La sentenza del Consiglio di stato, Adunanza plenaria, 18.3.2021, n. 4 è molto discutibile. Sposta, infatti, verso la PA e verso organi non giurisdizionali, ma di amministrazione attiva, il compito di valutare sul piano giuridico/processuale se i documenti e le informazioni richieste siano effettivamente rilevanti ai fini probatori e difensivi di chi li richiede.
A questo punto, non si capisce allora perché non porre la valutazione dell’accesso difensivo direttamente in capo ai giudici, nell’ambito dei processi ai quali i documenti siano attinenti, in modo che sia il giudice a valutarne la rilevanza e adottando ordini di esibizione. Sgravando, così, la PA da una gravosissima ed estesissima attività, che la soffoca ed è fonte di contenziosi continui.
Infatti, di fronte a richieste di accesso difensivo, ma non solo, le PA sono sempre tra l’incudine ed il martello.
Se non accolgono, si può attivare un giudizio davanti al Tar da parte di chi si veda respinta l’istanza; inoltre, molte volte insieme all’istanza di accesso, sono rivolte alle PA diffide a procedere ai sensi dell’articolo 328 del codice penale, relative all’omissione di atti d’ufficio.
I problemi più grandi, però, scattano se accolgono. Infatti, l’incoerente sistema normativo, che non è stato capace di fissare regole certe per equilibrare il diritto di accesso con quello alla riservatezza, demandandolo alla responsabilità personale del singolo operatore della PA, prevede una vastissima potestà di ingerenza sulle decisioni della PA da parte del Garante della privacy, che infatti emette sanzioni continuamente, sulla base di proprie valutazioni postume sul trattamento dei dati oggetto di istanze di accesso.
Non solo: l’ordinamento contiene anche l’articolo 167 del codice della privacy, in materia di “trattamento illecito dei dati”, al quale si appellano tutti coloro che non gradiscano l’ostensione dei loro dati, che faccia seguito all’accoglimento delle istanze di accesso.
La costruzione del reato di trattamento illecito dei dati è molto simile a quella del reato di abuso d’ufficio. Per colui che veda ostentati i propri dati al terzo richiedente l’accesso alla PA è fin troppo facile presentare denunce ai Pm, che poi finiscono per coinvolgere i funzionari della PA interessata nei gorghi di processi penali surreali.
Il tema del rapporto tra diritto di accesso e diritto alla riservatezza è uno tra quelli necessitanti un ridisegno normativo urgente e radicale.
Non è possibile lasciare l’azione amministrativa sotto la spada di Damocle di interessi tra loro estremamente confliggenti e non risolti dalle norme, col costante ulteriore aleggiare di contenziosi che possono costituire perdita di tempo e costi non solo per la PA coinvolta, ma anche per la specifica singola figura del funzionario coinvolto.
Le soluzioni non sono che due. La prima consiste in una modifica normativa profonda, rispetto alla quale sia il legislatore, una volta e per sempre, a determinare nel rapporto tra accesso e privacy quando l’uno prevalga sull’altro, con previsioni vincolanti e, quindi, non suscettibili di contenzioso.
Oppure, prendendo atto che il rapporto tra i due diritti vada risolto di volta in volta, creare delle apposite sezioni del giudice amministrativo, specializzate nel diritto di accesso e decidere in sede contenziosa la questione, sollevando finalmente le PA da questo fardello che le condiziona da anni.
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