di Angelo Maria Savazzi
Ogni volta che sento dire che per rendere efficienti le amministrazioni pubbliche occorre utilizzare metodi e metriche in uso nelle aziende private, sento mancare le basi di un sereno confronto che consenta di capire quali siano le strategie necessarie per migliorare (dove c’è da migliorare) il sistema pubblico. Ma mi rifiuto di affrontare questo tema con chi come minimo non abbia letto alcuni testi che meglio di altri chiariscono le differenze di contesti, di finalità e di meccanismi di governo; fermo restando che un’osmosi completa tra pubblico e privato è solo un vagheggiare delle idee perché non potrà mai esserci così come non è presente nei sistemi che spesso, in modo inappropriato, vengono presi come esempio di tale presunta osmosi.
Le logiche
che governano i due sistemi sono completamente diverse, il privato è governato
dal mercato mentre il settore pubblico è governato dal meccanismo del consenso
e dell’efficacia delle politiche pubbliche, che sono alla base del sistema
democratico, e sono diverse le finalità (il profitto per i proprietari del
capitale in un caso, l’utilità sociale delle politiche pubbliche nell’altro).
Nel settore pubblico occorre dare conto dell’utilizzo delle risorse alla
comunità amministrata, nel settore privato il “proprietario” con i suoi soldi
fa quel che vuole. Nel settore pubblico vi sono regole e vincoli che sono posti
a tutela dell’interesse pubblico e generale, che non sono minimamente
ipotizzabili nel settore privato. Stefano Rodotà lo scrisse nel volume “Il
terribile diritto”: “la democrazia si ferma sulla soglia delle aziende
private”, e questo è l’elemento che rende impossibile pensare ad
una privatizzazione piena della pubblica amministrazione.
David Graeber scrive nel suo bellissimo libro “Burocrazia”
quanto segue: “qualche tempo fa mi è capitato di passare diverse ore al
telefono con la Bank of America per cercare di capire come accedere dall’estero
ai dai del mio conto. Ho parlato con quattro persone diverse, ho chiamato due
numeri inesistenti, ho ascoltato tre lunghe spiegazioni di regole complicate e
apparentemente arbitrarie e per due volte non sono riuscito a modificare il mio
vecchio indirizzo e il mio vecchio numero telefonico, che risultavano su
diversi sistemi informatici. Insomma, il classico girotondo burocratico”.
Penso che ognuno di noi avrà da raccontare esperienze di difficoltà di
interlocuzione con aziende private, governate, almeno teoricamente, secondo i
principi di efficienza e di efficacia, pieni di attenzione verso la
soddisfazione dei clienti; e spesso siamo costretti a ritornare sui nostri
passi, delusi proprio dall’assenza di attenzione verso i clienti, insoddisfatti
per la loro inefficienza e per la scarsa efficacia dei servizi per la
clientela. A me è capitato di recente di contestare una fatturazione errata da
parte di un fornitore di servizi telefonici e ho vissuto sulla mia pelle la
difficoltà di interlocuzione con il servizio clienti il quale, non essendo io
più loro cliente, non forniva alcun supporto e non mi indicava alcuna strada
alternativa. Contesto l’esistenza di una clausola contrattuale e chiedo in
mille modi la prova dell’esistenza della clausola, ma inutilmente. L’unico modo
per parlare con un interlocutore adeguato è la conciliazione avviata grazie al
Corecom (struttura pubblica), ma in questo caso l’interlocutore si rifiuta di
fornire la prova dell’esistenza della clausola contestata sostenendo che quella
non era la sede per la formazione della prova e che avrei dovuto chiederla
formalmente; a nulla è servito evidenziare che avevo già percorso tutte le strade
possibili ma senza esito. E intanto, continuano ad inondarmi di messaggi e
telefonate con offerte varie per farmi tornare alle loro “dipendenze” e se
faccio presente che ho un contenzioso aperto mi rispondono che loro non ne
sanno niente e non possono essermi utili. Ho impiegato circa tre anni per avere
lo storno di un errato addebito dalla mia banca (anch’essa azienda privata) e
ogni volta mi chiedevano di rifare la richiesta.
Melania Mazzucato nel suo libro “Lo stato innovatore” ci
spiega come solo grazie agli imponenti investimenti pubblici si sono poste le
basi delle significative innovazioni che nel ventesimo secolo hanno accompagnato
la nostra vita e sulle cui basi si sono potute sviluppare importanti multinazionali
che hanno potuto “sfruttare” le ricerche finanziate dal settore pubblico (la
rete internet, per esempio).
Vorrei sintetizzarla così, burocrazia non è sinonimo di
pubblico; è un fenomeno più complesso e pervasivo che riguarda tutti i
contesti della nostra vita quotidiana e non può essere legata alla mera azione
del dipendente pubblico. David Graeber la chiama l’”utopia delle regole”,
quelle per cui le “burocrazie sono forme utopiche di organizzazione: fanno
richieste che secondo loro sono ragionevoli, fissando standard impossibili, e
poi danno colpa ai singoli perché non riescono a rispettarli”. Per cui ad
un istituto di credito non puoi chiedere di accettare una interlocuzione con
documenti firmati digitalmente e trasmessi con posta elettronica certificata,
mentre nelle interlocuzioni con le pubbliche amministrazioni è ormai diventato
il modo ordinario di interloquire.
I luoghi comuni sono resistenti al
superamento, specialmente quando confondono competenze, responsabilità e
disfunzioni organizzative (e anche normative) con un generalizzato pregiudizio
nei confronti del dipendente pubblico, non di rado qualificato, con
superficialità e generalizzazione, come “fannullone”. Una generalizzazione che,
tuttavia, si scontra con la realtà, come quella che ancora stiamo vivendo in
questi mesi, in cui sono proprio i dipendenti pubblici in prima linea ad
affrontare una difficile pandemia (si pensi si dipendenti del comparto
sanitario), che si presenta con prospettive incerte sia sui tempi, che sulle
modalità di uscita; e allora il
lessico comune trasforma in eroi coloro che assolvono il proprio dovere con
“disciplina e onore”, esattamente come facevano prima e, come prima, sono
accompagnati, in questo difficile percorso, anche da colleghi che sanno bene
come utilizzare, in modo distorto e strumentale, gli istituti offerti
dall’ordinamento per tutelare particolari condizioni personali mediante il
riconoscimento di specifici diritti e tutele.
Il giudice Livatino era un dipendente
pubblico, così come lo erano il professor D’Antona e il commissario Calabresi. Sono dipendenti pubblici i nostri
docenti universitari, quelli a cui dobbiamo la formazione e gli insegnamenti,
il dipendente dell’Agenzia delle entrate che ti accoglie e riesce a dare una
risposta immediata ed efficace alle tue rimostranze, il dirigente del servizio
ambiente del Comune che, di fronte ad un’istanza di un gruppo di cittadini, la
esamina e si determina, nell’ambito delle sue competenze, per poi chiamarti e
comunicarti l’esito dell’istanza, e così via. È poi vero, realtà di tutti i
giorni, che vi sono dipendenti pubblici che incontri negli uffici e che sono
perennemente senza pratiche cui attendere o che utilizzano impropriamente gli
strumenti posti a tutela di specifiche condizioni personali o, ancora, che si
fanno timbrare il cartellino dal collega compiacente; ed è anche vero che
queste situazioni espongono le amministrazioni ad un impatto reputazionale
negativo, che forgia i luoghi comuni spregiativi e fa eco ad una diffusa tendenza
a generalizzare e categorizzare i dipendenti pubblici in una accezione solo ed
esclusivamente negativa.
Ma quante di queste situazioni
potrebbero essere limitate e superate, specie se si lavorasse per
l’abbandono effettivo, non solo nelle enunciazioni di principio, della
rigida gerarchia dell’ormai superato sistema del rapporto di lavoro pubblico e
dei vecchi arnesi della cultura “adempimentale” che, per anni, vi hanno
fatto capo, sostituendoli con un ampio, ma deciso lavoro condotto su di
un’accezione di “organizzazione” che sia in grado di liberare le intelligenze
di ogni suo componente (questa sarebbe la vera innovazione e il vero
cambiamento), in un contesto in cui il dirigente sia in grado di gestire
relazioni, di comprendere gli scenari, di gestire i gruppi di lavoro che
esprimono competenze e punti di vista diversi, di mettere in gioco capacità
organizzativa e un utilizzo efficace delle leve gestionali e delle risorse
disponibili e, per ultimo, ma non meno importante, mettere in campo un adeguato
livello di flessibilità? E allora forse si potrà comprendere che l’essere
“fannulloni” è una stretta conseguenza dei contesti ambientali ed organizzativi,
o ancora più spesso il frutto di una legislazione contorta, illeggibile e di
difficile applicazione, che favoriscono questo atteggiamento, più che
geneticamente incorporato nei singoli; e a tutti sarà capitato di vedere i
cambiamenti di persone, prima etichettate come “fannulloni”, per poi essere
parte di una organizzazione che li trasforma in protagonisti e parti importanti
di un processo, di un servizio e di un risultato. Certo, poi, rimane sempre un
nucleo di irriducibili verso i quali, comunque, l’ordinamento appresta gli
opportuni strumenti sanzionatori.
Ancora una volta la recente
esperienza, influenzata dall’esigenza di attivare misure per la limitazione
della diffusione pandemica del virus COVID-19, ci viene incontro per dimostrare
come assetti organizzativi, come il “lavoro agile”, che, per anni, sono rimasti
lettera morta nel dimenticatoio degli strumenti utilizzabili nei tempi dovuti, improvvisamente
sono divenuti ampiamente praticabili; questa, come altre, potrebbe
assurgere a plastica dimostrazione che i cambiamenti hanno bisogno, affinché si
realizzino, di intelligenze e cambiamento degli approcci culturali e che non
è sufficiente introdurre un obbligo e poi collegarlo alla premialità perché si
realizzi e diventi effettivo. Infatti, oggi scopriamo i punti di forza del
lavoro agile e, all’improvviso, capiamo che non sempre è necessaria la presenza
sul luogo di lavoro e che, invece, spesso rappresentava un inconfessabile alibi
“adempimentale”.
Sgombrato il campo circa la presunta
comparabilità dei due sistemi possiamo senz’altro dire che l’inefficienza
alberga nel settore pubblico così come nel settore privato, e la scarsa
attenzione all’utente possiamo trovarla sia nel settore pubblico che nel
settore privato; poi capita spesso di incontrare nel settore pubblico persone
determinate, pieni di passione, e professionalità e di orgoglio di lavorare per
migliorare il sistema pubblico.
I sistemi
valutativi
Sulla base di
questa presunta osmosi assistiamo all’assurdo di sistemi valutativi costruiti
per valutare i singoli sganciati completamente da quella che è la realtà dei
contesti delle amministrazioni pubbliche. Per cui siccome sono il presupposto
per l’erogazione degli istituti premiali, diventano artificiosi adempimenti. Il regime della
“produttività” nel sistema pubblico ha fatto la sua comparsa più di trent’anni
fa e dall’esame dell’evoluzione normativa risulta abbastanza evidente che la
sua disciplina, nell’ambito dei diversi sistemi contrattuali che ha, nel tempo,
attraversato, è permeata dalla reiterazione di medesimi principi che sono poi
quelli che stentano, nei decenni, ad essere completamente e correttamente
applicati, se non nella forma, certamente nella sostanza. Il premio di
produttività, infatti, nasce nella logica, ben presente negli anni ottanta, di
incrementare l’efficienza delle strutture pubbliche, nel segno di un recupero
di produttività e di efficienza, funzionali a supportare il tessuto economico e
produttivo del territorio. Ebbene, a giudicare gli effetti che un trentennio di
applicazione dell’istituto ha prodotto, se si vuole esprimere un giudizio
esente da qualsiasi retaggio culturale, ideologico o solo strumentale, la mission di tale componente economica
incentivante non ha pienamente conseguito i risultati che si prefiggeva, risolvendosi,
spesso, in un riconoscimento generalizzato, diffuso, indiscriminato,
consolidato e lontano da ogni legame con i canoni della buona amministrazione.
Le ragioni di un generale fallimento di sistema, probabilmente,
sono da ricercare in diverse direttrici: norme fortemente permeate dalla
cultura adempimentale che pure vorrebbero superare, logiche di sistemi
valutativi che non intercettano correttamente i risultati significativi e
rilevanti, sia a causa del loro scorretto utilizzo, sia per la incertezza
definitoria dei diversi livelli di misurazione e valutazione e sia per
l’inadeguatezza dei presìdi, quali gli organismi di valutazione, in alcuni casi
poco professionali, non autonomi e non adeguati.
Il volume di spesa che tale sistema erogativo produce, pur in
presenza dei noti limiti al trattamento accessorio che lo accompagna ormai da
diversi anni, continua ad autoalimentarsi e a rigenerarsi in un sistema di
tendenziale autoreferenzialità, spesso non producendo alcuna marginale utilità
sociale, che non sia la mera
distribuzione di risorse pubbliche. A tutto ciò, poi, si aggiunga l’ulteriore
profilo costituito dagli oneri direttamente ed indirettamente sostenuti per la
distribuzione degli istituti premiali, funzionali all’attivazione di presidi
che, molto spesso, sono a servizio della mera legittimazione del “sistema”.
Appare significativo, infatti, come le risorse economiche destinate, nel tempo,
a finanziarie il sistema di produttività abbia generato, nella più ottimistica
delle ipotesi, limitati effetti migliorativi dell’assetto produttivo pubblico -
laddove, già di per sé, il rapporto costi-benefici sarebbe tutto da esaminare e
valutare scrupolosamente – ma, ancor più, tale sistema, molto radicato nella
vita degli Enti, potrebbe essere ritenuto funzionale a costruire, in modo
spesso simulato, un’utile motivazione ed un corretto sistema di gestione; in
altri termini, quindi, appare spesso funzionale a sostenere un meccanismo
organizzativo che ha la necessità di apparire legittimo e corretto proprio in
funzione di rendere apparentemente utile la relativa spesa.
Un meccanismo non sempre virtuoso
A tal proposito, si pensi alla filiera di governo di questo
istituto e alle modalità con le quali tale filiera viene concretamente gestita
ogni anno, da trent’anni a questa parte, nella stragrande maggioranza delle
Amministrazioni Pubbliche, pochissime escluse: si definiscono obiettivi che
mancano dei requisiti minimali di miglioramento e con motivazioni poco
convincenti; i meccanismi di controllo interno, quando la misurazione non è
affidata, in modo autoreferenziale, alle medesime strutture che definiscono gli
obiettivi, si attivano alla ricerca di indicatori di risultato più o meno
attendibili, la cui misurazione, peraltro, non è basata su fonti stabili e
certe; i risultati non sono sempre funzionali al recupero di efficienza e,
quando lo potrebbero essere, costituiscono un “alibi” per concentrare
l’attività solo sugli obiettivi ai quali è legata la retribuzione accessoria di
natura incentivante, trascurando i restanti compiti affidati in relazione alla
propria posizione nella struttura organizzativa; gli organismi di valutazione
operano le proposte valutative e, quando non sono pienamente aderenti alle
aspettative, vengono fatti oggetto di azioni mirate finalizzate a minarne la
credibilità e l’autorevolezza; le parti contrattuali negoziano, a livello
decentrato integrativo, i criteri di impianto e di gestione dell’istituto
economico, con appositi incontri che, non di rado, si prolungano in
interminabili diatribe che hanno la sola finalità di consentire processi di
cogestione; i dirigenti sono chiamati nuovamente in campo per effettuare le
valutazioni di rendimento soggettivo e oggettivo di ciascun dipendente
assegnato, mediante la redazione di appositi prospetti valutativi che
rassegnano il valore di ciascuno, sovente mediati da colloqui con i dipendenti
stessi nel corso dei quali vengono illustrate le motivazioni che presiedono il
valore indicato; la valutazione operata dal dirigente spesso origina
incomprensioni e dissidi interni, soprattutto di natura comparativa, conflittualità
diffusa i cui costi nessuno si è curato, ad oggi, di rilevare, ma che
scomodano gli apparati interni chiamati a dirimere le questioni insorte o, in
taluni casi, approdano direttamente alle aule giudiziarie; altri adempimenti,
poi, vengono variamente introdotti e gestiti dalle singole Amministrazioni per
la conduzione a regime di tale istituto.
Tutto da rifare?
Se i costi di un sistema che le Amministrazioni Pubbliche hanno
sostenuto e continuano a sostenere ancor oggi per alimentare una parodia
della produttività, intesa quale premio economico per incentivare il
miglioramento della produzione nel settore pubblico, non ha consentito il
recupero di efficienza, laddove necessario, non è, forse, il caso di pensare ad
una nuova impalcatura che consenta l’erogazione dei medesimi valori complessivi
senza appesantimenti procedurali?
Non è forse il caso di pensare a pochi e significativi indicatori
in grado di valorizzare i contesti che già sono di eccellenza, senza, invano,
chiedere ancora miglioramenti (a parità di risorse) ma semplicemente chiedendo
di puntare a mantenere il livello di eccellenza e negoziando i target non la
misurazione dei fenomeni? Amministrazioni che forniscono gli stessi servizi
possono essere valutati in modo diretto sulla misurazione di fenomeni
comparabili e rispetto a questi definire, laddove necessario, i miglioramenti
verso cui tendere. Già oggi i parametri finanziari rendono comparabili enti
della stessa tipologia; se si estendesse tale comparazione ad altri fenomeni,
correlati ai servizi e ai processi presidiati dalle amministrazioni pubbliche,
vi sarebbe spazio per definire quando l’amministrazione può qualificarsi una
buona amministrazione o addirittura eccellente.
L’attuale sistema, invece, consente di generare valutazioni ottimali
sia in enti i cui gli indicatori qualificanti sono eccellenti e sia in enti
pessimi sia dal punto di vista della reputazione che dei risultati. Allora pensiamoci bene, in qualsiasi contesto se i risultati
sono pessimi non vi può essere premialità, se i risultati sono ottimi, in
termini di qualità dei servizi restituiti alla comunità amministrata, allora
certo che vi può essere una distribuzione di risorse premiali.
Le criticità e gli aspetti sui quali agire sono: 1) aver lasciato
libere le amministrazioni di definire obiettivi misurati attraverso il numero
di riunioni o la predisposizione di bozze di documenti vari, senza intercettare
la qualità e il livello dei servizi, anche in rapporto ad amministrazioni della
stessa tipologia; 2) aver lasciato libertà nella definizione di sistemi di
misurazione e valutazione a dir poco creativi che non restituiscono nulla in
termini di risultati e focalizzano l’attenzione su una impossibile oggettività
di misurazione di fenomeni che poi si risolvono nella mera autodichiarazione da
parte degli interessati, senza che venga esercitata una adeguata azione di
presidio del sistema; 3) chiedere che i risultati debbano “tendere al
miglioramento della qualità dei servizi e degli interventi” non hanno
nessun significato in contesti che restituiscono già risultati ottimali o
addirittura eccellenti e che proprio per questo occorre premiare più di altre;
4) le priorità politiche devono essere orientate a migliorare la qualità dei
servizi quando questa non è adeguata, senza che possano costituire alibi per
obiettivi improbabili e comunque in modo che costituiscano un vincolo per gli
organi direzione politica, come lo è, per esempio, il rispetto degli equilibri
di bilancio 5) l’utilizzo di algoritmi sofisticati costituiscono una trappola
per i sistemi valutativi perché non danno la giusta attenzione agli aspetti
effettivamente rilevanti; 6) i sistemi di misurazione delle performance
devono essere costruiti quali strumenti di supporto alle decisioni e devono
focalizzare l’attenzione su pochi fenomeni significativi da misurare e
interpretare, sulla loro coerenza interna, sull’affidabilità delle misurazioni,
sulla tempestività dei dati.
Tanto nessuno leggerà mai le rigorose riflessioni di cui sopra, e tutti continueranno, in primis i politicanti, gli aspiranti tali, i giornalisti a praticare i soliti luoghi comuni dovuti all'ignoranza secondo cui "il privato è meglio, sempre, e il pubblico è sinonimo di inefficienza e privilegio, sempre". Ma lo stigma del "fannullone" viene riservato solo ai rami "bassi", alla plebe della PA, nessuno si sognerebbe mai di usarlo per indicare le elites della PA: docenti universitari, magistrati, diplomatici, prefetti, alti dirigenti,medici, etc.
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