Su La Repubblica del 30 maggio 2020 è l'ex Ministro della giustizia Paola Severino, con l'articolo intitolato "La burocrazia difensiva" a sostenere queste posizioni.
L'articolo evidenzia una supposta (ma non dimostrata) "moltiplicazione di
comportamenti "difensivi" di funzionari spaventati dal rischio di incorrere in
responsabilità civili o penali per le loro decisioni".
Partiamo da questo assunto. Si ha la sensazione che in molti casi si lanci ai media intenzionalmente il messaggio di una "burocrazia" (parola appositamente utilizzata per enfatizzare accezioni deteriori) paurosa e timorosa della propria ombra, incapace di assumersi la "responsabilità della firma".
Nessuno nega che possano esservi casi di questo genere. E', però, da dire che sono altrettanto numerosi, nella realtà dei fatti assolutamente preponderanti, situazioni completamente diverse. Non di "paura della firma", bensì di pressioni degli organi politici o di programmazione nei confronti dell'apparato, volte ad indurlo ad adottare provvedimenti per le vie spicce, come tali illegittime, in nome della necessità di procedere urgentemente e senza troppi lambiccamenti sulla "legittimità", percepita da chi fa queste pressioni appunto come scusa per non "fare" e metodo di burocrazia difensiva.
Questa concezione della funzione amministrativa concepisce la dirigenza pubblica come un apparato posto ad eseguire qualsiasi direttiva, anche a costo di ricevere avvisi di garanzia, prescindendo, quindi, dalla valutazione della legittimità dell'operato.
Ricordiamo ancora il presidente della Regione Campania pronunciare queste parole il 13 dicembre 2016, in occasione dell’inaugurazione di tre servizi operativi nell’Ospedale del Mare a Napoli: “dobbiamo abituarci ad avere dirigenti che non hanno paura della firma, che non hanno paura di firmare una transazione, che mettono anche nel conto di avere qualche avviso di garanzia, ma quando si ha la coscienza tranquilla andiamo avanti, perché se no qua moriamo di avvisi di garanzia e la gente non ha neanche i servizi”.
Dunque, occorre intendersi preliminarmente. Se per "burocrazia difensiva" si intende un apparato che opera in modo da rispettare il principio di legalità e non un insieme di giannizzeri che decide "alla garibaldina" col petto proteso verso l'avviso di garanzia, allora siamo fuori strada.
Non va confusa con "paura della firma" la necessità di rispettare il principio di legalità dell'azione amministrativa, posto dall'articolo 97, comma 2, della Costituzione (I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge [95 c.3], in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione) e dall'articolo 1, comma 1, della legge 241/1990 (L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza, secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai princípi dell'ordinamento comunitario).
Una gestione delle procedure amministrative rispettosa dei vincoli, limiti, indirizzi e prescrizioni posta dalla legge non è "amministrazione difensiva", ma corretto espletamento degli obblighi di perseguire l'interesse pubblico nel solco della volontà insuperabilmente espressa dal legislatore, come definita dall'indirizzo politico, utilizzando, quindi, metodi e mezzi legittimamente per perseguire un interesse generale. Se, come troppo spesso avviene, questo comporta, agli occhi in particolare del decisore politico, poco coraggio o allungamento dei tempi, non si può assecondare una percezione errata, per proporre riforme. I tempi dei procedimenti, gli strumenti, i documenti da chiedere, non sono inventati dall'apparato amministrativo, ma imposti dalla legge.
Occorre, quindi, eliminare alla base ogni equivoco: applicare la legge non è "burocrazia difensiva".
In molti casi, pertanto, per ottenere quelle velocizzazioni e semplificazioni considerate necessarie è del tutto illusorio pensare di ottenere il risultato eliminando ipotesi di responsabilità: occorre che il Legislatore modifichi quelle regole, quelle procedure, quegli strumenti e quei documenti obbligatori che costituiscono il peso operativo, vissuto, poi, erroneamente dal decisore politico come burocrazia difensiva.
La surreale questione degli appalti ne è la dimostrazione. Il cosiddetto "metodo Genova" ha consentito una veloce realizzazione del ponte che sostituisce il Morandi proprio perchè sono state previste dal Legislatore una quantità di deroghe alle troppe regole oppressive e poco funzionali che il Legislatore stesso ha sciaguratamente imposto al codice, inserendo, rispetto alle direttive europee, una quantità spaventosa di regole e codicilli in più (gold plating), causa principale delle disfunzioni del codice. Il caso di Genova è la prova oltre ogni ragionevole dubbio che la durata eccessiva degli appalti non è cagionata da una burocrazia difensiva, ma dall'assurda complessità delle norme da rispettare. Complessità che non è corretto ritenere da superare istigando l'apparato a violare quelle norme.
Non "un" metodo, ma "il" metodo per semplificare ed eliminare pastoie è rivedere la quantità eccessiva di norme, regole e codicilli, imposti da quella stessa classe politica che poi si lamenta dei "ritardi" causati esattamente dalle regole che essa stessa pone.
La Professoressa Severino, nell'articolo citato, è consapevole che occorre agire sulle regole normative. Infatti, afferma che occorre "un sistema di semplificazioni". Ma, intenta a dimostrare che ritardi e lungaggini siano dovuti ai funzionari impauriti, non giunge ad ammettere che il problema principale stia nelle norme. Sicchè si limita a ritenere che le semplificazioni "risulteranno però efficaci solo se ad esse si affiancherà la trasparenza di tutte le fasi del procedimento. Un importante supporto potrà essere fornito da una diffusa digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, che consentirebbe una verifica in tempo reale sull'andamento e sulla progressione anche cronologica delle pratiche e sul corretto esercizio dei poteri decisionali, ben prima di giungere a ricorsi o denunzie".
Digitalizzare le procedure è necessario ed irrinunciabile. Ma, non basta. Non si semplifica solo con la digitalizzazione. La semplificazione è quell'operazione matematica che porta alla riduzione dei fattori di un'espressione. Se non si riducono le regole ed i vincoli, non si semplifica nulla. Infatti, proprio negli appalti, da circa due anni è obbligatorio gestire le gare mediante piattaforme informatiche: il che non ha per nulla semplificato o ridotto i tempi.
Per converso, non c'è dubbio che i confini della responsabilità, in primo luogo amministrativa, vadano meglio delineati.
Non appare condivisibile, però, pensare di eliminare la colpa grave, come propone la Severino nell'affermare: "Il rimedio non può che risiedere nella creazione di un parametro normativo di definizione della nozione che ne renda certi i confini, oppure, molto più radicalmente, nella limitazione della responsabilità alle sole ipotesi di dolo, cioè di consapevole e volontario contrasto con le regole che disciplinano lo svolgimento di funzioni pubbliche".
L'apparato amministrativo non può essere esentato dalla colpa grave, proprio perchè l'azione amministrativa è sorretta dal principio di legalità. L'apparato viene selezionato per concorso pubblico, costituisce una struttura operativa indispensabile: i cittadini e l'erario debbono pretendere che operi ed agisca esplicando competenze elevate e tecniche, rispondendo quando operi, invece, in maniera leggera e poco meditata, violando le regole tecniche della professionalità. Limitare la responsabilità al dolo significa aprire la stura ad una serie di comportamenti gestionali avventati, per finire poi col selezionare come dirigenti "bravi" quelli che del principio di legalità seguano solo il dato formale e non sostanziale, rivendicando come sostanziale l'errore operativo consistente nello scegliere tra più scelte discrezionali non quella maggiormente in grado di conseguire fini pubblici con la minore compressione possibile delle posizioni del privato, bensì quella più conveniente a fini politici, elettorali e di parte.
Indubbiamente, il problema dell'esposizione eccessiva alla responsabilità erariale si pone. Ma, ancora una volta ciò è causato dal Legislatore. E' la legge che non ha mai avuto la capacità di fissare canoni precisi di circoscrizione della responsabilità amministrativa e contabile. Il Parlamento ha lasciato da sempre, per altro, che fosse la giurisprudenza della Corte dei conti a fissare con le sentenze casi ed ipotesi di responsabilità sempre più ampi e complessi. In giurisprudenza si sono evolute una quantità ormai incontrollabile di responsabilità:
- di tipo risarcitorio;
- restitutoria
- recuperatoria
- con danno
- priva di danno
- di tipo sanzionatorio;
- di tipo afflittivo;
- per danno all’immagine della P.A.
- per danno da esercizio penalmente rilevante di pubbliche funzioni
- per danno da disservizio.
Molte volte, come nel caso del danno all'immagine, è stato il Legislatore ad accordarsi all'evoluzione pretoria, traducendo in legge interpretazioni giurisprudenziali (legificazione). Così contribuendo alla complicazione del quadro ed estendendo a dismisura i confini della responsabilità erariale. La stessa Prof. Severino ha radicato ulteriormente, con la legge 190/2012, l'ipotesi di danno all'immagine, definendone il criterio di quantificazione.
Piuttosto che parlare di eliminare l'ipotesi di colpa grave, appare invece necessario un intervento di bonifica e razionalizzazione delle eccessive ipotesi di danno elaborate dalla giurisprudenza e coperte da regolazione normativa, riducendole e specificando in maniera chiarissima cause e fattispecie.
La responsabilità di tipo afflittivo è causa di sentenze che condannano anche nel caso in cui il danno sia recuperabile utilizzando strumenti messi a disposizione dallo stesso legislatore, come per il caso di spese connesse ad errori nella gestione della contrattazione decentrata delle amministrazioni pubbliche (fra le altre, Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Sicilia, 16 aprile 2020, n. 157) . E' assolutamente paradossale che da un lato la legge preveda rimedi a danni all'erario, ma dall'altro si affrontino procedure e costi per affliggere amministrativamente un danno cui si è posto rimedio.
La Prof. Severino, poi, nell'articolo prosegue sull'onda di chi vuole ulteriori limature al reato di abuso d'ufficio, già oggetto circa 25 anni fa di forti limitazioni e svuotamenti. L'ex Ministro propone una riforma sostenendo che "Solo di fronte a norme che impongono al pubblico funzionario un determinato comportamento, potrà ipotizzarsi una rilevanza penale del fatto se, oltre alla violazione di regole vincolanti, sia stato causato un ingiusto vantaggio patrimoniale e un danno ingiusto ad altri".
Ma, l'articolo 323 del codice penale presuppone proprio che il reato di abuso d'ufficio si determini per violazione di norme poste ad imporre un comportamento. Infatti, la norma prevede che il reato scatti se il pubblico funzionario o l'incaricato di un pubblico servizio procuri a sè o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o arrechi ad altri un danno ingiusto, ma sul presupposto della "violazione di norme di legge o di regolamento". Il reato si configura, quindi, esattamente allorchè si vìoli un comportamento imposto da norme.
Il reato di abuso d'ufficio è manifestamente correlato proprio al già visto principio di legalità dell'azione amministrativa. La sua eliminazione o riduzione ad una petizione di principio talmente astratta ed inutile, espone l'amministrazione pubblica a pressioni ancora maggiori ad agire in spregio alle norme, o a ritenere che possa essere normale, specie per ragioni di carriera e di gradimento a chi nomina ed incarica, agire anche comprimendo in modo ingiustificabile le posizioni giuridiche dei cittadini.
La semplificazione passa, come detto, per la riduzione dei troppi e troppo confusi, comandi e regole, non per l'eliminazione delle fattispecie di responsabilità.
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