Ragionare di tagli agli stipendi dei dipendenti pubblici, nella situazione economica travolta dall'emergenza coronavirus, è inevitabile.
Al disegno di legge di conversione del d.l. 18/2020 è stato proposto il seguente emendamento:
"19.1000/13
Masini
All'emendamento 19.1000, dopo la lettera a), aggiungere la seguente:
«a-bis) dopo l'articolo 19, aggiungere il seguente:
«Art. 19-bis.
1. A decorrere dal 1º giugno 2020 e fino al 31 dicembre 2021 è istituito un contributo di solidarietà a carico dei funzionari, dirigenti pubblici di prima e seconda fascia iscritti alle gestioni previdenziali INPS, e dei rappresentati della classe politica, nazionale e locale.
2. Sono esclusi dal contributo di cui al comma 1, i dirigenti del comparto medico, dei corpi di pubblica sicurezza, delle forze annate e dei Vigili del fuoco.
3. L'ammontare della misura del contributo è definita secondo i seguenti scaglioni di reddito:
a) 3 per cento del prelievo per i redditi compresi tra 60000 euro e 90000 euro lordi annui;
b) 5 per cento del prelievo per i redditi compresi tra 90000, 1 euro e 120000 euro lordi annui;
c) 7 per cento del prelievo per i redditi superiori a 120000,1 euro lordi annui.
4. Le risorse derivanti dalle disposizioni di cui al presente articolo confluiscono in un fondo denominato ''Fondo per le partite Iva'' istituito presso il Ministero dell'economia e delle finanze finalizzato a dare ristoro ai lavoratori iscritti alla gestione separata.
5. Con decreto del Ministro dell'Economia e delle finanze da adottare entro trenta giorni dalla legge di conversione del presente decreto sono stabilite le modalità di riparto delle risorse di cui al comma 4.»".
Di riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici se ne sta parlando moltissimo nei sociale e nel corso della trasmissione su Radio Capital "le Belve" del 4.4.2020 l'economista Michele Boldrin ha sostanzialmente "ufficializzato" la proposta.
Meglio chiarire subito. Non si tratta di una riduzione proposta perchè "se soffrono i privati, allora debbono anche soffrire i pubblici". Non sono stupide ed inutili "rivalse sociali" a poter guidare scelte così rilevanti.
La proposta ha sue basi. Ragionando sui numeri se ne coglie l'importanza. Occorre considerare che la spesa per il lavoro pubblico costituisce circa il 20% del totale della spesa pubblica: 170 miliardi su 830 circa complessivi. In parte, poi, questa spesa ritorna come entrata nel bilancio dello Stato come entrate da imposte ed in altra parte genera spesa di consumo, rilevante per l'altra parte del Pil comprensiva del reddito da produzione e consumo.
Toccare, quindi, i tasti della spesa per stipendi ai dipendenti pubblici muove notevolissime risorse ed è molto delicato.
C'è da considerare alcune cose. Il fermo a molte delle attività implica una chiara recessione economica: caduta del Pil, che a sua volta determinerà una caduta del gettito fiscale e la necessità di incrementare la spesa pubblica, con incremento del debito e del deficit.
A seconda di dimensioni della recessione, sua durata e della capacità dello Stato di finanziare il debito che emetterà, si potrebbero porre problemi rilevantissimi di squilibrio tra entrate ed uscite del bilancio pubblico, di per sè potenzialmente in grado di rendere inevitabile un ridisegno della spesa pubblica, tale da non poter non coinvolgere una grandezza di circa un quinto della stessa, quale quella per gli stipendi.
Lo Stato sta tentando di agire in fretta, con manovre immediate e molto costose, per arginare gli effetti della crisi, come si è visto con le misure del d.l. 18/2020 e con le altre che si intraprenderanno.
Ridurre di una certa frazione, allora, la spesa di 170 miliardi per stipendi pubblici, per "girarla" verso destinazioni differenti, finanziando con risorse immediatamente disponibili appunto alcune di queste misure che lo Stato sta approntando per ridurre gli effetti della crisi, non può essere considerato impensabile o erroneo, per quanto si tocchino circa 3 milioni di lavoratori.
Ma, a ben vedere, i lavoratori pubblici da coinvolgere sarebbero meno. Sono da escludere certamente medici, infermieri, operatori socio sanitari, tecnici ed amministrativi di ospedali ed aziende Usl, forze dell'ordine, esercito, polizia locale, addetti alla protezione civile e tutto il personale che, a ragion veduta e per necessità vere e concrete, debba svolgere la propria attività in "presenza" negli uffici. Dunque, l'eventuale riduzione della retribuzione dovrebbe riguardare solo i dipendenti in lavoro agile.
A questo proposito, inutile negare l'evidenza. A fronte di attività effettivamente organizzate in lavoro agile produttive ed utili, moltissime amministrazioni hanno prodotto in fretta e furia progetti di lavoro agile vuoti, non rendicontabili, senza troppa specifica utilità e produttività. Una sorta di cassa integrazione mascherata, in molti casi.
A fronte della collocazione in lavoro agile, accanto al disagio vero e sensibile derivante dalle limitazioni alla mobilità (che, comunque, riguardano tutti i cittadini), sono innegabili riduzioni dei costi: di benzina, di mezzi pubblici, di parcheggio, di baby sitting, di aiuto alla casa, di ristorazione durante il lavoro (la polemica sui buoni pasto appare davvero incredibile). Talvolta, si tratta di riduzione di costi anche non secondarie, specie benzina e trasporti.
E' possibile quantificare questi risparmi? Non è certo impresa facile. Di certo è possibile considerare come una sorta di "rendita" il mantenimento completo della retribuzione, di fronte ad evidenti riduzioni di spese, anche purtroppo connesse alla "gelata" dell'economia.
Sarebbe, quindi, così impensabile un intervento sul trattamento economico dei dipendenti pubblici, capace di raccogliere hic et nunc alcuni miliardi freschi da utilizzare per finanziare parte delle manovre? Questo sacrificio, indubbio, non sarebbe comunque paragonabile a quello degli altri dipendenti pubblici in prima linea, in particolare medici ed infermieri.
Ci si può pensare.
Ma, tuttavia, non nelle forme e nei termini dell'emendamento che abbiamo riportato sopra. Va bene l'idea di progressività.
Ma, per piacere, non si torni a commettere l'errore, frutto della sguaiata ed infinita campagna populista "anti casta", di accomunare tutti i dirigenti pubblici ai titolari di incarichi politici.
Vi sono dirigenti direttamente nominati dalla politica in relazione proprio alla loro appartenenza politica.
Si tengano, cortesemente, distinti dagli altri dirigenti e funzionari. Che non sono dei privilegiati, nè fanno parte della "casta": sono lavoratori dipendenti, vivono del loro lavoro.
In secondo luogo, non appare utile destinare un eventuale taglio delle retribuzioni pubbliche ad un'unica destinazione, come un fondo per i titolari di partita Iva, creando per altro così un paradossale vaso comunicante tra due mondi lavorativi, senza alcun razionale collegamento. Le risorse raccolte da un'eventuale e ragionale riduzione temporanea delle retribuzioni pubbliche debbono andare a finanziare l'intero sistema, senza nessuna specifica destinazione, come contributo che i civil servant sono chiamati a dare allo Stato, dei quali sono servitori.