mercoledì 23 dicembre 2020

La fola secondo la quale gli enti possono concedere la mobilità ai neoassunti prima dei 5 anni di permanenza in servizio.

E' opinione molto diffusa quella secondo la quale vincere un concorso in una pubblica amministrazione sia come prendere un taxi, che concede al detto vincitore, poi, di pretendere il diritto di spostarsi da un ente all'altro, come più gli venga comodo.

E' la teoria del cosiddetto "diritto alla mobilità", che non trova assolutamente nessun appiglio normativo. L'articolo 30, nei suoi variegati (troppi) commi che disciplina l'istituto (molto, troppo, complesso), non configura mai il passaggio diretto come diritto soggettivo del dipendente. Si tratta, semplicemente, infatti, di un procedimento ad istanza, in tutto condizionato dal nulla osta dell'ente di appartenenza, totalmente libero di concedere o negare il nulla osta.

Talmente la mobilità non costituisce un diritto, anche nell'ambito del rapporto di lavoro alle dipendenze di regioni ed enti locali, che il legislatore di recente è intervenuto per meglio chiarire la questione, con l'articolo 3, comma 5-septies, dell'articolo 3 del d.l, 90/2014, convertito in legge 114/2014, come novellato dall'articolo 14-bis della legge 26/2019.

La disposizione sancisce: "I vincitori dei concorsi banditi dalle regioni e dagli enti locali, anche se sprovvisti di articolazione territoriale, sono tenuti a permanere nella sede di prima destinazione per un periodo non inferiore a cinque anni. La presente  disposizione costituisce norma non derogabile dai contratti collettivi".

Come sempre, anche di fronte a disposizioni chiarissime, emerge sempre poi l'interpretazione ad usum delphini, tendente a privare di contenuto il precetto, declassandolo a mero consiglio o celia.

V'è, quindi, chi ritiene che quel divieto non sia tale (senza poter, quindi, capire di che si tratti) o che, comunque, se proprio lo si debba considerare come divieto, esso riguardi solo i dipendenti, ma non gli enti.

Il paradosso di simili interpretazioni sono:

1) la prima, di fatto, mira a considerare la norma come se non esistesse; ma applicare una norma come se non esistesse, significa disapplicarla, dunque, violarla; non il massimo come applicazione del principio di legalità;

2) la seconda è un ossimoro: considera vietato chiedere la mobilità, ma possibile concenderla.

Risultando evidente che la prima interpretazione non può che essere totalmente rigettata, in quanto invita a violare le norme, non resta che concentrarsi brevemente sulla seconda.

Affermare che all'ente datore sarebbe possibile quel che al dipendente è vietato è un sofisma, privo di sostegno giuridico, volto ad aggirare la norma e, quindi, ancora una volta a violarla.

Quando si interpretano le norme, occorre considerare che esse fanno parte di un ordinamento; non debbono essere lette e considerate isolatamente.

Bene. La mobilità è un istituto di gestione del rapporto di lavoro: l'atto che la determina va considerato di diritto privato.

Tuttavia, il legislatore ha ritenuto di assoggettarla ad un vero e proprio procedimento amministrativo, regolato dall'articolo 30 del d.lgs 165/2001.

Allora, il datore pubblico non può far finta che non esista la legge 241/1990. Deve applicare anche questa. E, in particolare, il suo articolo 2, comma 1, secondo periodo, ai sensi del quale se le amministrazioni a seguito di un'istanza ne ravvisano "la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo".

Le amministrazioni, dunque, di fronte ad una domanda inammissibile "concludono", cioè "devono concludere" il procedimento con un rigetto addirittura in forma semplificata, non necessitante nemmeno una particolare motivazione.

Nel caso della domanda di mobilità mossa da un dipendente prima che siano trascorsi 5 anni, allora, le amministrazioni non hanno alcuna scelta: debbono rigettarla in forma semplificata, in quanto manifestamente inammissibile, per plateale violazione al divieto di cui all'articolo 3, comma 5-septies, del d.l. 90/2014, convertito in legge 114/2014, che basta richiamare, senza altro aggiungere.

Quindi, si dimostra che al divieto posto al lavoratore di chiedere la mobilità prima dei 5 anni, consegua l'obbligo della PA di rigettare seduta stante l'istanza.

Con buona pace di ogni sofisma o lettura speciosa delle norme, finalizzati troppo spesso a porre nel nulla precetti normativi.

4 commenti:

  1. La presente disposizione costituisce norma non derogabile dai contratti collettivi". Giusto: i contratti collettivi non possono derogare alla norma, ma le parti potrebbero. I principi del diritto privato nella contrattualizzazione del pubblico impiego consentono al datore di lavoro di regolarsi caso per caso a seconda delle proprie esigenze. Un orientamento diverso violerebbe l'autonomia organizzativa costituzionalmente riconosciuta agli enti locali.

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  2. Assolutamente no. Le norme del d.lgs 165/2001 sono tutte di carattere imperativo e quindi inderogabili. L'autonomia di diritto privato della PA è di gran lunga inferiore a quella degli altri soggetti e l'autonomia organizzativa degli enti locali non c'entra proprio nulla.

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  3. Se ho ben capito, questo fa riferimento alla mobilità volontaria. E per quanto riguarda quella per interscambio/compensazione?

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  4. È sempre possibile anche prima dei 5 anni di primo servizio

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