Si continuano a vedere in giro
moltissime anime candide, stupite che la pubblica amministrazione possa aver
garantito livelli di efficienza gestionale pari, se non superiori, a quelli del
passato, nonostante molti dipendenti fossero in lavoro agile.
Per molti di costoro, un lavoro
sganciato dall’imbullonamento alla sedia ed alla scrivania appare impensabile.
Il lavoro viene concepito necessariamente come uno spostamento da casa verso un
determinato luogo, possibilmente affrontando il bellissimo e salutare traffico
dell’ora di punta, affinchè, in quel luogo, ordinatamente ed in fila, si “timbri”
in entrata e si “timbri” in uscita.
La “timbratura” della presenza in
ufficio è una tranquillizzante certezza. Si badi: non la certezza che poi, tra
una timbratura e l’altra, si lavori e si produca. Infatti, accadimenti come
quello famoso del comune di San Remo, ove la metà quasi dei circa 400
dipendenti si assentava tanto o poco ogni giorno, dimostrano come molte volte
la pretesa della “presenza” sul posto di lavoro, sia solo forma. Poi, pochi
sanno davvero cosa facciano, come lavorino, cosa producano i dipendenti.
Non è un caso se, infatti, non è
mai partito un serio sistema di valutazione della produttività. Sarebbe serio
se vi fosse la capacità di analizzare le attività che si fanno, quante fasi le
costituiscono, quanti esiti finali comportino e in quanto tempo, per
determinare, quindi quali prodotti finali aspettarsi dai dipendenti e dagli
uffici nel loro insieme.
Ancora oggi proliferano schede
di sedicente valutazione mediante le quali l’oggetto della verifica della
produttività non è, come dovrebbe, una verifica retrospettiva di quanti
prodotti sono stati realizzati su quelli previsti o di quanta efficacia abbia
avuto un certo progetto rispetto ai risultati preventivati. Le schede, invece,
sono spesso composte da elementi valutativi utili per una valutazione prognostica
delle attitudini del lavoratore: contengono sempre, infatti, riferimenti alla “capcità
di”; più spesso sono composte da elementi astratti e vuoti: l’ “orientamento al
cliente” (qualunque cosa voglia dire”), l’ “iniziativa”, le “proposte efferttuate”,
le “interrelazioni”.
Lo smart working costringerebbe
ad abbandonare le certezze e le comode schede di valutazione che non valutano
nulla. Ed imporrebbe di considerare il lavoro non come quel segmento imponderabile
compreso tra due parentesi, la timbratura in entrata e la timbratura in uscita,
bensì come attività da conoscere, analizzare, pesare, progettare e valutare.
Non è un caso se il lavoro agile
nella PA non è mai partito davvero, prima dell’emergenza Covid-19. La legge 124
2015 aveva previsto l’obiettivo tutt’altro che ambizioso di estendere il lavoro
agile al 10% dei dipendenti pubblici (dunque, circa 300.000 persone) entro il
2018.
All’arrivo del coronavirus, i
dipendenti pubblici in smart working erano pochissime migliaia. Resistenze
mentali, scarsissimi investimenti in digitalizzazione, hardware, formazione,
rimodulazione dell’organizzazione, avevano lasciato l’auspicio normativo solo tale.
E tale sarebbe rimasto, senza l’emergenza virus.
Questa ha dimostrato che il
potenziale era immenso. Si è visto che è possibile gestire il protocollo e l’archivio
da lontano; si è visto che tante imposizioni del codice dell’amministrazione
digitale (sistematicamente violate da anni) si possono e si debbono attuare,
con utilità per la produttività; si è scoperto che si possono gestire i
concorsi da remoto e che le “istanze” possono e debbono essere presentate su
specifiche piattaforme; si è scoperta l’utilità enorme dello SPID e delle forme
di identità digitale; si è avuta la riprova della molto più semplice
tracciabilità delle procedure, se gestite con applicativi informatici.
Nonostante queste evidenze, le
anime belle si mostrano ancora scettiche e dubbiose. I giornali del 5 luglio
2020 raccontano con malcelata sofferenza l’emendamento alla legge di
conversione del d.l. 34/2020, col quale si vuole assicurare che per il 2020 resti
in lavoro agile almeno il 50% del personale adibito ad attività con queste compatibili.
Quanto sarebbe questo personale?
Provando a fare
qualche conto fondato su dati abbastanza concreti, si scopre che il
personale concretamente idoneo ad essere disposto in lavoro agile non supera la
metà del totale: circa 1.600.000 dipendenti. Se va bene e se proprio tutti gli
uffici e le organizzazioni fossero dotati di strumenti ed organizzazioni tali
da consentire questa modalità lavorativa, i dipendenti pubblici in lavoro agile
non supererebbero nel 2020 gli 800.000. L’emendamento ricordato prima vorrebbe
che la percentuale salisse al 60% nel 2021; con un potenziale di 960.000 dipendenti.
Più realistico è pensare ad una cifra compresa tra 600.000 e 700.000
dipendenti.
Dovrebbe trattarsi di una buona
notizia. La spinta che il lavoro agile “forzato” dall’emergenza ha dato allo
sblocco dei troppi ostacoli frapposti alla digitalizzazione dimostra che l’abbarbicamento
al lavoro “tradizionale” è un fattore di ritardo e di inefficienza.
Eppure, l’idea che la PA debba
restare inefficiente, formalisticamente obbligata al cartellino da timbrare a prescindere
dalla riorganizzazione dei processi produttivi, purchè in grado di sostenere l’economia
del baretto (col massimo rispetto dovuto ai gestori dei bar) continua ad
imperare.
Il Corriere della Sera del 5
luglio dà spazio all’articolo di Dario Di Vico, il cui titolo è emblematico, o,
se si vuole, involontariamente satirico: “La fretta sul lavoro a distanza”.
Prego? Sarebbe aver fretta,
almeno nella PA, attivare il lavoro agile dopo 5 anni dalla legge 124/2015 che spingeva
ad una percentuale risibile del 10%? E’ frettoloso estendere lo smart working
nella PA a 3 anni di distanza dalla legge 81/2017, che lo ha regolato?
Il Di Vico invita a non “legiferare
a casaccio”, evitando che sia la legge a determinare come organizzarsi e quanti
lavoratori debbano contemporaneamente essere posti in smart working. Tale compito,
infatti, spetta alla contrattazione. E, secondo l’Autore, “Destrutturare le
organizzazioni in maniera rigida e con l'autorità di una legge non conviene a
nessuno, tantomeno alla già non efficientissima pubblica amministra-zione made
in Italy”.
Sfugge a questa argomentazione,
di per sé debole:
1.
che la disciplina del rapporto di lavoro pubblico
trova ancora nella legge la propria fonte principale e non nella
contrattazione, meno che mai in quella individuale;
2.
è proprio per la ragione vista sopra che lo
smart working nella PA non ha mai preso piede, prima dell’emergenza Covid-19;
3.
non può certo essere negata al Legislatore, potere
dello Stato che è datore pubblico di lavoro ed organizzazione, la possibilità
di esercitare il proprio potere organizzativo, prevedendo obiettivi anche
numerici.
Sempre il Di Vico evidenzia l’opportunità
di non forzare e di “restare con i piedi per terra e ricordare che la sfida che
ci attende è innanzitutto quella della produttività”. Verissimo. Ma, proprio lo
smart working costringerebbe finalmente le PA a riorganizzare servizi, modi di
produzione, attività e mansioni in modo da analizzare i prodotti e, quindi,
discutere davvero di produttività.
Il problema non è affatto la “fretta”
per attivare il lavoro agile. E’ vero l’opposto: l’Italia sconta proprio il
ritardo gravissimo di tante amministrazioni, pubbliche e private, nella
digitalizzazione e nella gestione improntata al lavoro da remoto.
Ritardi che l’economia del
baretto non può più giustificare. Il ripensamento dei tempi, degli orari, dei
volumi di traffico e della vivibilità delle città è ormai irrinunciabile. Le
strade per il rilancio del commercio debbono essere immaginate in modo diverso
rispetto alla garanzia della rendita da posizione connessa alla collocazione
del baretto proprio nell’angolo dello scatolone di cemento nel quale
agglomerare i dipendenti.
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