Il grande assente dall’incredibile dibattito sul lavoro agile è la valutazione di impatto. Affermare che la presenza nei luoghi di lavoro debba essere intensificata a seguito della riapertura di industrie, negozi e ristoranti è semplicemente fuorviante e privo di connessione con esigenze concrete.
Una delle giuste lamentazioni che da sempre muovono le attività imprenditoriali contro la "burocrazia" è il "tempo che si perde agli sportelli”.
La ben nota CGIA di Mestre, sempre molto attiva nel quantificare i “costi” della burocrazia per le imprese sollecita da sempre queste riforme:
ridurre il numero delle leggi, analizzando il loro impatto soprattutto su micro e piccole imprese;
monitorare con cadenza periodica gli effetti delle nuove misure per introdurre tempestivamente dei correttivi;
consolidare l’informatizzazione della PA, rendendo i siti più accessibili e i contenuti più fruibili;
far dialogare tra di loro le banche dati pubbliche;
permettere all’utenza la compilazione esclusivamente per via telematica delle istanze;
procedere e completare la standardizzazione della modulistica;
accrescere la professionalità dei dipendenti pubblici attraverso un’adeguata formazione.
Sembra piuttosto evidente che la supposta esigenza di intensificare l’attività lavorativa “in loco” a seguito della riapertura di industrie, negozi e ristoranti, non abbia alcuna coerenza con quanto le imprese rivendicano a giusta ragione, cioè maggiore informatizzazione, dialoghi tra banche dati, moduli standard e compilabili on line.
Lo smart working è esattamente la risposta ideale ad un’attività amministrativa che si remotizza e dematerializza e, come tale, è del tutto inconciliabile con la ricezione allo sportello, alla “presenza in loco”, la quale chiama anche la simmetrica presenza del cittadino fruitore.
Il dibattito sullo smart working omette anche di valutare un altro benefico impatto sull’organizzazione e la spesa pubblica. La diffusione del lavoro agile permette la rilevantissima riduzione delle spese per la conduzione degli immobili. Meno dipendenti chiamati a trattare “in loco” procedure idonee ad essere gestite da remoto, oltre a contribuire alla riduzione delle emissioni, consentono di ridurre gli spazi, le spese di manutenzione, di utenze, di arredo.
Lo smart working è per se stesso “spending review”. Ed è piuttosto incredibile che l’argomento della razionalizzazione della spesa abbia campeggiato anche a sproposito per anni, ed ora che si è dimostrata la possibilità di svolgere le funzioni amministrative in modalità remotizzata ed intelligente, sia totalmente sparita dai radar ogni considerazione sui benefici logistici del lavoro agile.
Addirittura, gli ordini professionali tecnici nei giorni scorsi sui media hanno preteso la presenza in loco dei dipendenti degli uffici edilizia dei comuni, sul presupposto che le pratiche debbano necessariamente essere svolte in via cartacea.
Come sempre, le valutazioni sulle scelte operative, in particolare della PA, appaiono influenzate da slogan e prese di posizione. Quella che va in scena in questi giorni è la teoria astratta, indimostrata ed indimostrabile ma di grande presa, dello smart working come “ferie” o favoritismo per i fannulloni.
Un modo caricaturale e del tutto privo di costrutto di affrontare la realtà. La quale ha dimostrato, nel periodo caotico dell’emergenza, che i gravissimi ritardi tecnologici, formativi e strutturali per un’amministrazione pubblica digitalizzata e smart non erano responsabilità dei dipendenti “fannulloni”, ma di amministrazioni e vertici politico-amministrativi che hanno violato costantemente per anni le previsioni del codice dell’amministrazione digitale, le indicazioni della spending review, gli investimenti nelle infrastrutture hardware e software, le previsioni sulla gestione informatizzata e trasparente delle piattaforme.
Adesso che c’è modo e tempo per correggere il tiro ed organizzare la PA in modo che tutte le regole già esistenti siano attuate nella direzione “smart”, ogni polemica sul “fannullonismo” sembra risibile.
E’ evidente, per altro, che molte delle sterminate attività svolte dai dipendenti delle PA difficilmente si presta al lavoro agile: un terzo circa dei dipendenti pubblici sono docenti delle scuole. Hanno lavorato da remoto, ma la conduzione di un anno di lezioni non può non avvenire in presenza. Centinaia di migliaia, poi, sono lavoratori che non possono operare solo da remoto: medici, infermieri, tecnici degli ospedali, assistenti sociali, forze dell’ordine, agenti di polizia locale, archeologi, bibliotecari, custodi, operai. Dei 3 milioni di dipendenti pubblici, una buona metà circa non può lavorare in smart working.
Ciò non significa che l’altra metà è sede privilegiata di fannulloni. Al contrario può e deve essere la leva per un modo diverso di programmare ed amministrare. Che faccia comprendere, ad esempio, che il lavoro “smart” non è solo quello svolto dietro ad un pc, lontano dalla sede di elezione. E’ smart anche un’organizzazione che, proprio sfruttando le possibilità delle reti e delle banche dati dialoganti, sia capace di creare e diffondere plurimi “punti rete” di servizi, virando decisamente di 180 gradi rispetto a deleterie scelte del passato, omaggio a spending review solo di facciata e rivolte esclusivamente a tagliare invece che a riorganizzare.
Bravo prof
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