L’ultima “ideona” è il
reinvestimento nella contrattazione integrativa dei risparmi per valorizzare la
produttività, il welfare e la formazione.
Lo ha ripetuto più volte l’inquilina
di Palazzo Vidoni, offrendo le risorse derivanti dai risparmi ai sindacati come
strumento di mediazione nella tesa trattativa sulla determinazione dei fondi
per i rinnovi del triennio 2019-2021.
Quanto esattamente dovrebbe andare al personale è difficile sapere. La Funzione Pubblica ha stimato, secondo i giornali, un risparmio di circa 53 milioni nelle sole amministrazioni statali. Il lavoro agile emergenziale, infatti, avrebbe condotto ad un risparmio di circa 18 milioni di euro per straordinari non effettuati, cui aggiungere altri 35 milioni per buoni pasto non goduti.
Non è dato sapere quali siano i
risparmi delle moltissime altre amministrazioni, vista l’estrema frammentarietà
dell’apparato amministrativo e considerato che questi risparmi potrebbero
essere accertati nella loro effettività solo una volta approvati i rendiconti.
In ogni caso, secondo l’idea di
Palazzo Vidoni, queste risorse ancora da identificare nel loro complesso si
dovrebbero aggiungere agli ulteriori 400 milioni aggiunti fissati nella legge
di bilancio per il 2021, cumulandosi ai 3,2 miliardi già impegnati dalla manovra
2020, così da far salire a 3,8 miliardi lo stanziamento per il rinnovo dei
contratti della pubblica amministrazione centrale; il che potrebbe portare a
superare l’attuale ipotesi di uno stanziamento complessivo di circa 6,7
miliardi: si debbono, infatti, aggiungere le risorse a carico degli enti non
appartenenti alle Funzioni Centrali, i quali a loro volta dovrebbero reperire
risorse da risparmi di straordinari e buoni pasto. La spesa finale potrebbe
sfiorare i 7 miliardi.
Ora, è sempre ottimo che qualcuno
sprema le meningi per farsi venire delle ottime idee, ovviamente “innovative”,
per risolvere i problemi.
Rispetto alle proposte che
provengono da Palazzo Vidoni, però, alcune cose proprio non tornano.
Partiamo dalla questione degli straordinari.
E’ noto o non è noto agli esperti della Funzione Pubblica che i contratti
collettivi nazionali di lavoro prevedono da sempre che quanto non speso dello
stanziamento annuale per gli straordinari va ad alimentare, l’anno dopo, le
risorse variabili?
Qualcuno a Palazzo Vidoni
conosce, per esempio, l’articolo 67, comma 3, lettera e), del Ccnl 21.5.2018,
che elenca, tra gli strumenti di alimentazioni della parte variabile dei fondi
della contrattazione decentrata questo: “eventuali risparmi accertati a
consuntivo derivanti dalla applicazione della disciplina dello straordinario di
cui all’art. 14 del CCNL dell’1.4.1999; l’importo confluisce nel Fondo
dell’anno successivo”.
Diciamo, quindi, che l’ “ideona”
di utilizzare risparmi dello straordinario per la valorizzazione della
produttività non appare proprio tra quelle definibili come originalissime: esiste
almeno dal 1999.
L’ulteriore cosa che non
funziona, sebbene non sia esattamente stato chiarito ancora come questi
risparmi si vogliano utilizzare, è pensare di utilizzare minore spesa da
straordinari per incrementare lo stanziamento previsto dalla legge per la
contrattazione collettiva nazionale.
Un conto, infatti, è che un
Ccnl, come avviene da lungo tempo, permetta di reimpiegare a fini di
incentivazione della produttività le risorse non spese l’anno prima per
straordinari, misura che non implica alcun aggravio della spesa pubblica.
Cosa del tutto diversa è utilizzare
risparmi, casuali e transeunti, come quelli degli straordinari del 2020, largamente
influenzati dall’emergenza Covid, per finanziare uno stanziamento della legge
di bilancio: infatti, agendo in questo modo, un risparmio casuale e
transitorio, verrebbe trasformato in spesa corrente fissa e continuativa. Forse
abbiamo capito male: e speriamo proprio che l’intento del Governo sia altro.
Ma, se fosse diverso da questo, visto che la contrattazione nazionale collettiva
prevede da una vita il reimpiego dei risparmi da straordinari ai fini dell’incremento
delle risorse variabili dell’anno dopo, non si riuscirebbe a capire la sostanza
della cosiddetta “ideona” in merito.
Andiamo, adesso, alla questione
dei risparmi da buoni pasto. Anche in questo caso non si può non rilevare che la
minore spesa registrata nel 2020 sia frutto di una (disgraziatissima)
casualità: l’emergenza pandemica, per effetto della quale un istituto, il
lavoro agile, che per moltissime amministrazioni equivaleva ad uno scritto in
Lineare A tradotto in sanscrito, è stato imposto malgrado i ritardi gravissimi
di carattere organizzativo e tecnologico.
Occorre essere franchi: l’attivazione
del lavoro agile non è stata certo un “merito” delle amministrazioni. E’ piovuta
sulla loro testa e la gran parte, specie nel primo lock down, si è dovuta
arrangiare in qualche modo per attivarlo. E ancora oggi si ha la prova della
sostanziale impreparazione, visto che si continua a discettare sull’opportunità
di adottare il POLA, atto che se le amministrazioni avessero preso sul serio la
norma che già 5 (cinque) anni fa spingeva verso lo smart working (l’articolo 14
della legge 124/2015), risulterebbe del tutto inutile.
Dunque, anche in questo caso,
sul piano strettamente contabile trasformare un risparmio transeunte in una
fonte stabile di finanziamento delle risorse per la contrattazione collettive,
è senza alcuna base e supporto.
Sul piano astratto, parrebbe
normale e naturale reinvestire in incentivi per il personale risparmi sulle
spese di personale.
Infatti, sempre la
contrattazione collettiva lo prevede. Sempre restando al Ccnl Funzioni Locali
21.5.2018, l’articolo 67, comma 3, lettera b), consente di incrementare la
parte variabile del fondo delle risorse decentrate della “quota di risparmi
conseguiti e certificati in attuazione dell’art. 16, commi 4, 5, e 6 del D.L. 6
luglio 2011, n. 98”.
Ma, come si dimostra agevolmente
andando a leggere le norme richiamate, correttamente la contrattazione
collettiva non consente di aumentare le risorse da destinare ad incentivi
dovute ad un risparmio “qualsiasi” o casuale. Le amministrazioni, alla luce
dell’articolo visto prima, avrebbero dovuto adottare “piani triennali di
razionalizzazione e riqualificazione della spesa, di riordino e ristrutturazione
amministrativa, di semplificazione e digitalizzazione, di riduzione dei costi della
politica e di funzionamento, ivi compresi gli appalti di servizio, gli affidamenti
alle partecipate e il ricorso alle consulenze attraverso persone giuridiche. Detti
piani indicano la spesa sostenuta a legislazione vigente per ciascuna delle voci
di spesa interessate e i correlati obiettivi in termini fisici e finanziari”.
La legge e la contrattazione
collettiva, quindi e riassumendo, ammettono che risparmi possano essere
investiti (per altro solo in parte) negli incentivi alla produttività, ma a
condizione che si tratti di risparmi:
1.
programmati;
2.
finalizzati a riqualificare e ridurre la spesa;
3.
finalizzati alla semplificazione e digitalizzazione
(proprio quella che è mancata ai fini del lavoro agile emergenziale);
4.
predeterminabili in obiettivi da conseguire.
La minore spesa dovuta al minore
utilizzo di buoni pasto non ha, con ogni evidenza, nulla a che vedere con
risparmi indotti da una programmazione rivolta a migliorare e semplificare l’azione
amministrativa, cui riconnettere una presumibile maggiore produttività,
meritevole di un incentivo.
Spendere meno per buoni pasto
non ha alcun visibile aggancio a razionalizzazione della spesa, semplificazione
delle procedure, digitalizzazione, riduzione dei costi, fissazione di obiettivi
economici. E’ un mero dato, privo di qualsiasi correlazione possibile con la “produttività”.
Ora, se Palazzo Vidoni ritiene
doveroso dover concedere qualcosa alle organizzazioni sindacali che chiedono
maggiori risorse per la contrattazione e rivendicano da sempre il “diritto”
(del tutto inesistente, come ha ben spiegato
il giudice del lavoro di Venezia), lo dica con chiarezza. Si vuole che i buoni
pasto divengano da facoltativi a obbligatori? Lo si stabilisca in modo chiaro.
Si ritiene opportuno riconoscere ai dipendenti pubblici una somma per
compensare le spese di connessione, utilizzo di apparecchiature proprie e porzioni
delle case messi in questi mesi a disposizione per l’attività in smart working?
Lo si affermi apertamente. Anche per poi affrontare, a testa alta e in modo
trasparente, gli inevitabili malumori degli appartenenti alle attività
produttive del Paese, nei confronti dei quali i “ristori” attribuiti sono
oggettivamente insufficienti.
I risparmi dovuti a minori spese
per buoni pasto altro non dovrebbero essere se non quel che sono: risparmi. Una
minore spesa corrente, da rendere acquisita e preziosa.
Per altro, per le
amministrazioni reginali, del servizio sanitario e dei comuni questi risparmi da
buoni pasto potrebbero avere comunque un benefico effetto: ridurre il volume
complessivo della spesa di personale e consentire un maggior volume di spesa
per le assunzioni, secondo il nuovo regime previsto dall’articolo 33 del d.ll
34/2019.
In ogni caso, l’idea di
utilizzare risparmi da buoni pasto per incrementare le risorse da destinare
alla contrattazione sconta un’ulteriore bizzarria: prevederla per legge,
significa estenderla a tutte le pubbliche amministrazioni. Ma, alcune tra esse,
e non sono poche soprattutto tra i ministeri, hanno continuato a riconoscere i
buoni pasto anche ai dipendenti in lavoro agile. Qual è il senso dell’equilibrio,
della razionalità, del buon andamento, di permettere di utilizzare risparmi da
buoni pasto per “valorizzare” la produttività ad enti che quei risparmi non
hanno contribuito a determinarli?
Forse, le “ideone” è bene
ponderarle molto, ma molto bene, prima, molto prima, di enunciarle urbi et
orbi.
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