lunedì 12 aprile 2021

Le esperienze nel privato per l'accesso alla dirigenza nella PA? Come pretendere che un campione di rugby lo sia anche in una squadra di calcio

 Sul Sole 24 Ore del 12.4.2021, l’articolo a firma di Gaetano Scognamiglio e Francesco Verbaro “Nella Pa ora più competenze per avere meno consulenze” contiene suggestioni interessanti in merito ai concorsi, ma indulge nella solita ormai stanca e marcita litania dell’ingresso nella PA di chi abbia pluriennale esperienza “nel privato”. 

Strano. Per un verso, l’articolo punta condivisibilmente il dito sulle “consulenze”, il cui utilizzo eccessivo negli anni ha finito per svilire le competenze interne alla PA. 

Per altro verso, però, si predica che “Per dare un volto nuovo alla Pa sarebbe importante immettere competenze dall’esterno, soprattutto a livello dirigenziale”. Sarebbe interessante sapere, tuttavia, per quale ragione le consulenze sarebbero un’esternalizzazione delle funzioni, mentre le chiamate di soggetti esterni alla PA, invece, valorizzerebbe le competenze interne. O, ancora, posto che i due esperti affermano che i titoli nei concorsi debbono assumere un ruolo decisivo per il reclutamento di qualità e “dovrebbero riguardare anche le esperienze pluriennali nel privato”, anche in questo caso ci si chiede come la valorizzazione di esperienze ellittiche e diverse da quelle nella PA possano essere una valorizzazione della PA. 

L’articolo, ci si consenta, oblitera, poi, due fattori essenziali. Il primo: non si pone la domanda essenziale in merito alla ricaduta della responsabilità per l’eccesso di consulenze nella PA. Ma, noi la domanda la poniamo e diamo anche la risposta. Come troppo spesso accade, la responsabilità di questa disfunzione è da rimettere agli organi di governo. La pressione per il ricorso costante e continuo agli apporti consulenziali esterni è vissuta ogni giorno dai funzionari, che la subiscono da ogni sindaco, assessore, consigliere, presidente, sottosegretario, ministro, amministratore. Perché la consulenza, purtroppo, non è solo un modo per esternalizzare funzioni, ma anche un sistema per internalizzare politici trombati o comunque retribuire chi abbia mostrato fedeltà ad una tessera. 

Il secondo fattore riguarda la presenza o meno di apporti di dirigenti nella PA provenienti dall’esterno e con esperienze private. 

Da sempre, nell’analizzare la questione delle “competenze” nella PA si tratta di questo argomento, come se nella PA vi fosse una barriera impenetrabile che non consente a chi vanti un’esperienza nel privato di entrare nei ranghi dirigenziali. 

Ma, è una narrazione del tutto errata e falsa. Non solo chi ha esperienze nel privato può, come ogni cittadino italiano, partecipare ai concorsi pubblici. Ma da quasi 30 anni, una caterva di leggi permette addirittura proprio a questi outsiders di entrare come dirigenti nella PA senza nemmeno scomodarsi a fare un concorso. Basti citare l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 e l’articolo 110 del d.lgs 267/2000, al quale fa buona compagnia anche l’articolo 108 che regola l’accesso negli enti locali dei “city manager”. 

In effetti, da decenni la PA è ben colma di dirigenti provenienti dal privato. E proprio l’esperienza fatta, in particolare nei comuni, è stata piuttosto deludente, quando non del tutto disastrosa. 

Il postulato che l’esperienza nel privato costituisca di per sé qualità e valore, è giusto dirlo, non ha alcuna base, né alcun senso. 

Il mestiere del manager privato è molto difficile e richiede alte competenze. Che, però, sono diversissime da quelle che richiede l’azione pubblica, poiché sono le regole del tutto non assimilabili. 

Un manager privato che entri nella PA, se pensa di poter gestire come nel privato le relazioni sindacali, i rapporti coi fornitori, i rapporti coi debitori, le relazioni con i cittadini (che non sono clienti), la comunicazione, la stessa organizzazione (che nella PA è fortemente regolata a monte dalla legge, nel privato è quasi del tutto lasciata alla libera iniziativa), finisce per creare certamente danni erariali e rilevanti disfunzioni. 

Il valore e la qualità del manager privato, come di qualsiasi cittadino che si approcci alla PA, deriva dalla formazione e dallo studio, nonché dall’esperienza interna. Quella esterna può dare elementi di valutazione e prova di capacità acquisite, che non assicurano in alcun modo che l’ingresso di chi abbia esperienze pluriennali nel privato possa, sappia e soprattutto poi voglia adeguarsi al mondo tutto particolare della PA. 

Sarebbe come pretendere che, poiché sia nel calcio, sia nel rugby, si corre e si gioca con un pallone, un campione del calcio possa giocare altrettanto bene in una squadra di rugby e viceversa. Le cose non stanno così. Il dibattito sui concorsi, sulla dirigenza pubblica e sulle riforme della PA se ne gioverebbe se se ne prendesse finalmente atto. 

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