martedì 30 marzo 2021

Disobbedire alle procedure e alle regole? L'ultima frontiera di proposte di riforma della PA sempre più fallimentari e contrarie a buon senso e Costituzione

 

Da decenni esperti di pubblica amministrazione e consulenti imperversano, col loro lessico ricco di inglesismi aziendali che troppo spesso rischiano di scadere nel farsesco, proponendo soluzioni “aziendalistiche” e “manageriali”, troppe volte senza tenere in alcun conto l’esistenza dei principi costituzionali e normativi che reggono la pubblica amministrazione.

Quanto suggerisce su Il Sole 24 Ore del 30 marzo 2020, nell’intervento di Gianni Dominici, “Formazione e competenze per una nuova Pa” è ben rappresentativo di decenni e decenni di proposte, spesso poi tramutate in norme o pretese come comportamenti, che piuttosto di configurarsi come soluzione ai problemi della PA, ne sono esse stesse una delle concause principali.

Non è un caso se ormai da circa 30 si è incancrenito il problema dell’efficienza della PA e che proprio da circa 30 anni, a partire in particolare dal d.lgs 29/1993, siano a rotazione continua approvare riforme della PA che dovrebbero rilanciarla e renderla più efficiente, ma regolarmente falliscono i propri obiettivi, così da richiedere successive ulteriori riforme a loro volta fallimentari. La sequenza delle sole principali riforme è impressionante: legge 59/1997, legge 127/1997, d.ls 80/1998, legge 181/1998, riforma del Titolo V della Costituzione, del 2001, legge 145/2002, legge 131/2003, legge 311/2004, d.l 7/2005, d.l. 115/2005, d.l. 112/2009, legge 50/2009, d.lgs 150/2009, d.l. 95/2012, d.l. 101/2013, d.l. 90/2014, legge 124/2015, d.lgs 116/2016, d.lgs 75/2017, legge 56/2019.

Un caos normativo, che in questo elenco incompleto è riferito alle sole regole di disciplina dell’organizzazione e del lavoro pubblico. Ma migliaia di altre sono le riforme che in questo trentennio hanno toccato ogni punto nevralgico dell’organizzazione pubblica: appalti di lavori, servizi e forniture, espropriazione, documentazione amministrativa, autocertificazioni, procedimento amministrativo, procedimenti edilizi, commercio, servizi pubblici locali, organizzazione territoriale degli uffici giudiziari, giustizia, terzo settore, enti locali e in particolare province, servizi per il lavoro, istruzione, formazione, codice dell’amministrazione digitale, beni culturali, privacy, anticorruzione e conflitto di interessi. E potremmo continuare all’infinito.

Si tratta di una pletora spaventosa di norme e regole, nelle quali occorre districarsi, per garantire l’erogazione dei servizi che da tali norme sono disciplinati.

Chi conosce davvero le norme, sa perfettamente che è totalmente priva di fondamento la teoria molto diffusa secondo la quale la lunghezza, complessità, farraginosità delle procedure da seguire e delle regole da rispettare sia opera della “burocrazia”. Si pensa, cioè, che siano materialmente i burocrati allo sportello o i loro dirigenti ad inventare di volta in volta il cavillo, il modulo, il passaggio, la comunicazione in più, che complica inopportunamente il fluire delle attività, così da distogliere l’attenzione dal risultato, per concentrarla solo sul mero adempimento.

Il Dominici pare aderire a questa vulgata. Afferma che la PA “ha bisogno di soft skill, le competenze trasversali necessarie ad un’organizzazione meno basata sui tornelli e più sul lavoro agile, che alterna momenti in presenza con momenti a distanza con modalità di lavoro flessibile. Servono competenze di project management e di team work, si richiedono capacità comunicativa e relazionale. Tutto questo però non è ancora sufficiente. Per rispondere alla sfida del futuro è necessario cambiare radicalmente prospettiva. La PA deve investire su persone in grado di portare avanti un approccio improntato sulla soluzione dei problemi, sul pensiero critico e creativo”.

E critica la PA per la scarsa attenzione dedicata alla formazione dei propri dipendenti: “l’Italia spende appena 48 euro l’anno per la formazione per ciascun dipendente, con una media di appena 1,02 giorni di formazione l’anno a persona. Solo il 38% del personale pubblico ha un titolo universitario. Serve aumentare l’investimento in formazione e progettare interventi di reskilling adeguati a colmare i gap di competenze”.

Sembra quasi che i fabbisogni le competenze mancanti e le carenze di formazione nascano dal nulla o siano appunto opera voluta proprio da chi dell’amministrazione pubblica è componente.

Una visione ingiustificata e senza basi, che nella sostanza finisce per assolvere il principale responsabile delle riforme che non funzionano, della formazione senza risorse, del congelamento delle assunzioni e del rinnovo delle professionalità: cioè il Legislatore, composto da Parlamento e Governo.

Sì, perché a chi analizza la PA e propone metodi e strumenti di riforma, non dovrebbe mai sfuggire che le regole procedurali, anche minute, nel nostro ordinamento sono praticamente da ascrivere alle previsioni contenute nelle leggi e, ancor più, nei loro decreti attuativi. Gli esempi sono moltissimi: basta andarsi a leggere il codice dei contratti o provare a contare quanti meri adempimenti di imputazione dati impone la cervellotica normativa anticorruzione. E la responsabilità di ciò non è di chi allo sportello vuol divertirsi a vessare cittadini e imprese con codicilli inutili, ma di chi dal Governo e dal Parlamento quelle regole le fissa.

Per questa ragione le conclusioni che trae il Dominici sono totalmente non condivisibili e lasciano pensare che per molti esperti e consulenti questi 30 anni sciagurati siano trascorsi invano. L’Autore, infatti, sostiene: che alla PA servono appunto nuovi “Profili che, grazie all’esperienza e alle competenze, sappiano gestire gli imprevisti, sappiano pensare “out of the box”, siano anche in grado di comprendere quando è il momento di disubbidire alle procedure e agli adempimenti per raggiungere al meglio gli obiettivi e sostenere il cambiamento. Servono innovatori, persone che abbiamo giusta motivazione e voglia di cambiare”.

Non è meraviglioso? Si assolve il Legislatore dalle evidentissime sue responsabilità per aver causato in questi decenni il caos e la lievitazione infinita delle mere incombenze fine a se stesse. Ma, invece di prendere atto che le procedure sono inefficienti a causa delle regole e, dunque, di chiederne la revisione e semplificazione, sulla base di un approccio finalmente pratico ed attento ai bisogni delle persone, invece che arroccato alla mera formalità, l’Autore nella sostanza sostiene che occorra assumere ed addestrare personale al “pensiero creativo”, che altro non è se non la predisposizione a “disobbedire alle regole”.

Come troppo spesso si legge in questi interventi sulla riforma della PA, si dimentica, però, che le procedure sono fissate dalla legge allo scopo di garantire trasparenza, tracciabilità e parità di condizioni ed imparzialità e per evitare che sia l’apparato amministrativo, composto da chi non ha il mandato elettivo, a formare in modo estemporaneo le norme. La fissazione normative di regole operative generali serve, infatti, in una democrazia, ad evitare favoritismi, arbitrio, conventicole, opacità ed inefficienza.

Agire “disobbedendo” alle norme viene enfatizzata come un’azione “coraggiosa” e molto “manageriale”, quando invece si tratta del più ancestrale istinto che ha anche qualunque bambino: è la più banale e semplicistica delle azioni. Per attuare la quale non pare serva formare nessuno.

L’invito alla disobbedienza alle norme è davvero paradossale. La difficoltà e qualità del lavoro, e del lavoro pubblico in particolare, sta, invece, nella capacità di rispettare le regole che ci sono, utilizzandole al meglio per garantire i risultati e l’efficienza. Troppo facile consigliare di disubbidire, specie se non si rischiano capitali propri, ma si mettono in gioco risorse pubbliche, di tutti.

Gli articoli 97 e 98 della Costituzione bastano ed avanzano per respingere con forza e convinzione l’idea che sia qualità del lavoro pubblico “disobbedire” alle procedure.

Se, legittimamente, si ritiene che le regole e le procedure siano erronee o inefficienti, logica e correttezza etica vogliono che si agisca per modificare, sempre con leggi e disposizioni generali, quelle regole. Senza cercare continuamente l’assoluzione di chi quelle regole inefficienti produce e perpetua, cioè gli organi di governo, intendendo scaricare a valle, sui “burocrati”.

Il rischio che si corre è quello di formare una nuova struttura amministrativa, formata da persone dotate di molto pensiero “creativo”, ma prive delle necessarie basi per una gestione della cosa pubblica improntata ai necessari principi di efficienza, buon andamento ed imparzialità.

La selezione rischierebbe di valorizzare chi si dimostri, per opportunità o a comando, maggiormente disposto di volta in volta a disobbedire alle norme, a cercare la scorciatoia, ad interpretare per gli amici ed applicare per i nemici: proprio quello che la Costituzione vuole impedire.

Un’idea di riforma come quella proposta dal Dominici rischia di creare la “paura della firma” al contrario. Non la paura di adottare provvedimenti contrari a norme e forieri di danno, bensì il timore di adottare, invece, decisioni rispettose delle regole tecniche, contabili e giuridiche, a dispetto di chi invece vorrebbe o pretenderebbe che ad esse di disobbedisse, per curare interessi non generali, ma particolari.

Del resto: si provi a gestire una procedura d’esproprio con “pensiero creativo”, saltando, per fare prima, il verbale di consistenza dei luoghi o la notifica del decreto; oppure, ad adottare una decisione di spesa, senza aver precedentemente impegnato la relativa spesa, grazie ad un’idea creativa; o a concordare con un terzo una concessione senza stipularla formalmente. Ci si provi. E si provi, poi, davanti al giudice civile, amministrativo, contabile e anche penale a difendere la scelta illegittima e dannosa compiuta, col “pensiero creativo”.

La soluzione quale sarebbe? Un’assicurazione che tenga indenne il funzionario o dirigente dal pensiero creativo? Ma, il danno erariale, la scelta che crei disparità e favoritisimi, si determinerebbero lo stesso ed il vulnus al convivere civile irrimediabilmente realizzato.

La strada verso riforme ed efficienza è lunga, complessa, composta da moltissimi problemi da affrontare e risolvere. Le proposte possono essere moltissime ed è giusto che ciascuno contribuisca con le proprie idee. Ma, pensare di risolvere la questione con l’ideona semplicistica, come la “disobbedienza” alle regole, è semplicemente un modo per eludere i problemi ed aggravarli.

Sarebbe ora di tagliare finalmente i ponti con un modo di intendere la pubblica amministrazione che viene perpetuato da 30 anni: non è un caso se la PA in Italia risulti così in affanno.

1 commento:

  1. chiedere di disobbedire a chi guadagna 1.500,00 euro al mese? una sanzione di 10.000 euro mette in mezzo ad una strada una famiglia....e per salvaguardare gli errori e le follie dei Politici e alti funzionari che impongono norme folli? ma per favore... il problema è sempre lo stesso: CHI FA LE NORME NON E' CHI LAVORA SU QUELLE NORME.
    Abbiamo 2 universi distinti: uno formato da chi fa le norme rispettando principi, norme, analisi, monitoraggio magari anche giusti SULLA CARTA;
    uno formato da CHI LAVORA su quelle norme che quando va a realizzare quanto scritto si rende conto che sono ridondandi, impegnativi, in contrasto uno con l'altro, PRATICAMENTE INAPPLICABILI.
    Un esempio SU TUTTI: Bilancio armonizzato, codice degli appalti, timing dei progetti europei, non stanno insieme...è una sorta di VOLO DEL CALBRONE.....
    grazie e mi perdoni lo sfogo

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