Il medico di condizione libera, invece, generalmente cura
e indaga le malattie dei liberi e studiandole dal principio secondo la natura e
facendone partecipe il malato e i suoi cari impara qualcosa egli stesso dai
malati e nel contempo impartisce nozioni all’infermo per quanto gli è possibile,
e non dà alcuna prescrizione prima di averlo convinto: solo allora, rendendo
docile l’ammalato tramite la persuasione e un’assidua preparazione, cerca di
restituirlo alla perfetta salute (Platone, Le Leggi, libro IV).
Molte volte si è fatto ricorso alla tecnica retorica del richiamo di questo passo delle leggi di Platone nell’ambito dei dibattiti sull’opportunità o meno di imporre obblighi vaccinali.
Ma si tratta di una tecnica retorica del tutto effimera ed
ingannevole. Non pare avere alcun senso rifarsi ad una disquisizione sui
compiti del medico, da valutare alla luce dell’ordinamento giuridico, portata
avanti in una cultura arretratissima nella medicina e che ammetteva la schiavitù
e la differenziazione appunto tra i compiti del medico degli schiavi (intento
ad assicurare terapie obbligatorie nell’interesse del padrone degli schiavi a
che questi continuassero nei loro lavori senza soste), e quelli del medico dei
liberi, che, non obbligati ad attività lavorative per un padrone, potevano essere
condotti alla terapia dal e col ragionamento, non con l’imposizione.
Il dibattito sugli obblighi vaccinali è cosa delicatissima,
per gli interessi ed i diritti in gioco, specie quelli fondamentali della
persona: per questo sarebbe bene affrontarlo senza retorica e senza ricorrere a
facili conclusioni, specie se legati alla “conservazione” di una realtà in
atto, pur sapendo che l’attuale fotografia è solo un fotogramma tra i tanti
altri che succederanno e che tramuteranno la realtà in atto in una in fieri, obbligando
a tenere conto dei possibili futuri sviluppi.
Dunque, se da un lato è corretto affermare che attualmente,
per l’indisponibilità generalizzata dei vaccini e per l’assenza di uno studio
ampio, soprattutto nel tempo, degli effetti immunizzanti, una legge che imponga
l’obbligo vaccinale non è opportuna; dall’altro lato, con l’evolversi del piano
vaccinale in rapporto all’andamento della pandemia non è certo da poter escludere
(per quanto si auspichi che non sia necessario) un futuro obbligo.
Allora, quel che oggi, nella situazione attuale, è opportuno
è chiarire, senza confusione di piani e di grandezze, quel che è possibile.
Di certo, è possibile, anzi auspicabile, una campagna di
informazione ampia, corretta, profonda e tecnicamente neutrale, per fornire ai
cittadini elementi finalizzati ad una consapevole formazione di una volontà di vaccinarsi.
Il Presidente della Repubblica, nel discorso del 31.12.2020
ha considerato il vaccinarsi come un “dovere”. Ovviamente, si tratta di un
dovere etico e civico, attualmente non previsto o imposto da nessuna norma. Sarebbe
importante che il vaccinarsi fosse considerato come “dovere” dalla stragrande
maggioranza dei cittadini, sì da non dover rendere necessaria una legge che lo
imponga come obbligo. Una Nazione incapace di riconoscere i doveri e che
necessiti di imposizioni normative per attuarli ha, nel suo nucleo, evidenti
problemi di tenuta.
Fermo quanto sopra, è bene iniziare a fornire qualche
risposta. Per quanto non auspicabile, l’imposizione del vaccino come obbligo è
certamente possibile.
In questi giorni sono apparse una serie di letture ed interpretazioni
dell’articolo 32 della Costituzione totalmente senza appiglio, tendente a
considerarlo come fonte di un insopprimibile diritto individuale a rifiutare
ogni trattamento sanitario.
L’articolo 32 della Costituzione, invece, prevede
espressamente la possibilità di imporre obblighi vaccinali, condizionandoli
alla “riserva di legge”, cioè stabilendo che possano essere disposti solo con
una legge, che contemperi, comunque, tali obblighi col dovere di non violare i
limiti imposti dal rispetto della persona umana, tra i quali limiti quello di
non trasformare le persone in cavie e di prevedere risarcimenti nel caso di
danni permanenti alla persona direttamente discendenti dal vaccino.
Dunque, nella situazione in divenire, laddove l’andamento
delle vaccinazioni dovesse rivelarsi insoddisfacente, la pandemia continuare a
persistere, l’efficacia dei vaccini maggiormente compresa e valutata, nulla
impedisce di approvare una legge che imponga la vaccinazione come obbligo.
Il dibattito si è, inoltre, molto concentrato sul quello che
risulti possibile ora e, in particolare, se già adesso vi siano strumenti per “obbligare”
a vaccinarsi.
Si è largamente fatto riferimento, quindi, all’articolo 2087
del codice civile, quale possibile fonte dell’imposizione di tale obbligo.
Non si può fare a meno di rilevare che il dibattito sia
impostato su alcuni clamorosi equivoci, che portano a mischiare tra loro piani
argomentativi del tutto inconciliabili tra essi e paralleli.
In questa
intervista, il costituzionalista Michele Ainis non si mostra convinto di
quanto ha indicato
pochi giorni prima il giuslavorista Pietro Ichino in merito alla questione,
affermando: “Per una volta mi sento in disaccordo con Ichino. Non si può
costruire in termini civilistici questa problematica che è invece
pubblicistica. Cioè, se il lavoratore, decidendo di non vaccinarsi sta
esercitando un proprio diritto, allora non si può certo licenziarlo. Io
credo che sia ragionevole immaginare che la vaccinazione avvenga su base
volontaria. Ho molti dubbi sull’obbligo praticato sui dipendenti pubblici, che
spesso lavorano in condizioni di assoluta sicurezza. Dopodiché, se in una
seconda fase ci accorgessimo che gli italiani non ne vogliono sapere, o che non
si riesca a raggiungere l’immunità di gregge ( con il 70% di popolazione
vaccinata, ndr), si potrebbe stabilire l’obbligo, anche generalizzato”.
Ci pare, con tutto il rispetto, che appunto il prof. Ainis abbia
confuso e sovrapposto piani che tra di loro sono del tutto separati.
L’errore che appare molto diffuso è quello della confusione
proprio del piano pubblicistico con quello civilistico e, di conseguenza, della
distinzione tra obbligo ed obbligazione.
Il piano pubblicistico è quello di cui si cura l’articolo 32,
che contiene i principi ai quali debba conformarsi un’eventuale legge che
imponga l’obbligo del vaccino. Un obbligo stabilito dalla legge, in quanto
tale, ha natura appunto pubblica (in quanto imposto dal Parlamento in via
generale ed astratta e non ha come fonte una pattuizione tra privati) ed ha
valore erga omnes: si applica, cioè, indistintamente a tutti i cittadini
(salvo possibili eccezioni predeterminate dalla stessa legge), senza alcuna connessa
al loro status.
Il piano civilistico, invece, è all’opposto quello della
regolazione di rapporti tra privati, che avviene mediante contratti, i quali
non sono fonte di obblighi erga omnes, bensì di obbligazioni intra
partes, cioè intercorrenti solo tra le parti contraenti. Lo specifica con
chiarezza l’articolo 1372 del codice civile, ai sensi del quale il contratto ha
forza di legge tra le parti e non produce effetto rispetto ai terzi che nei
casi previsti dalla legge.
Quindi, l’affermazione del prof. Ainis è, sostanzialmente, suggestiva,
ma vuota di contenuti: infatti è del tutto ovvio e conclamato nell’ordinamento giuridico
non possa essere imposto per via contrattuale e, segnatamente nell’ambito del
rapporto di lavoro, un obbligo a valenza pubblicistica, che vada a ledere un
diritto.
Detto in termini più semplici: l’articolo 2087 del codice
civile non è certo da considerare fonte normativa di un obbligo di vaccinazione.
Ma, senz’altro, invece, è fonte normativa di chiusura ordinamentale del
fondamento di un’obbligazione contrattuale da adempiere attraverso la
vaccinazione, se tale misura risulti necessaria ai fini di una corretta
prestazione di lavoro che risulti conforme alle più aggiornate ed opportune
misure di sicurezza aziendali, allo scopo di prevenire rischi sia all’interno
dei locali produttivi, sia all’esterno, nei rapporti con l’utenza.
L’articolo 2087 del codice civile dispone: “l’imprenditore
è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la
particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare
l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Ora, non è il caso di ridurre la portata di questa norma
esclusivamente all’ovvio e allo scontato. E’ del tutto evidente che l’imprenditore
è obbligato ad adottare misure di sicurezza tassativamente imposte dalla legge:
dunque, laddove il Parlamento adottasse una legge che obblighi alla vaccinazione
contro il Covid-19 si risolverebbe evidentemente ogni dubbio: non solo ogni
cittadino sarebbe obbligato, ma anche ciascun datore dovrebbe disporre in modo da
assicurarsi che prestino attività lavorativa alle proprie dipendenze
esclusivamente persone vaccinate.
Tuttavia, la portata dell’articolo 2087 è più ampia. Il datore,
infatti, non è solo chiamato ad attuare le misure predeterminate in generale
dalla legge, ma anche a disporre quelle desunte dall’esperienza e dalla
tecnica.
Dunque, accanto alle misure obbligatorie per legge, il
datore può e deve introdurre misure dettate dalla comune prudenza fino anche ad
introdurne di ulteriori, laddove in concreto si rendano necessarie per lo
svolgimento della propria attività.
Andiamo, quindi, a situazioni concrete: lavoratori nelle Rsa
(che comprendono non solo medici o infermieri o operatori socio sanitari, ma
anche addetti alle pulizie e manutentori, custodi e assistenti sociali, per
esempio). Può il datore di lavoro di strutture a stretto contatto con un’utenza
inferma o molto debole, falcidiata nei mesi scorsi dal virus, non considerare necessario
che il personale, una volta disponibile il vaccino, eserciti il diritto a non vaccinarsi,
senza adottare misure ed accorgimenti conseguenti?
Qui è il complesso crinale da affrontare. Il diritto di non
vaccinarsi, cioè, è così assoluto da incidere anche sui rapporti contrattuali
tra datore e lavoratore, rendendo quest’ultimo arbitro assoluto dei modi e
delle condizioni al ricorrere delle quali espletare la propria prestazione? Pare
proprio se ne possa e debba dubitare.
La soluzione al problema non è limitarsi ad enunciare la
sussistenza di un diritto a non vaccinarsi in assenza di una legge che obblighi
il vaccino, ma verificare le possibili conseguenze appunto sul distinto piano
civilistico dell’inadempimento ad una disposizione organizzativa datoriale alla
luce della quale la prestazione risulti condizionata alla vaccinazione.
In primo luogo, è giusto evidenziare che non ogni datore potrebbe
lecitamente condizionare l’espletamento di prestazioni lavorative alla vaccinazione
per ogni mansione: è chiaro che occorre una corretta ponderazione del rischio,
connessa all’attività lavorativa specifica.
Scontato che nelle strutture sanitarie e in laboratori il
datore ha certamente la possibilità di condizionare la prestazione al vaccino, l’esempio
proposto prima delle RSA dimostra che non necessariamente tale obbligo sia da
riconnettere solo al particolare rischio biologico o alla sola rischiosità del
lavoro per i dipendenti: la pandemia implica anche l’assunzione di
responsabilità per rischi dell’utenza.
Se, allora, come pare, il datore dispone, proprio ai sensi
dell’articolo 2087 del codice civile, del potere di stabilire che l’espletamento
di una determinata mansione sia condizionato alla vaccinazione, occorre
comprendere quali possano essere le conseguenze dell’inadempimento alla
direttiva datoriale da parte del lavoratore che opponga il diritto a non
vaccinarsi.
Pare opportuno qui evidenziare che, proprio perché manca una
legge sull’obbligo vaccinale, il lavoratore resta in effetti libero di non
vaccinarsi.
Il datore non può, in astratto, conculcare questa libertà, perché
appunto il separato piano pubblicistico non consente di introdurre un obbligo.
Né troppo semplicisticamente il problema della conciliazione
di esigenze organizzative che presuppongano la vaccinazione con la libertà di
autodeterminazione del lavoratore pare si possano ridurre alla conseguenza del
licenziamento, come rimedio per l’inadempimento alla direttiva datoriale: è
chiaro che passare dalla prescrizione del vaccino quale presupposto per lo
svolgimento della mansione direttamente al licenziamento è solo una forzatura,
derivante anche dalla sintesi con la quale i media stanno affrontando la
questione, sintesi alla quale sono portati anche interlocutori del calibro di
professori del livello di Ainis e Ichino, i quali se avessero tempo e spazio
per esplicitare il proprio pensiero scenderebbero in specificazioni impossibili
nei limiti stretti della comunicazione giornalistica.
Il prof. Ainis non può, per esempio, non sapere che, a
proposito delle conseguenze penali in capo al datore di lavoro che non adempia
correttamente ai doveri imposti dalla normativa sulla sicurezza (che si aggancia
inscindibilmente all’articolo 2087 del codice civile), si è pronunciata la Cassazione
penale, Sezione IV, con la sentenza 5 febbraio 1991, n.1170, secondo la quale, se
necessario, “le misure di sicurezza vanno attuate dal datore di lavoro anche
contro la volontà del lavoratore”.
Dunque, il lavoratore può certo rifiutarsi di vaccinarsi, ma
il datore di lavoro sarebbe in ogni caso obbligato ad attuare le misure di
sicurezza: laddove queste imponessero il vaccino, il datore non potrebbe certo
consentire al lavoratore di continuare a svolgere quelle mansioni per le quali
il vaccino sia ritenuto necessario.
Questa conclusione è quella alla quale intendeva giungere il
prof. Ichino nella sua valutazione sulla situazione in atto.
La libertà di non vaccinarsi, quindi, ostentata dal
lavoratore va certamente a produrre conseguenze sull’obbligazione lavorativa
contratta. Conseguenze che vanno imputate alla scelta, appunto, di avvalersi di
una libertà che, se potestativa sul piano pubblicistico, in quanto in assenza
di una legge nemmeno il datore può ovviamente coartare il lavoratore a
vaccinarsi, è invece condizionata alla modalità di adempimento, nell’ambito del
rapporto negoziale col datore. Il lavoratore che si rifiuti, legittimamente sul
piano costituzionale, di vaccinarsi sa che sul piano civilistico questo determina
conseguenze sul rapporto di lavoro.
Non pare, allo scopo, troppo utile osservare che il datore
di lavoro non possa considerarsi, nell’attuale situazione, obbligato a subordinare
alla vaccinazione determinate mansioni, laddove sia già in regola con il
Protocollo sulla sicurezza.
L’articolo 29-bis del d.l. 23/2020, convertito in legge
40/2020 prevede che “ai fini della tutela contro il rischio di contagio da
COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui
all'articolo 2087 del codice civile mediante l'applicazione delle prescrizioni
contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il
contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di
lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e
successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida
di cui all'articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33,
nonché mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste.
Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure
contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni
sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
Si potrebbe osservare, infatti, che se il datore rispetta le
disposizioni del Protocollo, non può essere chiamato a risponderne penalmente,
sicchè la previsione del vaccino come misura ulteriore non troverebbe supporto
normativo e si potrebbe considerare eccessiva e vessatoria in un eventuale giudizio.
E, però, l’articolo 279, comma 2, del d.lgs 81/2008, il
testo unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di
lavoro, dispone:
“Il datore di lavoro, su conforme parere del medico
competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i
quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di
protezione, fra le quali:
a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per
quei lavoratori che non sono già immuni all'agente biologico presente nella
lavorazione, da somministrare a cura del medico competente;
b) l'allontanamento temporaneo del lavoratore
secondo le procedure dell'articolo 42”.
La disponibilità del vaccino, inesistente al momento della
predisposizione dei Protocolli adottati all’epoca dell’emanazione del d.l.
23/2020 cambia radicalmente il quadro, confermando la necessità di non soffermarsi
solo sulla situazione “in atto”.
I datori, adesso, dispongono del vaccino (si potrebbe solo,
attualmente, ancora disquisire sulla circostanza che siano comprovatamente “efficaci”):
nulla impedisce, quindi, di aggiornare i Protocolli aziendali, sulla base di un’indicazione
del medico competente, prevedendo appunto il vaccino come misura di cautela e
massima prudenza necessaria, cosa che fino a qualche giorno fa non era
possibile.
Fermo restando il diritto del lavoratore a non vaccinarsi,
allora, scattano le misure previste dall’articolo 42 del d.lgs 81/2008: “Il
datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12
marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6,
attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano
un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a
mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il
trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”.
Come minimo, quindi, la relazione contrattuale lavoristica
consente al datore l’adozione di “misure conservative”, cioè l’adibizione del
lavoratore ad attività che non richiedano la vaccinazione, anche se comportanti
mansioni inferiori.
Naturalmente, questo non sempre è possibile. Le mansioni del
personale medico e sanitario in una Rsa possono essere svolte solo da tale
personale: la carenza di qualche figura, da un lato, renderebbe difficilissima
se non impossibile l’assegnazione ad altre mansioni, dall’altro obbligherebbe
il datore a cercare di coprire vuoti di organico determinati da lavoratori che
rifiutino il vaccino, con assunzioni e, quindi, maggiori costi.
C’è da evidenziare che laddove l’inidoneità del lavoratore
derivasse dalla rivendicazione del diritto a non vaccinarsi e, quindi, non da
una situazione oggettiva connessa ad una particolare condizione di salute, parrebbe
applicabile non tanto la lettera b) dell’articolo 279, comma 2, del d.lgs 81/2008,
quanto il testo novellato dell’articolo 2013 del codice civile in tema di demansionamento[1], ai
sensi del quale “il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena
di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di
inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione
per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento
della precedente prestazione lavorativa”. Un demansionamento connesso
allo svolgimento di prestazioni in ambito sanitario difficilmente, alla luce di
questa disposizione, permetterebbe l’integrale conservazione della retribuzione,
in quanto gli elementi sinallagmatici del contratto verrebbero in larga parte a
saltare.
C’è, però, ulteriormente da evidenziare che (Maurizio Del
Nevo, “I vaccini in medicina del lavoro: esenzioni e consenso”) “un
lavoratore esposto a rischio biologico che lavori senza essere preventivamente
vaccinato, rappresenta per il datore di lavoro una situazione di pericolo
permanente e «conoscibile» che fa automaticamente sorgere un corrispondente e
tassativo obbligo per l’imprenditore di attivarsi e ridurre prontamente al
minimo tecnicamente fattibile il rischio. Pertanto, in tal caso, così come per le
altre misure di sicurezza sul lavoro, il datore di lavoro ha l’obbligo di
richiamare anche disciplinarmente il lavoratore che rifiutasse tale
vaccinazione. Diversamente, infatti, qualora si concedesse al lavoratore la
arbitraria possibilità di rifiutare la vaccinazione, l’art.2087 del c.c. si trasformerebbe
in una illegittima fonte di responsabilità oggettiva per il datore di lavoro:
se il datore di lavoro è tenuto per legge ad adottare tutte le misure
“necessarie” per la tutela dei dipendenti, è ovvio come egli debba potere fare
ciò senza ingerenze o limitazioni”.
Sanzioni anche disciplinari “conservative”, quali la
sospensione, non pare possano quindi essere del tutto escluse. Come anche un
giustificato motivo soggettivo che possa condurre in casi estremi al
licenziamento.
Ovviamente, senza alcuna semplificazione eccessiva e senza
alcun automatismo. Ma, le considerazioni del prof. Ichino non si prestano ad
essere qualificate come puramente e semplicemente da non prendere in
considerazione.
[1]
In tema di obblighi di protezione ex art. 2087 c.c. trova applicazione il
medesimo principio espresso in riferimento al demansionamento illegittimo, nel
senso che il giudice di merito, oltre a sanzionare l'inadempimento dell'obbligo
da parte del datore di lavoro con la condanna al risarcimento del danno, può
emanare una pronuncia di adempimento in forma specifica, di contenuto
satisfattorio dell'interesse leso, che condanni il datore ad affidare al
lavoratore mansioni confacenti alle condizioni di salute e riconducibili a
quelle già assegnate ovvero di contenuto equivalente; tale obbligo è
derogabile solo nel caso in cui il datore provi l'impossibilità di ricollocare
utilmente il lavoratore nell'azienda, secondo l'assetto organizzativo
insindacabilmente stabilito dall'imprenditore.
(Cassazione civile, Sez. Lavoro, sentenza n. 20080 del
30 luglio 2018)
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