), sia Bellori (molto di più) non sono stati biografi del tutto neutrali. Non avevano grande stima di Caravaggio e della sua pittura, quindi le citazioni dei fatti sono sempre funzionali al loro giudizio negativo.
Pertanto, il racconto della reazione dello Zuccari, nella visione degli Autori e di molti interpreti, è di carattere negativo: un accademico come Zuccari, che operò nell'ambiente fiorentino e romano, profondamente anti naturalista, se pronunciò quelle parole fu per evidenziare appunto gli aspetti negativi della pittura caravaggesca e, in generale, di quella del Nord Italia, della quale il Merisi non poteve non essere intriso.
Ovviamente, per noi moderni lo Zuccari, se inteso come Baglione e Bellori propongono, aveva torto in quanto al giudizio sul valore della pittura. Sul piano stilistico, invece, lo Zuccari coglie nel segno. Lo conferma, indirettamente il Vasari, nelle sue Vite, quando si esprime su Giorgione: "Attese al disegno e lo gustò grandemente; et in quello la natura lo favorì sì forte, che egli, innamoratosi delle cose belle, di lei non voleva mettere in opera cosa, che egli dal vivo non ritraesse". E' la descrizione di un naturalismo pittorico che potrebbe perfettamente attagliarsi anche a Caravaggio. Giulio Mancini, un contemporaneo di Caravaggio, nelle sue Considerazioni sulla pittura, osservò: "Proprio di questa schola [di Caravaggio] è di lumeggiar con lume unito che venghi d'alto senza reflessi, come sarebbe in una stanza da una fenestra con le pariete colorite di negro, che così, havendo i chiari e l'ombre molto chiare e molto oscure, vengono a dar rilievo alla pittura [...] Questa schola in questo modo d'operare è molto osservante del vero, che sempre lo tien davanti mentre ch'opera".
Insomma, nell'ambiente romano, la pittura di Caravaggio non poteva non apparire in qualche misura esemplare della "scuola" veneta, a sua volta profondamente caratterizzata dall'assenza dell'importanza data a Firenze e Roma al disegno, grazie all'apporto decisivo di Antonello da Messina, dei Fiamminghi, di Albrecht Durer e di Leonardo, che tra la fine del '400 e l'inizio del '500 andarono e lavorarono a Venezia.
Guardiamo in sequenza alcune opere di questa tradizione:
Antonello da Messina Ritratto d'uomo, 1476, olio su tavola di pioppo, Torino, Museo Civico d’Arte Antica, Palazzo Madama

Albrecht Durer, autoritratto, 1493, Louvre, Parigi


Leonardo da Vinci, Ritratto di musico (1485 circa; olio su tavola, Milano, Veneranda Biblioteca e Pinacoteca Ambrosiana)

Racconta ancora il Vasari su Giorgione: "Aveva veduto Giorgione alcune cose di mano di Lionardo molto fumeggiate e cacciate, come si è detto, terribilmente di scuro. E questa maniera gli piacque tanto che mentre visse sempre andò dietro a quella, e nel colorito a olio la imitò grandemente".
Ecco i tratti comuni: la "terribilità", consistente nell'immediatezza comunicativa dell'espressione, data dal realismo e dal dettaglio, nonchè dal rilievo quasi tridimensionale dato alla figura; la "fumeggiature", cioè l'assenza di un tratto di disegno, in favore della diretta stesura del colore sulla tela o sulla tavola, sfumando con molti strati di pennello i contorni; lo "scuro" della campitura o delle ombreggiature, che si contrappone al chiaro e consente la "terribilità".
Caravaggio conobbe certo questa "schola", che fece propria, ovviamente reinterpretandola. Giovan Pietro Bellori avanza l'ipotesi che il Merisi ebbe modo di conoscere direttamente la pittura alla veneta in Venezia: "per alcune discordie fuggitosene da Milano giunse a Venezia, ove si compiacque tanto del colorito di Giorgione che se lo propose per iscorta nell’imitazione. Per questo veggonsi l’opere sue prime dolci, schiette e senza quell’ombre ch’egli uso poi; e come di tutti li pittori veneziani eccellenti nel colorito fu Giorgione il più puro e ‘l più semplice nel rappresentare con poche tinte le forme naturali, nel modo stesso portossi Michele, quando prima si fissò intento a riguardare la natura".
In ogni caso, Caravaggio potè osservare molto da vicino i veneti, compreso Tiziano, direttamente a Roma, nelle collezioni dei mecenati che lo sostennero, per primo il marchese Vincenzo Giustiniani.
E c'è un filo, indiretto, che lega il probabile autoritratto di Giorgione nelle vesti di Davide Caravaggio. S'è detto che l'opera del maestro di Castelfranco forse è l'ultima o una delle ultime e ritrae se stesso.
Anche Caravaggio si è ritratto in un Davide, ma non nelle vesti dell'eroe giudeo, bensì del Golia sconfitto:

Caravaggio, Davide con la testa di Golia, 1609/1610 (?), olio su tela, Galleria Borghese, Roma
La connessione di quest'opera con gli esempi dei maestri del passato è evidente. Il legame con la probabile opera ultima di Giorgione innegabile: il tema è lo stesso anche se l'autoritratto di Caravaggio è una tragica testa mozzata, quella che gli sarebbe stata spiccata dal collo se avesse fatto rientro a Roma dopo la condanna alla pena capitale, per la quale aveva chiesto il perdono tramite il "cardinal nipote" Scipione Borghese, al quale avrebbe inteso fare dono del quadro, come espiazione artistica dell'assassinio di Ranuccio Tomassoni, a causa del quale fu condannato dal Papa Paolo V (Camillo Borghese).
Anche il quadro di Caravaggio, caratterizzato dalla stessa terribilità, dall'essere le figure fumeggiate e cacciate di scuro, potrebbe essere l'ultimo o uno degli ultimi, dipinto proprio per sollecitare Scipione Borghese a quell'amnistia che non ottenne mai.
Certo, il Merisi non pensava e probabilmente non sapeva che la sua opera sarebbe stata una delle ultime (vi è un rilevante filone critico secondo il quale il Davide con la testa di Golia sarebbe da datare molto prima del 1909/1610), come quella, quasi 100 anni prima, del Davide di Giorgione, suo ispiratore (consapevole o inconsapevole).


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