Nel tentativo di dare legittimazione ad una norma nulla per chiarissimo contrasto ad una quantità rilevantissima di norme1, com’è l’articolo 101 del Ccnl 17.12.2020 che attribuisce al segretario comunale il potere di avocare gli atti dei dirigenti, l’Aran, anche informalmente, e parte della dottrina lo giustificano come strumento per “valorizzare” la figura del segretario, in chiave “manageriale”.
Si tratta di affermazioni del tutto infondate, sul piano sistematico e, sopratutto, delle basi normative.
Non si vuole capire (e molta responsabilità discende dalle teorie del new public management, calate a viva forza in troppe norme senza alcun coordinamento con le regole generali dell’ordinamento) che le regole aziendali del management sono del tutto inconciliabili con l’organizzazione della PA, almeno finché viga l’attuale testo della Costituzione.
Il management si fonda sulla libertà di impresa e di organizzazione dell’imprenditore. Non si intende minimamente, qui, fare riferimento alla profonda diversità di compiti, missione e intenti dell’imprenditore, rispetto a quelli della PA. Per quanto l’imprenditore non persegua fini ed interessi generali, bensì cerchi, del tutto legittimamente, scopi di lucro ed egoistici nella competizione di mercato, il management aziendale si caratterizza proprio per la completa libertà che la normativa di diritto comune riconosce all’imprenditore, di organizzare i mezzi di produzione, allo scopo di vendere in modo competitivo i prodotti.
Le regole organizzative alla base della produzione di dolci sono diversissime da quelle per la produzione di elettrodomestici o per l’erogazione di servizi sociali. Inoltre, nell’ambito di un medesimo settore di produzione, per esempio gli autoveicoli, ricerca ed innovazione possono modificare radicalmente i prodotti e, conseguentemente i metodi: basti pensare all’evoluzione attualmente in atto connessa all’automobile elettrica.
Il manager privato che opera nelle aziende ottiene dalla proprietà aziendale, una volta da questa delineate le strategie, le risorse, il piano industriale, piena e totale libertà di organizzare la produzione, senza alcun particolare vincolo che non sia autoprodotto. Il management privato si caratterizza proprio per questa peculiarità: decide in modo totalmente autonomo le regole di produzione, senza subire nessun vincolo esterno, se non derivante da norme di produzione (regole come quelle UNI, per esempio), o le regole, valevoli nel privato come nel pubblico, sulla sicurezza nei luoghi di lavoro o sulla protezione dei dati personali.
Non solo: nel sistema privato vige un ordinamento basato su criteri e principi del tutto inconciliabili con quelli operanti nella PA.
Infatti, nel privato i poteri gestionali sono conferiti dalla proprietà sulla base della relazione giuridica della rappresentanza. L’imprenditore organizza in varie forme la propria struttura (società semplice, in accomandita, a responsabilità limitata, per azioni). La società ha personalità giuridica, ma non può esercitarla se non mediante soggetti che agiscano per suo nome e per suo conto. L’imprenditore, quindi, conferisce a questi soggetti poteri operativi, attraverso l’atto costitutivo che definisce le sfere di potere degli organi (presidente, consiglio d’amministrazione, amministratore delegato) e le deleghe operative che i vari organi possono attribuire a cascata ai vari componenti della struttura.
Il “manager” di più elevato livello generalmente coincide con l’amministratore delegato o con una funzione di direttore generale che disponga di funzioni operative e gestionali paragonabili a quelle dell’amministratore delegato.
Il manager, a sua volta, nel rispetto delle regole interne, può attribuire poteri operativi e rappresentativi ad altri soggetti, attribuendo loro funzioni di rappresentanza, mediante atti di procura (lo stesso, comunque, possono decidere gli organi operativi societari).
Il manager, quindi, dotato di ampli poteri organizzativi sulla base di un’attribuzione di poteri di primo livello derivanti dagli organi di vertice della società o dalla circostanza di ricoprire esso stesso ruoli nel governo societario, può disciplinare i propri rapporti col resto del management attraverso conferimento di “deleghe” di diritto privato di poteri, cioè ulteriori atti di procura e rappresentanza.
Il management “delegato”, quindi agisce in nome e per conto dell’azienda, ma sulla base di un atto di procura rilasciato dal manager con funzioni di “governo” aziendale.
Si instaura, dunque, un complesso reticolo di rapporti interni o interorganici, di natura sia funzionale, sia personale. Il management di secondo livello è al tempo stesso legato esponente operativo dell’azienda nel suo complesso, ma anche legato nella propria sfera personale alla sfera personale della persona fisica che lo abbia indicato come proprio rappresentante nello svolgimento delle attività ad esso connesse.
Dunque, i vari soggetti (potremmo dire “organi”) dell’impresa privata tra di loro sono connessi sempre da un rapporto giuridico, quello della rappresentanza, che presuppone due soggetti: il rappresentato ed il rappresentante.
In un ambito simile, il potere di “avocazione” semplicemente non esiste. Infatti, come è perfettamente chiaro, le sfere di attribuzione sono totalmente flessibili, legate a scelte del tutto contingenti e transeunti, in continuo mutamento, connesse alla semplice volontà del rappresentato di continuare ad attribuire poteri al rappresentante. Poteri che possono continuativamente essere modificati, ridotti, ampliati o annullati. Anche in considerazione del semplice rapporto di fiducia intercorrente tra rappresentato e rappresentante. Infatti, gli effetti dell’attività del rappresentante si riverberino nella sfera giuridica del rappresentato, per quanto detta attività sia imputabile al rappresentante: il rappresentato, quindi, può sindacare sulla efficacia e correttezza svolta dal rappresentante, agendo nei suoi confronti laddove ritenga l’azione svolta non rispondente agli obiettivi.
E’ fondamentale ricordare che il terzo, colui che entra in contatto con l’imprenditore, non è minimamente intaccato, nella sua sfera giuridica, da eventuali lesioni dei rapporti interorganici interni nell’azienda. Infatti, comunque il manager o chi agisca negozialmente col terzo (anche il commesso, il cassiere, il fattorino) comunque impegna l’imprenditore che resta obbligato, a meno di non dimostrare la situazione del falsus procurator.
Quindi, il manager di più elevato livello ha ampi poteri di incidenza sull’azione di quelli di livello minore, mediante ordini operativi e strumenti di ampliamento, limitazione e fino all’azzeramento dei poteri negoziali concessi a questi, mediante atti le procure negoziali.
Tutto questo sistema nella pubblica amministrazione non è pensabile. Le teorie manageriali dell’agire amministrativo hanno confuso, da anni, le acque, inducendo molti a ritenere che gli strumenti organizzativi privati siano estendibili anche alla PA.
Se si può e deve concordare sull’opportunità di guardare a modalità operative tese all’efficienza della gestione, pensare al mero scimmiottamento di regole incompatibili col sistema è del tutto erroneo.
L’incompatibilità di gran parte del sistema organizzativo del privato, descritto sopra, discende da molte ragioni, delle quali le due principali sono le seguenti:
l’assetto delle competenze degli organi delle PA, e di conseguenza la gran parte dello stesso assetto organizzativo dei vertici, è disposto dalla legge; dunque, non è lasciato alle mutevoli autodeterminazioni dei “manager”;
nella PA non opera il rapporto di rappresentanza, ma quello dell’immedesimazione organica. Il dirigente (o, comunque, l’organo) non agisce in nome e per conto dell’ente, ma impersona l’ente. L’azione non si imputa alla sfera giuridica dell’organo, ma a quella dell’ente.
Tutto ciò ha ricadute rilevantissime. L’ente pubblico non può attribuire alla dirigenza poteri esorbitanti da quelli definiti dalla legge. Nè strumenti negoziali, in primis i contratti, tanto quelli collettivi nazionali, quanto quelli collettivi decentrati, hanno alcuna legittimazione ad incidere su questo campo.
Non è un caso che l’articolo 40, comma 1, del d.lgs 165/2001 faccia espresso divieto ai contratti nazionali collettivi (e conseguentemente a quelli decentrati, che non possono ingerirsi nelle materie di quelli nazionali) di interessarsi dell’organizzazione e delle prerogative dei dirigenti: esse sono riservate alla sola legge.
Ancora, la PA può porre in essere legittimamente gli atti che incidono sulla sfera giuridica dei privati solo se agisca l’organo dotato della corretta sfera di competenza. Il terzo ed il controinteressato non sono garantiti, come avviene nel sistema privato, dalla semplice circostanza che il soggetto agente dipenda dall’ente pubblico: tale soggetto agente deve essere un organo dell’ente, dotato della necessaria sfera di competenza. Altrimenti, l’atto posto in essere è annullabile per vizio di competenza, quando non nullo, nel caso dell’incompetenza assoluta.
Ora, se nel sistema privato il concetto stesso di “avocazione” non esiste, in quanto l’estrema flessibilizzazione dei modelli organizzativi e di determinazione dei poteri non lo prevede ontologicamente, in quello pubblico l’avocazione non è ammissibile, se non in casi assolutamente eccezionali, proprio in relazione all’esistenza della riserva di legge per la definizione delle competenze degli organi e per l’assenza del rapporto di rappresentanza.
La riserva di legge è posta dall’articolo 97, comma 2, della Costituzione: “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge”. Tale previsione evidenzia:
la totale erroneità della tesi di chi ritenga che l’articolo 101 del Ccnl 17.12.2020 sia esente dal vizio di nullità, per violazione dell’articolo 40, comma 1, del d.lgs 165/2001. Tale ultima norma è evidentemente attuativa del dettato costituzionale ed inibisce ai contratti di interessarsi della materia dell’organizzazione e delle competenze dei dirigenti;
la totale, altrettanta, erroneità della configurazione dell’articolo 101 del Ccnl 17.12.2020 come norma che si limiti ad evidenziare un potere “immanente” alla funzione di sovrintendenza che l’articolo 97 assegna al segretario comunale, demandando poi ai regolamenti la disciplina concreta. Simile tesi, nulla più di una suggestione disancorata dall’ordinamento, finisce ancora per violare l’articolo 97, comma 2, della Costituzione, perché rimette ai regolamenti la disciplina di un atto, quale l’avocazione, che incide sui poteri dirigenziali, derogando all’assetto delle competenze: deroga ammessa solo, nel rispetto della riserva di legge, solo se sia una legge a prevederla.
L’articolo 101 del Ccnl 17.12.2020, inutili i giri di parole, vìola in modo plateale l’ABC del diritto amministrativo, com’è oggi.
Esso si ispira ad un rapporto di gerarchia tra organi, del tutto inoperante e tramontato, con la sola eccezione di alcune organizzazioni verticistiche, come le forze armate. La dottrina, da ormai 30 anni e oltre, qualifica il rapporto di gerarchia come “assolutamente recessivo” (R. Galli, D. Galli, Corso di diritto amministrativo, 4^ edizione, Cedam, pag. 196).
La gerarchia propria, della quale l’avocazione è strumento tipico presuppone un elemento del tutto estraneo al rapporto interorganico tra segretario e dirigenti: l’omogeneità delle competenze.
Il superiore gerarchico può incidere sull’azione del subordinato solo sul presupposto che condivida con esso la medesima sfera operativa, gestita con diversi livelli di estensione.
Ma, i comuni e gli enti locali in generale svolgono funzioni operative altamente disomogenee tra esse. La pretesa che il segretario comunale possa avocare a sé funzioni dei tributi, dell’edilizia, dell’urbanistica, dell’ecologia, dei servizi sociali, della promozione territoriale, dell’esecuzione dei lavori pubblici, per fermarsi a pochi esempi, rasenta davvero problemi di alfabetizzazione amministrativa.
Come spiega ancora la dottrina (R. Galli, D. Galli, cit. Pag. 197), l’avocazione “ricorre quando il superiore gerarchico attragga a sé un affare di competenza dell’inferiore. Anche qui, se c’è competenza comune e promiscua, non si prospetta alcuna deroga, ma se è prevista una competenza specifica, all’avocazione necessita un fondamento di legge. Questo perché in diritto amministrativo vige il principio dell’inderogabilità delle competenze per effetto della riserva di legge prevista dall’art. 97 Cost”. Parole da scolpire, che l’articolo 101 del Ccnl 17.12.2020 vulnera in modo grave e imperdonabile.
Anche perché, nell’ordinamento locale, a rafforzare il principio di autonomia e responsabilità della dirigenza, esiste una norma di legge, quindi superiore ed inderogabile dai contratti, posta appunto a stabilire la specificità delle competenze dei dirigenti, l’esclusività della loro responsabilità e, in ultima analisi, l’inderogabilità del loro assetto e cioè l’articolo 107, commi 2, 4 e 6, del d.lgs 267/2000:
comma 2: “Spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente agli articoli 97 e 108”. Altro che omogeneità e promiscuità: le sfere di competenza recproche di segretario, dirigenti e direttore generale sono proprie e vicendevolmente intangibili;
comma 4: “Le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative”. Il Ccnl non è una legge: non può incidere sulle competenze dei dirigenti;
comma 6: “I dirigenti sono direttamente responsabili, in via esclusiva, in relazione agli obiettivi dell'ente, della correttezza amministrativa, della efficienza e dei risultati della gestione”. Non è consentito ad altro organo ingerirsi nelle responsabilità dei dirigenti.
E’ da evidenziare, comunque, che i sostenitori della liceità dell’articolo 101 del Ccnl 17.12.2020 come valorizzazione del ruolo di manager non si rendono conto che tale valorizzazione è totalmente ed ampiamente smentita dal successivo articolo 103, che prevede come causa della revoca del segretario il mancato esercizio dell’avocazione.
Come è agevole notare, dunque, l’avocazione dal Ccnl non è per nulla trattata alla stregua di un (inesistente) potere manageriale organizzativo della struttura, bensì come cappio al collo del segretario. Chiamato indirettamente ad avocare “on demand”, su spinta dell’organo di governo, allorchè l’azione del dirigente non sia gradita.
L’avocazione, infatti, non è trattata dal Ccnl come dovrebbe trattarsi, cioè alla stregua di provvedimento discrezionale organizzativo, di ingerenza, sì, ma non sanzionatorio. Invece, il Ccnl connette l’avocazione ad un “inadempimento”.
Induce, quindi, gli enti ad entrare nel merito delle decisioni dei dirigenti, poiché l’inadempimento non è inerzia, ma un adempimento contrario ad alcuni dettami. Surrettiziamente il Ccnl induce a tornare ad un aspetto del rapporto di gerarchia propria – in violazione delle moltissime norme viste sopra e dell’assetto costituzionale vigente – cioè il potere di impartire ordini, cui solo può conseguire l’inadempimento.
Il Ccnl si fa pericolosissimo veicolo dell’aggiramento delle regole sulla competenza e la divisione dei ruoli tra politica e gestione, strumentalizzando il segretario comunale come soggetto che assicuri la gestione della politica nascosta dietro di esso, a tal punto che, come rilevato, il segretario che non avochi può essere revocato. Sulla base, evidentemente, di un giudizio di valore del tutto arbitrario di sindaco e giunta, relativamente al corretto mancato esercizio dell’avocazione.
L’evidenza della nullità della norma contrattuale, tuttavia, pone un problema in punto di fatto: i sindaci considereranno l’esercizio del potere di avocazione “pretensibile”, non accettando facilmente la constatazione della nullità della norma.
Ed i segretari si troverebbero tra l’incudine della pretesa dei sindaci, che poi si traduce nella minaccia di revoca dell’incarico per mancata avocazione di un atto disposta dall’ancor più nullo e grave articolo 103 del Ccnl; e il martello del rischio di adottare un’avocazione nulla perché fondata su un’attribuzione di potere nulla e foriera di contenziosi infiniti:
ad opera del terzo, che se danneggiato dalla decisione connessa all’atto di avocazione può in qualsiasi sede invocarne la nullità ed il risarcimento del danno;
del dirigente il cui atto è avocato; non per un’inutile contesa sull’esercizio della competenza, sibbene perché l’avocazione si deve basare sulla rilevazione di un suo “inadempimento”. Dal quale non può non scaturire la conseguenza di una valutazione negativa, di esposizione a possibile vertenza erariale e anche civile. A pena di omissione di atti d’ufficio da parte del segretario avocante.
Il punto maggiormente delicato dell’avocazione è proprio quello dell’inadempimento. Nella struttura della gerarchia pura, nell’ambito della quale l’organo superiore gerarchico è legittimato ad avocare le competenze dell’organo subordinato, l’avocazione è uno strumento ordinario. Non è utilizzata solo a scopi di rimedio a negligenze o inadempimenti, ma anche per ragioni organizzative e di opportunità: l’organo sovraordinato, sebbene sul piano organizzativo generale una certa competenza sia assegnata al subordinato, sceglie per motivi di merito di avocare a sé la gestione diretta di una pratica, esercitando un potere per altro originario, visto che condivide col subordinato la medesima competenza.
L’avocazione, quindi, in un sistema gerarchico puro è un metodo organizzativo, prima ancora di un intervento sanzionatorio di un inadempimento.
L’impostazione del Ccnl, quindi, è totalmente errata; tale errore è dovuto proprio alla circostanza che il segretario non è un superiore gerarchico.
Quindi si travisa l’avocazione; da strumento di organizzazione, lo si trasfigura malamente in sanzione da inadempimento.
Ma, in cosa consiste tale inadempimento? La norma si presta ad interpretazioni strumentali. Sono pieni gli uffici giudiziari, amministrativi e civili, di vertenze nelle quali per la compagine politica inadempimento non è tanto connesso all’an, cioè alla verifica se il dirigente abbia esercitato una competenza, quanto, piuttosto, al quomodo, il contenuto di merito della decisione.
Il vero rischio della norma è quindi fomentare una sorta di controllo politico sul merito delle decisioni, attraverso l’operato del segretario comunale.
Un sindaco potrebbe considerare il diniego alla formazione di un titolo edilizio da parte del dirigente come “inadempimento”, laddove con “direttive” strumentali avesse fornito indirizzi non generali ma di fatto tesi a travolgere l’autonomia gestionale o, comunque, qualora non condividesse la scelta, accogliendo le lagnanze del privato.
Tale sindaco, allora, potrebbe essere indotto, valutata l’indisponibilità del dirigente a modificare il provvedimento, a spingere il segretario ad intervenire per avocazione. Si eserciterebbe una sorta di giudizio di secondo grado di merito extra giurisdizionale, con pregiudizio evidentissimo al principio di separazione, al principio di competenza sia tecnica, sia organizzativa, scatenando il contenzioso di cui si è parlato prima.
I comuni rischiano di andare verso una situazione di costante incertezza del diritto: ogni cittadino potrebbe chiedere alla compagine politica la “revisione” delle decisioni degli organi di governo; ogni sindaco potrebbe pretendere dal segretario l’avocazione come strumento di ingerenza diretta, ma nascosta dal diaframma del segretario, nella gestione.
Evidenziato i rischi e gli sfregi che la norma contrattuale, comunque sempre e solo nulla, comporta, se attuata, non si possono negare comunque due aspetti.
Per un verso, i segretari comunali saranno ovviamente messi sotto pressione. La spada di Damocle della revoca connessa al mancato esercizio dell’avocazione li mette in una situazione delicata, nella quale evidenziare la nullità della norma contrattuale non è oggettivamente facile. La situazione di debolezza dei segretari potrebbe dare la stura al contenzioso molto ampio più volte evocato.
Per altro verso, gli organi di governo, ma anche lo stesso segretario comunale responsabile del coordinamento complessivo dell’azione amministrativa allo scopo di assicurare il conseguimento dei risultati previsti dalla programmazione, non possono certo rimanere privi di un potere di intervento nei confronti di dirigenti riottosi, non competenti o sleali.
Ma, il rimedio non è l’avocazione, nulla e da non utilizzare. Il rimedio, nel rispetto delle previsioni del complesso ordinamentale, sta nelle leggi. In particolare, in due norme.
La prima è l’articolo 2, commi 9 e seguenti, della legge 241/1990: esso consente, come noto, l’esercizio del potere sostitutivo nei confronti del dirigente, nel caso di un suo ritardo o di una sua inerzia nella chiusura di un procedimento amministrativo.
Ma, il ritardo non è di per sé inadempimento. La norma, quindi, se da un lato rende inutile l’articolo 101 come rimedio appunto al ritardo, dall’altro lato non copre appieno il ventaglio operativo della clausola contrattuale, che, come si è mostrato sopra, giunge fino al merito, potendo considerarsi come inadempimento anche il provvedimento adottato perfettamente nei termini, ma di contenuto non gradito nel merito.
L’altra norma da applicare, allora, è l’articolo 14, comma 3, del d.lgs 165/2001: “Il Ministro non può revocare, riformare, riservare o avocare a sé o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti. In caso di inerzia o ritardo il Ministro può fissare un termine perentorio entro il quale il dirigente deve adottare gli atti o i provvedimenti. Qualora l'inerzia permanga, o in caso di grave inosservanza delle direttive generali da parte del dirigente competente, che determinino pregiudizio per l'interesse pubblico, il Ministro può nominare, salvi i casi di urgenza previa contestazione, un commissario ad acta, dando comunicazione al Presidente del Consiglio dei ministri del relativo provvedimento. Resta salvo quanto previsto dall'articolo 2, comma 3, lett. p) della legge 23 agosto 1988, n. 400. Resta altresì salvo quanto previsto dall'articolo 6 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, e successive modificazioni ed integrazioni, e dall'articolo 10 del relativo regolamento emanato con regio decreto 6 maggio 1940, n. 635. Resta salvo il potere di annullamento ministeriale per motivi di legittimità”.
La norma affronta il problema del dirigente inefficiente dal corretto punto di vista e con altrettanto corretti strumenti.
In primo luogo, si riafferma e conferma il principio di separazione: il Ministro, pur qualificato dalla Costituzione come vertice amministrativo (il che non è, nell’ordinamento locale, per il sindaco, né pe giunta e consiglio) non può adottare né in prima persona, né per interposizione di altri dirigenti, nemmeno dei capi Dipartimento o dei Segretari generali, atti di “secondo grado” (revoca o riforma) connessi al merito dei provvedimenti; né, tanto meno, “avocare”.
Come può agire il Ministro? Nominando allo scopo un commissario ad acta: un soggetto, quindi, che in via straordinaria e limitatamente al compimento degli atti necessari, si insedi nella titolarità dell’ufficio diretto dal dirigente, esautorandolo per quelle attività e adottando gli atti al suo posto, fermo restando la responsabilità dirigenziale connessa all’inerzia.
Ma, altro elemento che distingue per qualità ed esattezza rispetto all’ordinamento l’articolo 14 comma 2, del d.lgs 165/2001, rispetto al rozzo vulnus normativo scaturito dall’articolo 101 del Ccnl 17.12.2020, è la causa che giustifica il commissariamento. Non un indeterminato e indeterminabile “inadempimento”, lasciato, nella sua qualificazione, all’arbitrio. Bensì, situazioni ben specifiche e da motivare nel dettaglio:
inerzia o ritardo (ma, in questo caso, sopperisce comunque l’articolo 2, comma 9, della legge 241/1990);
grave inosservanza delle direttive generali da parte del dirigente competente, che determinino pregiudizio per l'interesse pubblico.
Non basterebbe non condividere nel merito un provvedimento, quindi. Il commissariamento potrebbe legittimamente scattare solo se il Ministro evidenzi:
un’inosservanza di direttive generali; quindi, direttive ad hoc, costruite sul momento proprio allo scopo di prefabbricare il casus belli finalizzato all’avocazione, non possono essere ammesse;
la gravità dell’inosservanza: occorre la dimostrazione che il dirigente abbia apertamente e scientemente contravvenuto alle norme e alle direttive in spregio loro evidente;
il pregiudizio per l’interesse pubblico: il commissariamento non è connesso ad una sorta di regolamento di conti tra parte politica e tecnica, così da permettere alla prima di prevaricare la seconda a seguito di divergenze di vedute sul merito delle questioni. Il commissariamento deve essere garanzia della legittimità e dell’efficacia dell’azione amministrativa, vulnerata dall’azione del dirigente. Quindi, occorre una profonda motivazione che dia conto del fatto e del diritto, evidenziando la necessità di un ripristino di legalità, attraverso l’esautoramento del dirigente responsabile, sostituito allo scopo da un commissario che deve agire secondo un preciso mandato.
L’obiezione secondo la quale la previsione dell’articolo 14, comma 2, valga solo per i Ministeri non ha alcun fondamento.
La norma può e deve transitare, non per l’inammissibile via contrattuale malamente perseguita, bensì attraverso una regolamentazione pubblicistica, nell’ordinamento di ciascun ente, che la può, anzi deve, adattare, avvalendosi del regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi.
La permeabilità dell’ordinamento locale alla previsione dell’articolo 14, comma 2, del d.lgs 165/2001 è dimostrata:
dalla circostanza che risiede nel Capo II di detto d.lgs 165/2001;
nella previsione dell’articolo 88 del d.lgs 267/2000, ai sensi del quale “All'ordinamento degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i dirigenti ed i segretari comunali e provinciali, si applicano le disposizioni del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n.29,e successive modificazioni ed integrazioni, e le altre disposizioni di legge in materia di organizzazione e lavoro nelle pubbliche amministrazioni nonché quelle contenute nel presente testo unico”; quindi, per rinvio dinamico imposto direttamente dalla legge, agli enti locali si applicano direttamente le previsioni del d.lgs 165/2001 (subentrato al d.lgs 29/1993), comprese quelle sulla dirigenza;
nella previsione dell’articolo 111 del d.lgs 267/2000: “Gli enti locali, tenendo conto delle proprie peculiarità, nell'esercizio della propria potestà statutaria e regolamentare, adeguano lo statuto ed il regolamento ai principi del presente capo e del capo II del decreto legislativo del 3 febbraio 1993, n.29, e successive modificazioni ed integrazioni”; laddove, quindi, non fosse già chiaro con l’articolo 88, il successivo articolo 111 prevede espressamente l’adeguamento dell’organizzazione interna degli enti locali alle norme, qualificate come principio, del Capo II del d.lgs 165/2001, dedicato alla dirigenza.
Dunque, la strada obbligata della non attuazione di una clausola nulla e dannosa come quella dell’articolo 101 del Ccnl 17.12.2020 non lascia il segretario scoperto: può e deve agire, facendo in modo che il regolamento sia adeguato alle previsioni riportate sopra. L’organo di governo, quindi, non resta privo di uno strumento per rimediare a gestioni inefficaci.
Poiché il tutto si disciplina attraverso norme ed istituti pubblicistici previsti dalla legge, l’applicazione dell’articolo 114, comma 2, purchè non sia travisata nel regolamento e quindi trascritta coi medesimi erronei contenuti del Ccnl, è corretto esercizio delle funzioni normative, ai sensi dell’articolo 97, comma 2, della Costituzione e rispettosa delle previsioni dell’articolo 40, comma 1, del d.lgs 165/2001.
Tutto sta nel volere e sapere leggere l’ordinamento come un insieme armonico. Certo, forzature e vulnus come la becera norma dell’articolo 101 del Ccnl 17.12.2020 non sono di aiuto.
1. articolo 2 (rubricato “Fonti”), comma 1, del d.lgs 165/2001, ai sensi del quale, confermando ovviamente il costrutto della Costituzione, “Le amministrazioni pubbliche definiscono, secondo principi generali fissati da disposizioni di legge e, sulla base dei medesimi, mediante atti organizzativi secondo i rispettivi ordinamenti, le linee fondamentali di organizzazione degli uffici; individuano gli uffici di maggiore rilevanza e i modi di conferimento della titolarità dei medesimi”. Nessuno spazio è dato alla contrattazione collettiva;
sempre l’articolo 2, stavolta comma 2, del d.lgs 165/2001, che circoscrive l’orizzonte della potestà normativa dei contratti collettivi: “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto…”. I contratti, come è logico, possono interessarsi della regolazione del rapporto di lavoro, ma non delle competenze e delle funzioni;
l’articolo 40, comma 1, sempre del d.lgs 165/2001, che allo scopo di confermare e chiarire il quadro visto prima, prevede: “La contrattazione collettiva disciplina il rapporto di lavoro e le relazioni sindacali e si svolge con le modalità previste dal presente decreto. Nelle materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, della mobilità, la contrattazione collettiva è consentita nei limiti previsti dalle norme di legge. Sono escluse dalla contrattazione collettiva le materie attinenti all'organizzazione degli uffici, quelle oggetto di partecipazione sindacale ai sensi dell'articolo 9, quelle afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli articoli 5, comma 2, 16 e 17, la materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali, nonché quelle di cui all'articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 23 ottobre 1992, n. 421”. Attribuire ai segretari comunali il potere di avocazione, come già rilevato sopra, implica interferire proprio sulle prerogative dirigenziali: il Ccnl non poteva e non può affrontare questa materia;
l’articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 421/1992, ai sensi del quale “…Sono regolate con legge, ovvero, sulla base della legge o nell'ambito dei princìpi dalla stessa posti, con atti normativi o amministrativi, le seguenti materie:
1) le responsabilità giuridiche attinenti ai singoli operatori nell'espletamento di procedure amministrative;
2) gli organi, gli uffici, i modi di conferimento della titolarità dei medesimi;
3) i princìpi fondamentali di organizzazione degli uffici;
4) i procedimenti di selezione per l'accesso al lavoro e di avviamento al lavoro;
5) i ruoli e le dotazioni organiche nonché la loro consistenza complessiva. Le dotazioni complessive di ciascuna qualifica sono definite previa informazione alle organizzazioni sindacali interessate maggiormente rappresentative sul piano nazionale;
6) la garanzia della libertà di insegnamento e l'autonomia professionale nello svolgimento dell'attività didattica, scientifica e di ricerca;
7) la disciplina della responsabilità e delle incompatibilità tra l'impiego pubblico ed altre attività e i casi di divieto di cumulo di impieghi e incarichi pubblici;l’articolo 97, comma 4, del d.lgs 267/2000, che regola, come fonte di legge, le funzioni del segretario comunale;
l’articolo 107, comma 4, del d.lgs 267/2000, ai sensi del quale “Le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative”. Un CCNL, quindi, non può certamente né ingerirsi nelle prerogative dirigenziali (a ciò inibito espressamente dall’articolo 40, comma 1, del d.lgs 165/2001), né derogare o modificare le attribuzioni dirigenziali, introducendo l’inesistente potere di avocazione;
gli articoli 16 e 17 del d.lgs 165/2001, che disciplinano in modo intangibile dalla contrattazione collettiva funzioni e prerogative dei dirigenti;
l’articolo 100 del d.lgs 267/2000, ai sensi del quale “Il segretario può essere revocato con provvedimento motivato del sindaco o del presidente della provincia, previa deliberazione della giunta, per violazione dei doveri d'ufficio”. Poiché i doveri d’ufficio sono fissati esclusivamente dalla legge o da atti di organizzazione di stampo pubblicistico, risultano totalmente sottratti alla contrattazione collettiva, che non ha in alcun modo nessun potere di indicare quali sono i doveri d’ufficio.
L’articolo 97 della Costituzione, che riserva alla legge, non certo alla contrattazione collettiva, l’organizzazione degli uffici.
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