Nel post titolato “Buoni
spesa: le non condivisibili indicazioni del Tar Basilicata sul diritto di
accesso dei consiglieri ai nominativi dei richiedenti” abbiamo diffusamente
spiegato perché ritenevamo profondamente erronea la sentenza del Tar Basilicata,
Sezione I, 25 settembre 2020, n. 574, che ha ritenuto sciaguratamente legittimo
l’accesso dei consiglieri ai nominativi dei beneficiari dei buoni spesa.
A distanza di pochi mesi, la sentenza del Consiglio di stato Sezione V,11 marzo 2021, n. 2089, in sede d’appello all’erronea pronuncia di primo grado, ribalta totalmente la pronuncia del giudice di prime cure. Dando sostegno alle tesi che chi scrive ha immediatamente esternato.
E’ bene precisare che la
pronuncia di Palazzo Spada è un supporto ovviamene importante alla teoria secondo
la quale l’accesso dei consiglieri debba essere bilanciato col diritto alla
riservatezza, in primis laddove l’accesso possa mortificare le persone in stato
di bisogno economico. Ma, anche laddove Palazzo Spada non avesse, come invece
opportunamente deciso, posto nel nulla la pronuncia del Tar Basilicata, avremmo
insistito nell’evidenziare i clamorosi vizi sottostanti alla concessione dell’accesso
ai nomi, alle vite delle persone che hanno chiesto i buoni spesa.
Quel che scrive il Consiglio di
stato è una ventata di aria pura, che spazza via alcune troppo radicate
convinzioni nella giurisprudenza e negli operatori, supinamente disposti a
considerare il diritto di accesso dei consiglieri comunali come superiore a
qualsiasi altra posizione giuridica e connesso intimamente al mero possesso
dello status.
Niente di tutto questo. I
diritti, anche l’accesso dei consiglieri, debbono essere sempre inquadrati coerentemente
in un armonico mosaico di posizioni giuridiche anche contrapposte, sì da
indurre ad equilibrate decisioni operative.
E’ bene precisare che il
consigliere che aveva chiesto i nomi dei beneficiari non si era visto respingere
la domanda, ma aveva ottenuto una dettagliatissima risposta con una serie di
dati estremamente significativi ad ostentare con trasparenza gli esiti dell’operato
degli uffici sociali, titolari in via esclusiva della competenza, come chiarito
a caratteri cubitali dall’Ordinanza della Protezione Civile 658/2020. Infatti,
l’ente aveva trasmesso un amplissimo set di informazioni:
a)
l’importo del contributo stanziato dalla
Protezione civile e dalla Regione Basilicata (con delibera di giunta del 27
marzo 2020, n. 215) a favore dell’ente locale (€ 39.841,81);
b)
il numero dei beneficiari ammessi (96)
c)
il numero delle istanze ancora in esame (48);
d)
l’ammontare complessivo erogato (€ 30.450,00);
e)
un elenco delle domande, recante
a.
l’indicazione della data di ricezione e del
numero di protocollo assegnato,
b.
della composizione del nucleo familiare del
richiedente,
c.
del reddito mensile dichiarato,
d.
di eventuali altre indennità già percepite (tra
cui, con separata menzione, il reddito di cittadinanza),
e.
dell’esito dell’istanza
f.
dell’importo erogato.
Non pare davvero che manchi nulla
perché un consigliere possa esercitare il proprio mandato.
Il Tar Basilicata, tuttavia,
come troppa dottrina, troppa giurisprudenza, troppi interpreti, troppi
operatori, ha ritenuto che il consigliere dovesse conoscere anche i nomi dei
cittadini coinvolti nella procedura, sulla presunzione della sussistenza di un “incondizionato
diritto di accesso a tutti gli atti”.
Il Consiglio di Stato spiega che
le cose stanno diversamente, con magistrali richiami e pertinentissime
osservazioni puntuali. Puntuali anche perché riferite ad una situazione puntuale:
è bene specificare che la sentenza di Palazzo Spada contiene, sì, riferimenti
utilissimi per la composizione in generale del diritto di accesso (per nulla
così incondizionato come lo si dipinge) dei consiglieri con le altre posizioni
giuridiche, ma è da leggere con specifico riferimento alla particolare
questione trattata. Non si può certo far derivare dalla pronuncia la conclusione,
ovviamente erronea, secondo la quale essa negherebbe il diritto di accesso dei
consiglieri.
In primo luogo, Palazzo Spada
delimita, come è giusto anche sulla base della semplice lettura dell’articolo
43, comma 2, del d.lgs 267/2000, il diritto di accesso: “Nell’attribuire al
diritto in questione un carattere «incondizionato» ogniqualvolta esso riguardi
atti dell’amministrazione che per quest’ultimo «possano essere utili
all’espletamento delle proprie funzioni» la sentenza sembra porsi nella
prospettiva ricostruttiva del diritto di accesso del consigliere comunale come
un diritto «“tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche
costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro
insieme, espressione della dignità della persona» (così la Corte
costituzionale nella sentenza 19 maggio 2013, n. 85, di rigetto delle questioni
di costituzionalità sulla disciplina penalistica speciale relativa allo
stabilimento industriale dell’Ilva di Taranto nella parte in cui se ne assumeva
un contrasto con il diritto alla salute ex art. 32 Cost.)”.
Disegnare il diritto dei
consiglieri come una posizione gerarchicamente superiore a quella di chiunque
altro è platealmente erroneo. Il diritto di accesso è funzionale alle informazioni
che per i consiglieri siano “utili all'espletamento del proprio mandato”.
Dunque, correttamente Palazzo
Spada specifica, nel solco della Consulta: “in un ordinamento costituzionale
in cui i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano «in
rapporto di integrazione reciproca», non ordinato su base gerarchica, non è
possibile «individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli
altri», e dunque una «illimitata espansione» dei primi a danno di questi
ultimi. Per la Corte costituzionale gli stessi diritti vanno invece coordinati
secondo «un ragionevole bilanciamento», a tutela della dignità della persona, e
dunque nel rispetto del principio personalistico che trova nei principi di
uguaglianza formale e sostanziale dell’individuo e nei doveri di solidarietà
sociale la sua formale enunciazione (artt. 3, commi 1 e 2, e 2 Cost.)”.
Il diritto dei consiglieri
sussiste e la sua ampiezza è data in base alla funzionalità, dunque, con l’espletamento
del mandato. Infatti, Palazzo Spada conferma che l’esercizio dell’accesso non
può determinare il pregiudizio di altri interessi riconosciuti come meritevoli
di tutela; sia perché in generale è compito dell’amministrazione ponderare gli
interessi e le tutele, sia anche “per il limite funzionale intrinseco cui il
diritto d’accesso è sottoposto, espresso dall’art. 43, comma 2, d.lgs. n. 267
del 2000 con il richiamo alla utilità delle notizie e delle informazioni
possedute dall’ente locale rispetto alla funzione di rappresentanza politica
del consigliere comunale”.
Il lettore ci scuserà se ci autocitiamo,
con un passaggio dell’articolo richiamato all’inizio: “Per quanto il Tar enfatizzi l’obbligo del
consigliere di rispettare il segreto, disposto dall’articolo 43, comma 2, del
d.lgs 267/2000, in ogni caso la diffusione del dato personale oggetto della
presente analisi implica un trattamento che si rivela eccessivo ed illecito,
proprio perché l’apprensione dei singoli nominativi dei richiedenti non ha
alcuna specifica e diretta utilità per l’esercizio del mandato del consigliere”.
Il Consiglio di stato va
esattamente nella stessa direzione. Occorre un rapporto di stretta
strumentalità tra esercizio del diritto di accesso e funzione di indirizzo e
controllo politico-amministrativo. Strumentalità, nel caso di specie, carente,
con riferimento all’ostensione dei nominativi dei richiedenti il beneficio.
Del resto, osserva la sentenza,
il comune interessato ha, come evidenziato prima, messo a disposizione del
consigliere “ogni informazione utile per l’esercizio delle funzioni”.
Dando luogo, dunque, al necessario “equilibrato bilanciamento tra le
prerogative” connesse alla funzione del consigliere “con le contrapposte
esigenze di tutela della riservatezza della persona”.
Questo è lo snodo: ponderare ed
equilibrare le posizioni. Troppo semplicistico pensare al tutto bianco o tutto
nero. Troppo rinunciatario ritenere che un diritto sia tiranno rispetto ad un
altro: è comodo, perché esenta dal difficile compito dell’approfondimento, dell’istruttoria,
della ricerca dell’equilibrio. Lavorìo complesso, che, però, è l’essenza della
funzione amministrativa.
Il Consiglio di stato, è molto
chiaro e coerente nella ricerca della strumentalità del diritto di accesso con
la funzione del consigliere e pone due questioni dirimenti, per il caso
concreto:
1.
il consigliere che ha chiesto l’accesso, grazie
ai dati ricevuti “è nelle condizioni di accertare se la gestione dei buoni
spesa da parte degli uffici comunali competenti sia stata legittima ed efficace
ed eventualmente di promuovere in sede consiliare le necessarie iniziative
finalizzate a sollecitare un controllo dell’organo di indirizzo politico
dell’ente comunale sull’operato degli uffici competenti”; tanto doveva bastare;
2.
in ogni caso, il consigliere “non ha
dimostrato invece quale utilità concreta ed aggiuntiva rispetto ai dati
acquisiti avrebbe per l’esercizio del suo mandato la conoscenza dei nominativi
dei soggetti richiedenti”; il che conchiude il ragionamento. I dati
relativi ai nominativi sono eccedenti, non pertinenti, lesivi del diritto alla
riservatezza, che nel caso di specie non è subordinato al diritto di accesso
del consigliere.
Fondamentale, poi, è il
successivo ulteriore passaggio col quale Palazzo Spada indica anche i limiti
intrinseci della funzione del consigliere.
Anche in questo caso, è
diffusissimo un equivoco: si pensa che il consigliere possa svolgere azioni di
tutela per conto dell’ente o del singolo cittadino e, comunque, azioni di
controllo sugli atti.
Non è affatto così. Il controllo
politico-amministrativo è riferito al complesso dei risultati della gestione e
al rispetto dei criteri generali.
Un consigliere ha legittimazione
a verificare, sulla base di dati anonimizzati, se le risorse impegnate siano
corrispondenti a quelle stanziate; se i criteri di erogazione siano stati
rispettati; i tempi di decisione; il numero dei buoni erogati rispetto a quelli
richiesti; il numero di richiedenti che ne hanno beneficiato, rispetto ai
richiedenti; il tasso di effettiva liquidazione della spesa; la sussistenza di
eventuali contenziosi e la loro eventuale soluzione. Si tratta di indici
sufficienti per valutare l’azione complessiva dell’ente, considerando che il
consiglio nel caso di specie non dispone di alcuna competenza né normativa, nè
di indirizzo, né il consiglio e tanto meno il consigliere che ne è un componente,
può attivare funzioni di controllo sui singoli atti e procedimenti.
Questo lo spiega alla perfezione
Palazzo Spada, rilevando che nell’ambito della funzione di indirizzo
politico-amministrativo
a)
“non rientra quello di sostituirsi al singolo
interessato”: il consigliere non ha alcun potere di attivare un contenzioso
al posto del richiedente; ma, nemmeno ha nessuna legittimazione ad attivare, né
promuovere, gravami nei confronti degli atti dei responsabili competenti, perché
nella funzione di indirizzo non rientra nemmeno…
b)
“un riesame di legittimità di singoli
provvedimenti”.
Per altro, osserva la sentenza,
nel caso di specie “comunque è consentito al consigliere comunale sulla base
delle dettagliate indicazioni contenute nell’elenco allegato alla nota di
riscontro all’istanza di accesso” perfino azionare un riesame di
legittimità, talmente estesa è stata l’informazione ricevuta in risposta alla
sua istanza, per quanto priva dell’indicazione dei nominativi.
La questione, dunque, non è
negare l'accesso, ma negarlo, nel caso di specie, ai nominativi. Simile diniego
non deve considerarsi valevole solo per richieste ampie e generali, ma anche
qualora il consigliere intenda accedere ai nominativi di una singola pratica,
per il sacrosanto diritto della persona in condizione di bisogno che il suo
nome non sia diffuso oltre la misura ragionevole.
E’ molto chiaro il rischio che
la diffusione dei nominativi ad un consigliere possa essere piegato a fini di
mera captazione di consenso. Il consigliere non può non essere tentato dal
presentarsi come colui che ha favorito il beneficio, oppure la denegazione del
beneficio ad altri, a vantaggio del “proprio elettore”.
Il Consiglio di stato, infine,
sempre valorizzando il principio di strumentalità del diritto di accesso alle
funzioni del consigliere, smentisce un altro commodus discessus, sul
quale troppo spesso ci si siede per consentire amplissimi e diffusissimi
accessi, senza la già ricordata complessa opera di ponderazione: la credenza diffusissima
che l’obbligo al segreto d’ufficio sia la fonte della “tirannia” del diritto di
accesso del consigliere.
La smentita di Palazzo Spada è
mirabile: “Non induce in contrario rispetto a quanto finora rilevato il
fatto che ai sensi dell’art. 43, comma 2, t.u.e.l. il consigliere comunale sia
tenuto al segreto sui dati e le informazioni di cui è venuto a conoscenza
all’esito dell’accesso agli atti dell’amministrazione (diversamente quindi da
quanto ritenuto da questa Sezione nella sentenza del 5 settembre 2014, n. 4525,
richiamata dall’originario ricorrente a fondamento del proprio ricorso). In
termini generali il segreto è un obbligo che si riferisce all’uso di dati e
informazioni legittimamente acquisiti, mentre nel presente giudizio si
controverte proprio sulla legittimità di tale acquisizione. Nel caso specifico
l’obbligo del consigliere comunale di attenersi al segreto comporta che i dati
e le informazioni acquisite siano utilizzati esclusivamente per l’esercizio del
suo mandato e a vietare per contro qualsiasi uso privato. Lo stesso obbligo
non tutela invece la riservatezza delle persone, la quale verrebbe comunque
lesa se l’accesso venisse consentito. A conferma di ciò va evidenziato che
la strumentalità del diritto previsto dall’art. 43, comma 2, t.u.e.l. alla
carica consiliare comporta, per la pubblicità delle sedute dell’organo
consiliare, nella quale le prerogative di indirizzo e controllo sull’operato
degli uffici comunali sono destinate ad essere esercitate, una potenziale
conoscibilità erga omnes dei dati e delle informazioni riservate, con inerente
aggravamento della lesione della riservatezza delle persone che solo il diniego
di accesso può salvaguardare”.
Meglio non lo si poteva spiegare.
Il segreto non legittima l’accesso. Il segreto vincola il consigliere solo a
patto che l’accesso sia legittimamente disposto. Né il segreto tutela la
riservatezza delle persone. Se, infatti, viene diffuso un dato ad un
consigliere che a quel dato non ha diritto di accedere (nel caso di specie, il
nominativo di una persona in difficoltà economica), la circostanza che il
consigliere non possa a sua volta diffonderlo non elimina l’illegittima diffusione
del dato al consigliere medesimo.
In ultimo, appare necessaria un’altra
sottolineatura: per il Consiglio di stato talmente erronea è stata la sentenza
di primo grado, talmente infondata la pretesa del consigliere, che ha posto a
carico dello stesso le spese per il doppio grado di giudizio; correggendo,
così, ulteriormente il Tar, che aveva addossato al comune le spese del giudizio
di primo grado.
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