Il clima deve essere davvero cambiato con il nuovo Governo. L’articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 14.2.2021 a firma di Gianni Trovati “Pa, 15 anni di stipendi puniscono sanità e comuni” lo dimostra. Non sarebbe mai apparso su alcun media generalista, se non spirasse un altro vento.
Non certo per scelta del Trovati, tra i migliori esperti del settore, bensì per linea editoriale. I dati che l’articolo evidenzia sono noti da anni, da sempre, ma fin qui nessuno vi ha mai dato risalto.
E i dati sono che negli ultimi 15 anni mediamente le retribuzioni nel lavoro pubblico sono state in linea con l’inflazione, ma che alcuni settori, proprio quelli dimostratisi più nevralgici con la pandemia, cioè sanità, scuola ed enti locali, hanno avuto una dinamica inferiore.
In questi 3 lustri la narrazione è stata totalmente opposta: si è sempre parlato di retribuzioni pubbliche superiori a quelle private e abbondantemente superiori all’inflazione; si è parlato di costo insostenibile, specie perché riferito a fannulloni-furbetti del cartellino, parassiti ed improduttivi. E si è favoleggiato, letteralmente favoleggiato, mercè analisi sghembe di commissari alla “spending review” molto attenti agli slogan, meno all’efficacia della loro azione, di stipendi dei dirigenti pubblici stratosferici, molto maggiori della media Ocse. Un dato platealmente erroneo, una vera e propria sequenza di fake news.
Solo col cambiamento di aria e di direzione nei confronti della PA imposto dal nuovo Governo si spiega la possibilità di illustrare, finalmente, al pubblico dati che l’Aran, con molto equilibrio ed asciuttezza, rende da sempre disponibili, nel silenzio più totale.
Il Sole 24 Ore, dunque, informa: mediamente gli stipendi pubblici sono aumentati del 21,15% rispetto al 2005, mentre nello stesso periodo l'inflazione cumulata è stata del 19,8%. I valori sono poco superiori. Ma se questo è avvenuto è perché la PA non è monolitica, come erroneamente la si crede e dipinge, bensì lunga e larga e molto differenziata.
Si ha, così, che gli incrementi degli stipendi siano risultati molto generosi laddove i dipendenti e gli uffici siano particolarmente vicini al “potere”: la Presidenza del consiglio dei ministri ha ottenuto nello stesso lasso di tempo un incremento del 67,5%; oppure, nei confronti di enti dotati da una legge di un’indipendenza forse fuori controllo: le Authority non solo hanno spuntato incrementi salariali del 39%, ma, contrariamente ad ogni indicazione normativa valevole per il resto dei dipendenti pubblici, hanno drasticamente ridotto la parte retributiva variabile legata ai premi, per aumentare la retribuzione tabellare, cioè quella fissa e continuativa. E si tratta, spesso, di soggetti che fanno da “censori” delle altre PA.
Invece, per le amministrazioni più vicine alla popolazione, direttamente investite di compiti delicatissimi di prevenzione, cura, assistenza, servizi primari, formazione, istruzione, educazione, le cose sono andate diversamente. L’aumento è stato sotto l’inflazione: sanità +17.6%; regioni ed enti locali +17.9% (ma, avverte l’Aran, nelle regioni a statuto speciale però vi sono stati aumenti anche del +24.4%); istruzione +18.4% nella scuola.
E l’Aran spiega anche che proprio sanità (in modo più contenuto) e soprattutto regioni ed enti locali sono stati investiti dalle restrizioni fortissime alle assunzioni in questi ultimi anni, tanto da depauperare la funzionalità dei loro uffici. Solo adesso, con la legge 177/2020 qualcuno a Roma ha capito che i comuni non hanno nemmeno un numero adeguato di assistenti sociali, ed ha previsto contributi per assumerli in quantità minime necessarie per assicurare livelli delle prestazioni minimamente passabili.
L’estrema diversificazione delle retribuzioni è causa della “giungla retributiva” della PA, un problema che si trascina sin dall’Unità d’Italia, privo da sempre di qualsiasi soluzione.
In questi ultimi tre lustri, per altro, più che provare a risolvere questi problemi, li si è accentuati, con un approccio da “tecnici”, che ha dimostrato solo una totale incompetenza.
La prova? E’ data dalla devastante e pessima riforma delle province. Non solo ha causato un blocco quasi totale per due anni delle assunzioni tra il 2016 e il 2018, imponendo il congelamento delle dotazioni organiche delle PA nel tentativo di “piazzare”, da qualche parte e alla totale rinfusa, una ventina di migliaia di dipendenti, ma ha dimostrato l’assenza totale di capacità di risolvere i problemi enormi della disomogeneità delle retribuzioni.
Prima, con l’adozione del Dpcm (si utilizzavano, e molto, anche prima della pandemia...) 26 giugno 2015, che aveva provato a stilare tabelle di equivalenza degli stipendi, rivelatesi del tutto inutilizzabili e, infatti, cadute nel vuoto spinto.
Poi, col famigerato articolo 23, commi 1 e 2, del d.lgs 75/2017. Disposizioni che hanno dato mandato alla contrattazione collettiva della stagione 2016-2018 di armonizzare i trattamenti economici; adempimento al quale la contrattazione, ovviamente, ha mancato completamente, lasciando come eredità la previsione esiziale dell’articolo 23, comma 2, che, nelle more dell’irrealizzata ed irrealizzabile (se non cambia il vento) armonizzazione, impone da 5 anni un tetto al trattamento accessorio fermo al 2016. Disposizione derogata 5 volte (cinque!), ma ancora considerata in vigore, che ha pesato come un macigno sui Ccnl da ultimo sottoscritti ed anche sul complicatissimo sistema di determinazione delle risorse destinate ad assunzioni sempre per regioni ed enti locali.
Il Governo, mediante le Linee programmatiche di riforma elaborate dalla Funzione Pubblica ed il Patto per l'innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale, pare intenzionato ad abolire, finalmente, l’articolo 23, comma 2, dando ragione a chi già da prima ne sostiene la necessità che sia eliminato.
Il vento che pare stia cambiando, come testimonia l’articolo commentato, che mai sulla stampa si era visto in questi termini, dovrebbe consigliare, allora, di modificare l’abitudine di determinare gli incrementi possibili con percentuali uguali per tutti i comparti. E’ evidente che se le risorse sono distribuite tra tutti in percentuali identiche e trasversali, le differenze retributive non solo non si eliminano, ma si acuiscono. Se, poi, si continua ad ammettere che dentro la PA vi siano vere e proprie “repubbliche a parte”, che gestiscono il personale e gli stipendi in beata solitudine, nessun riordino potrà essere dato.
Ma, la pandemia insegna: certo, c’è l’importanza e lo spiccato livello professionale di alcuni enti ed amministrazioni, ma, spesso, questi svolgono funzioni di regolazione e sanzione che finiscono per creare esattamente quegli ostacoli all’operatività da molti denunciati, esponendo per altro la cosiddetta amministrazione “attiva” quella che gestisce, a sanzioni e lungaggini, per altro senza risponderne in alcun modo. Ogni riferimento alle Authority non è casuale. L’amministrazione “attiva”, quella fatta da chi sta sul campo e decide, amministra, appalta, concede, permette, cura, ricovera, istruisce, educa, è quella che va potenziata e liberata da pesi burocratici e da censori.
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