domenica 3 gennaio 2021

Vaccini tra obblighi ed obbligazioni. Un sistema complesso che non si presta a semplificazioni e generalizzazioni

 

 

Il medico di condizione libera, invece, generalmente cura e indaga le malattie dei liberi e studiandole dal principio secondo la natura e facendone partecipe il malato e i suoi cari impara qualcosa egli stesso dai malati e nel contempo impartisce nozioni all’infermo per quanto gli è possibile, e non dà alcuna prescrizione prima di averlo convinto: solo allora, rendendo docile l’ammalato tramite la persuasione e un’assidua preparazione, cerca di restituirlo alla perfetta salute (Platone, Le Leggi, libro IV).

Molte volte si è fatto ricorso alla tecnica retorica del richiamo di questo passo delle leggi di Platone nell’ambito dei dibattiti sull’opportunità o meno di imporre obblighi vaccinali.

Ma si tratta di una tecnica retorica del tutto effimera ed ingannevole. Non pare avere alcun senso rifarsi ad una disquisizione sui compiti del medico, da valutare alla luce dell’ordinamento giuridico, portata avanti in una cultura arretratissima nella medicina e che ammetteva la schiavitù e la differenziazione appunto tra i compiti del medico degli schiavi (intento ad assicurare terapie obbligatorie nell’interesse del padrone degli schiavi a che questi continuassero nei loro lavori senza soste), e quelli del medico dei liberi, che, non obbligati ad attività lavorative per un padrone, potevano essere condotti alla terapia dal e col ragionamento, non con l’imposizione.

Il dibattito sugli obblighi vaccinali è cosa delicatissima, per gli interessi ed i diritti in gioco, specie quelli fondamentali della persona: per questo sarebbe bene affrontarlo senza retorica e senza ricorrere a facili conclusioni, specie se legati alla “conservazione” di una realtà in atto, pur sapendo che l’attuale fotografia è solo un fotogramma tra i tanti altri che succederanno e che tramuteranno la realtà in atto in una in fieri, obbligando a tenere conto dei possibili futuri sviluppi.

Dunque, se da un lato è corretto affermare che attualmente, per l’indisponibilità generalizzata dei vaccini e per l’assenza di uno studio ampio, soprattutto nel tempo, degli effetti immunizzanti, una legge che imponga l’obbligo vaccinale non è opportuna; dall’altro lato, con l’evolversi del piano vaccinale in rapporto all’andamento della pandemia non è certo da poter escludere (per quanto si auspichi che non sia necessario) un futuro obbligo.

Allora, quel che oggi, nella situazione attuale, è opportuno è chiarire, senza confusione di piani e di grandezze, quel che è possibile.

Di certo, è possibile, anzi auspicabile, una campagna di informazione ampia, corretta, profonda e tecnicamente neutrale, per fornire ai cittadini elementi finalizzati ad una consapevole formazione di una volontà di vaccinarsi.

Il Presidente della Repubblica, nel discorso del 31.12.2020 ha considerato il vaccinarsi come un “dovere”. Ovviamente, si tratta di un dovere etico e civico, attualmente non previsto o imposto da nessuna norma. Sarebbe importante che il vaccinarsi fosse considerato come “dovere” dalla stragrande maggioranza dei cittadini, sì da non dover rendere necessaria una legge che lo imponga come obbligo. Una Nazione incapace di riconoscere i doveri e che necessiti di imposizioni normative per attuarli ha, nel suo nucleo, evidenti problemi di tenuta.

Fermo quanto sopra, è bene iniziare a fornire qualche risposta. Per quanto non auspicabile, l’imposizione del vaccino come obbligo è certamente possibile.

In questi giorni sono apparse una serie di letture ed interpretazioni dell’articolo 32 della Costituzione totalmente senza appiglio, tendente a considerarlo come fonte di un insopprimibile diritto individuale a rifiutare ogni trattamento sanitario.

L’articolo 32 della Costituzione, invece, prevede espressamente la possibilità di imporre obblighi vaccinali, condizionandoli alla “riserva di legge”, cioè stabilendo che possano essere disposti solo con una legge, che contemperi, comunque, tali obblighi col dovere di non violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana, tra i quali limiti quello di non trasformare le persone in cavie e di prevedere risarcimenti nel caso di danni permanenti alla persona direttamente discendenti dal vaccino.

Dunque, nella situazione in divenire, laddove l’andamento delle vaccinazioni dovesse rivelarsi insoddisfacente, la pandemia continuare a persistere, l’efficacia dei vaccini maggiormente compresa e valutata, nulla impedisce di approvare una legge che imponga la vaccinazione come obbligo.

Il dibattito si è, inoltre, molto concentrato sul quello che risulti possibile ora e, in particolare, se già adesso vi siano strumenti per “obbligare” a vaccinarsi.

Si è largamente fatto riferimento, quindi, all’articolo 2087 del codice civile, quale possibile fonte dell’imposizione di tale obbligo.

Non si può fare a meno di rilevare che il dibattito sia impostato su alcuni clamorosi equivoci, che portano a mischiare tra loro piani argomentativi del tutto inconciliabili tra essi e paralleli.

In questa intervista, il costituzionalista Michele Ainis non si mostra convinto di quanto ha indicato pochi giorni prima il giuslavorista Pietro Ichino in merito alla questione, affermando: “Per una volta mi sento in disaccordo con Ichino. Non si può costruire in termini civilistici questa problematica che è invece pubblicistica. Cioè, se il lavoratore, decidendo di non vaccinarsi sta esercitando un proprio diritto, allora non si può certo licenziarlo. Io credo che sia ragionevole immaginare che la vaccinazione avvenga su base volontaria. Ho molti dubbi sull’obbligo praticato sui dipendenti pubblici, che spesso lavorano in condizioni di assoluta sicurezza. Dopodiché, se in una seconda fase ci accorgessimo che gli italiani non ne vogliono sapere, o che non si riesca a raggiungere l’immunità di gregge ( con il 70% di popolazione vaccinata, ndr), si potrebbe stabilire l’obbligo, anche generalizzato”.

Ci pare, con tutto il rispetto, che appunto il prof. Ainis abbia confuso e sovrapposto piani che tra di loro sono del tutto separati.

L’errore che appare molto diffuso è quello della confusione proprio del piano pubblicistico con quello civilistico e, di conseguenza, della distinzione tra obbligo ed obbligazione.

Il piano pubblicistico è quello di cui si cura l’articolo 32, che contiene i principi ai quali debba conformarsi un’eventuale legge che imponga l’obbligo del vaccino. Un obbligo stabilito dalla legge, in quanto tale, ha natura appunto pubblica (in quanto imposto dal Parlamento in via generale ed astratta e non ha come fonte una pattuizione tra privati) ed ha valore erga omnes: si applica, cioè, indistintamente a tutti i cittadini (salvo possibili eccezioni predeterminate dalla stessa legge), senza alcuna connessa al loro status.

Il piano civilistico, invece, è all’opposto quello della regolazione di rapporti tra privati, che avviene mediante contratti, i quali non sono fonte di obblighi erga omnes, bensì di obbligazioni intra partes, cioè intercorrenti solo tra le parti contraenti. Lo specifica con chiarezza l’articolo 1372 del codice civile, ai sensi del quale il contratto ha forza di legge tra le parti e non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge.

Quindi, l’affermazione del prof. Ainis è, sostanzialmente, suggestiva, ma vuota di contenuti: infatti è del tutto ovvio e conclamato nell’ordinamento giuridico non possa essere imposto per via contrattuale e, segnatamente nell’ambito del rapporto di lavoro, un obbligo a valenza pubblicistica, che vada a ledere un diritto.

Detto in termini più semplici: l’articolo 2087 del codice civile non è certo da considerare fonte normativa di un obbligo di vaccinazione. Ma, senz’altro, invece, è fonte normativa di chiusura ordinamentale del fondamento di un’obbligazione contrattuale da adempiere attraverso la vaccinazione, se tale misura risulti necessaria ai fini di una corretta prestazione di lavoro che risulti conforme alle più aggiornate ed opportune misure di sicurezza aziendali, allo scopo di prevenire rischi sia all’interno dei locali produttivi, sia all’esterno, nei rapporti con l’utenza.

L’articolo 2087 del codice civile dispone: “l’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Ora, non è il caso di ridurre la portata di questa norma esclusivamente all’ovvio e allo scontato. E’ del tutto evidente che l’imprenditore è obbligato ad adottare misure di sicurezza tassativamente imposte dalla legge: dunque, laddove il Parlamento adottasse una legge che obblighi alla vaccinazione contro il Covid-19 si risolverebbe evidentemente ogni dubbio: non solo ogni cittadino sarebbe obbligato, ma anche ciascun datore dovrebbe disporre in modo da assicurarsi che prestino attività lavorativa alle proprie dipendenze esclusivamente persone vaccinate.

Tuttavia, la portata dell’articolo 2087 è più ampia. Il datore, infatti, non è solo chiamato ad attuare le misure predeterminate in generale dalla legge, ma anche a disporre quelle desunte dall’esperienza e dalla tecnica.

Dunque, accanto alle misure obbligatorie per legge, il datore può e deve introdurre misure dettate dalla comune prudenza fino anche ad introdurne di ulteriori, laddove in concreto si rendano necessarie per lo svolgimento della propria attività.

Andiamo, quindi, a situazioni concrete: lavoratori nelle Rsa (che comprendono non solo medici o infermieri o operatori socio sanitari, ma anche addetti alle pulizie e manutentori, custodi e assistenti sociali, per esempio). Può il datore di lavoro di strutture a stretto contatto con un’utenza inferma o molto debole, falcidiata nei mesi scorsi dal virus, non considerare necessario che il personale, una volta disponibile il vaccino, eserciti il diritto a non vaccinarsi, senza adottare misure ed accorgimenti conseguenti?

Qui è il complesso crinale da affrontare. Il diritto di non vaccinarsi, cioè, è così assoluto da incidere anche sui rapporti contrattuali tra datore e lavoratore, rendendo quest’ultimo arbitro assoluto dei modi e delle condizioni al ricorrere delle quali espletare la propria prestazione? Pare proprio se ne possa e debba dubitare.

La soluzione al problema non è limitarsi ad enunciare la sussistenza di un diritto a non vaccinarsi in assenza di una legge che obblighi il vaccino, ma verificare le possibili conseguenze appunto sul distinto piano civilistico dell’inadempimento ad una disposizione organizzativa datoriale alla luce della quale la prestazione risulti condizionata alla vaccinazione.

In primo luogo, è giusto evidenziare che non ogni datore potrebbe lecitamente condizionare l’espletamento di prestazioni lavorative alla vaccinazione per ogni mansione: è chiaro che occorre una corretta ponderazione del rischio, connessa all’attività lavorativa specifica.

Scontato che nelle strutture sanitarie e in laboratori il datore ha certamente la possibilità di condizionare la prestazione al vaccino, l’esempio proposto prima delle RSA dimostra che non necessariamente tale obbligo sia da riconnettere solo al particolare rischio biologico o alla sola rischiosità del lavoro per i dipendenti: la pandemia implica anche l’assunzione di responsabilità per rischi dell’utenza.

Se, allora, come pare, il datore dispone, proprio ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile, del potere di stabilire che l’espletamento di una determinata mansione sia condizionato alla vaccinazione, occorre comprendere quali possano essere le conseguenze dell’inadempimento alla direttiva datoriale da parte del lavoratore che opponga il diritto a non vaccinarsi.

Pare opportuno qui evidenziare che, proprio perché manca una legge sull’obbligo vaccinale, il lavoratore resta in effetti libero di non vaccinarsi.

Il datore non può, in astratto, conculcare questa libertà, perché appunto il separato piano pubblicistico non consente di introdurre un obbligo.

Né troppo semplicisticamente il problema della conciliazione di esigenze organizzative che presuppongano la vaccinazione con la libertà di autodeterminazione del lavoratore pare si possano ridurre alla conseguenza del licenziamento, come rimedio per l’inadempimento alla direttiva datoriale: è chiaro che passare dalla prescrizione del vaccino quale presupposto per lo svolgimento della mansione direttamente al licenziamento è solo una forzatura, derivante anche dalla sintesi con la quale i media stanno affrontando la questione, sintesi alla quale sono portati anche interlocutori del calibro di professori del livello di Ainis e Ichino, i quali se avessero tempo e spazio per esplicitare il proprio pensiero scenderebbero in specificazioni impossibili nei limiti stretti della comunicazione giornalistica.

Il prof. Ainis non può, per esempio, non sapere che, a proposito delle conseguenze penali in capo al datore di lavoro che non adempia correttamente ai doveri imposti dalla normativa sulla sicurezza (che si aggancia inscindibilmente all’articolo 2087 del codice civile), si è pronunciata la Cassazione penale, Sezione IV, con la sentenza 5 febbraio 1991, n.1170, secondo la quale, se necessario, “le misure di sicurezza vanno attuate dal datore di lavoro anche contro la volontà del lavoratore”.

Dunque, il lavoratore può certo rifiutarsi di vaccinarsi, ma il datore di lavoro sarebbe in ogni caso obbligato ad attuare le misure di sicurezza: laddove queste imponessero il vaccino, il datore non potrebbe certo consentire al lavoratore di continuare a svolgere quelle mansioni per le quali il vaccino sia ritenuto necessario.

Questa conclusione è quella alla quale intendeva giungere il prof. Ichino nella sua valutazione sulla situazione in atto.

La libertà di non vaccinarsi, quindi, ostentata dal lavoratore va certamente a produrre conseguenze sull’obbligazione lavorativa contratta. Conseguenze che vanno imputate alla scelta, appunto, di avvalersi di una libertà che, se potestativa sul piano pubblicistico, in quanto in assenza di una legge nemmeno il datore può ovviamente coartare il lavoratore a vaccinarsi, è invece condizionata alla modalità di adempimento, nell’ambito del rapporto negoziale col datore. Il lavoratore che si rifiuti, legittimamente sul piano costituzionale, di vaccinarsi sa che sul piano civilistico questo determina conseguenze sul rapporto di lavoro.

Non pare, allo scopo, troppo utile osservare che il datore di lavoro non possa considerarsi, nell’attuale situazione, obbligato a subordinare alla vaccinazione determinate mansioni, laddove sia già in regola con il Protocollo sulla sicurezza.

L’articolo 29-bis del d.l. 23/2020, convertito in legge 40/2020 prevede che “ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'articolo 2087 del codice civile mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all'articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.

Si potrebbe osservare, infatti, che se il datore rispetta le disposizioni del Protocollo, non può essere chiamato a risponderne penalmente, sicchè la previsione del vaccino come misura ulteriore non troverebbe supporto normativo e si potrebbe considerare eccessiva e vessatoria in un eventuale giudizio.

E, però, l’articolo 279, comma 2, del d.lgs 81/2008, il testo unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, dispone:

Il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali:

a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all'agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente;

b) l'allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell'articolo 42”.

La disponibilità del vaccino, inesistente al momento della predisposizione dei Protocolli adottati all’epoca dell’emanazione del d.l. 23/2020 cambia radicalmente il quadro, confermando la necessità di non soffermarsi solo sulla situazione “in atto”.

I datori, adesso, dispongono del vaccino (si potrebbe solo, attualmente, ancora disquisire sulla circostanza che siano comprovatamente “efficaci”): nulla impedisce, quindi, di aggiornare i Protocolli aziendali, sulla base di un’indicazione del medico competente, prevedendo appunto il vaccino come misura di cautela e massima prudenza necessaria, cosa che fino a qualche giorno fa non era possibile.

Fermo restando il diritto del lavoratore a non vaccinarsi, allora, scattano le misure previste dall’articolo 42 del d.lgs 81/2008: “Il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”.

Come minimo, quindi, la relazione contrattuale lavoristica consente al datore l’adozione di “misure conservative”, cioè l’adibizione del lavoratore ad attività che non richiedano la vaccinazione, anche se comportanti mansioni inferiori.

Naturalmente, questo non sempre è possibile. Le mansioni del personale medico e sanitario in una Rsa possono essere svolte solo da tale personale: la carenza di qualche figura, da un lato, renderebbe difficilissima se non impossibile l’assegnazione ad altre mansioni, dall’altro obbligherebbe il datore a cercare di coprire vuoti di organico determinati da lavoratori che rifiutino il vaccino, con assunzioni e, quindi, maggiori costi.

C’è da evidenziare che laddove l’inidoneità del lavoratore derivasse dalla rivendicazione del diritto a non vaccinarsi e, quindi, non da una situazione oggettiva connessa ad una particolare condizione di salute, parrebbe applicabile non tanto la lettera b) dell’articolo 279, comma 2, del d.lgs 81/2008, quanto il testo novellato dell’articolo 2013 del codice civile in tema di demansionamento[1], ai sensi del quale “il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa”. Un demansionamento connesso allo svolgimento di prestazioni in ambito sanitario difficilmente, alla luce di questa disposizione, permetterebbe l’integrale conservazione della retribuzione, in quanto gli elementi sinallagmatici del contratto verrebbero in larga parte a saltare.

C’è, però, ulteriormente da evidenziare che (Maurizio Del Nevo, “I vaccini in medicina del lavoro: esenzioni e consenso”) “un lavoratore esposto a rischio biologico che lavori senza essere preventivamente vaccinato, rappresenta per il datore di lavoro una situazione di pericolo permanente e «conoscibile» che fa automaticamente sorgere un corrispondente e tassativo obbligo per l’imprenditore di attivarsi e ridurre prontamente al minimo tecnicamente fattibile il rischio. Pertanto, in tal caso, così come per le altre misure di sicurezza sul lavoro, il datore di lavoro ha l’obbligo di richiamare anche disciplinarmente il lavoratore che rifiutasse tale vaccinazione. Diversamente, infatti, qualora si concedesse al lavoratore la arbitraria possibilità di rifiutare la vaccinazione, l’art.2087 del c.c. si trasformerebbe in una illegittima fonte di responsabilità oggettiva per il datore di lavoro: se il datore di lavoro è tenuto per legge ad adottare tutte le misure “necessarie” per la tutela dei dipendenti, è ovvio come egli debba potere fare ciò senza ingerenze o limitazioni”.

Sanzioni anche disciplinari “conservative”, quali la sospensione, non pare possano quindi essere del tutto escluse. Come anche un giustificato motivo soggettivo che possa condurre in casi estremi al licenziamento.

Ovviamente, senza alcuna semplificazione eccessiva e senza alcun automatismo. Ma, le considerazioni del prof. Ichino non si prestano ad essere qualificate come puramente e semplicemente da non prendere in considerazione.

 



[1] In tema di obblighi di protezione ex art. 2087 c.c. trova applicazione il medesimo principio espresso in riferimento al demansionamento illegittimo, nel senso che il giudice di merito, oltre a sanzionare l'inadempimento dell'obbligo da parte del datore di lavoro con la condanna al risarcimento del danno, può emanare una pronuncia di adempimento in forma specifica, di contenuto satisfattorio dell'interesse leso, che condanni il datore ad affidare al lavoratore mansioni confacenti alle condizioni di salute e riconducibili a quelle già assegnate ovvero di contenuto equivalente; tale obbligo è derogabile solo nel caso in cui il datore provi l'impossibilità di ricollocare utilmente il lavoratore nell'azienda, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore.

(Cassazione civile, Sez. Lavoro, sentenza n. 20080 del 30 luglio 2018)

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