domenica 23 maggio 2021

La visione distorta della carenza di “vocazioni” alla funzione di sindaco

 Su L’Espresso del 23.5 2021, con l’articolo “Perché non si trovano i candidati” l’ex sindaco di Roma, Ignazio Marino, esprime la sua diagnosi riguardante le difficoltà dei partiti a reperire figure da proporre agli elettori come sindaco in pectore.

Si tratta, all’evidenza, di un problema totalmente falso. Non è che manchino i candidati: è che ai partiti non piace chi si candida, oppure le coalizioni non trovano l’accordo su un candidato comune. Tuttavia, la narrazione che si intende far passare è che “non si trovano” i sindaci; come si trattasse di figure professionali che le aziende dicono di cercare disperatamente senza riuscirvi.

Manca, in effetti, solo che qualcuno ricolleghi la (presunta) mancanza di candidati al Reddito di Cittadinanza.

Comunque sia, il Marino rappresenta una visione della funzione dei sindaci totalmente distorta e contraria alla disciplina normativa. Una visione molto comune a tanti politici, che sta alla base della continua conflittualità con gli apparati amministrativi e dell’assunzione di responsabilità, anche penali, che i sindaci assumono, ma non cagionate dallo svolgimento della loro funzione, bensì per la tendenza perseverante ad agire al di là ed al di fuori delle competenze spettanti.

In prima battura, Ignazio Marino afferma: “Quale amministratore delegato accetterebbe la responsabilità di gestire un’azienda con un bilancio annuo di quasi 10 miliardi, oltre sessantamila dipendenti, diversificata in aree strategiche che vanno dai trasporti sino a rifiuti tossici di un ospedale, per un salario si 4.500 euro al mese e senza la possibilità di scegliersi una squadra di professionisti che possono assumersi le necessarie responsabilità in ciascuna delle aree di attività dell’azienda?”.

Soffermiamoci su questa analisi che conferma le nostre affermazioni iniziali: la visione totalmente distorta dell’ordinamento locale e delle funzioni del sindaco.

Iniziamo dall’ormai stantio paragone tra il comune e un’azienda: no, egregio Prof. Marino, il comune non è un’azienda. Questa continua comparazione tra istituzioni pubbliche, non miranti al profitto derivante dalla vendita di prodotti ai clienti, ma alla corretta gestione di risorse pubbliche per l’erogazione di servizi di interesse comune a tutti, è da 30 anni alla radice di una concezione della PA totalmente sbagliata, che conduce dallo stesso lasso di tempo verso riforme continue e immancabilmente sbagliate, per le quali si richiedono ulteriori riforme a loro volta sbagliate. Esattamente come purtroppo pare stia accadendo col Pnrr.

Un comune non è un’azienda. E un sindaco non ha e non deve avere nulla in comune con un amministratore delegato. Per una ragione molto semplice: il sindaco non ha affatto la “responsabilità di gestire”.

Il Marino è stato sindaco: non dubitiamo che conosca perfettamente l’ordinamento degli enti locali e la disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e, quindi il d.lgs 267/2000 ed il d.lgs 165/2001. Dette norme affermano senza nessuna possibilità di equivoco che gli organi politici di governo non dispongono di poteri di gestione: il loro ruolo è programmare e verificare l’attuazione dei programmi. La gestione spetta in via esclusiva alla dirigenza.

Né al sindaco spetta un “salario”. L’esercizio di cariche politiche elettive non è un lavoro subordinato, ma un munus, appunto una carica ricevuta dalla cittadinanza.

Proprio perché il sindaco non è un lavoratore subordinato ma l’organo monocratico rappresentativo della comunità (insieme agli organi collegiali giunta e consiglio), non gli spetta nessun “salario”, ma una indennità di carica. Indennità il cui scopo non è remunerativo, non esistendo alcun sinallagma contrattuale, ma un ristoro per la funzione svolta.

Se si avesse la capacità di accettare il ruolo e le funzioni indicate dalla legge e se, quindi, i sindaci comprendessero che non spetta a loro gestire ma “fare politica”, cioè programmare, dare indirizzi, scegliere priorità ed allocare risorse, l’indennità assumerebbe altro peso e significato.

Ancora: proprio perché un comune non è un’azienda, il sindaco non ha e non deve avere alcun diritto di “scegliersi” una squadra di professionisti. L’ordinamento mette a disposizione di ogni sindaco eletto un apparato amministrativo pubblico, che ai sensi della Costituzione sia fedele alla Repubblica, per assicurare imparzialità e competenza. Un apparato che è di tutti i cittadini e non del sindaco di volta in volta eletto.

Per altro, la legge offre sin troppi spazi ai sindaci per inserire nell’apparato appunto dirigenti scelti direttamente, per ragioni manifestamente politiche, più che tecniche: dalla figura totalmente inutile e costosa del direttore generale a quella ancor meno utile del capo di gabinetto; da alcuni dirigenti operativi chiamati senza concorso, all’intera costellazione dei presidenti, amministratori delegati e componenti dei consigli di amministrazione delle tante, troppe, società partecipate, delle quali si è abusato proprio nell’illusione che la conduzione di un comune sia “come quella di un’azienda”.

E l’apparato pubblico della dirigenza, a differenza di quanto afferma il Marino, per legge deve necessariamente assumersi proprio quelle responsabilità operative e gestionali di cui parla l’ex sindaco. E deve farlo assumendosi quelle responsabilità “in via esclusiva”, come stabilito con enorme chiarezza dall’articolo 107 dell’ordinamento degli enti locali, d.lgs 267/2000.

Dunque, contrariamente a quanto si narra nei media generalisti e a quanto afferma il Marino, i sindaci non sono oggettivamente responsabili per quanto avvenga in ragione della loro carica. Purtroppo, laddove invece di svolgere le proprie competenze si ingeriscano nella gestione operativa, vanno oltre tali competenze e, quindi, si interrompe la corretta catena responsabilizzante. L’assunzione di decisioni e provvedimenti non ricadenti nella propria sfera, oppure la spinta eccessiva, la pressione ai dirigenti (che la politica vorrebbe come fantocci preposti a mettere in atto ogni sua decisione anche insostenibile, facendo da scudi umani anche sul piano penale), determinano l’insorgere di responsabilità civili, contabili e, inevitabilmente, anche penali, frutto appunto della distorta visione della funzione.

Non a caso, il Marino in chiusura dell’articolo afferma, dopo aver sintetizzato alcune sue vicende giudiziarie connesse ad azioni gestionali: “Ma in quelle udienze in tribunale io non ero imputato come Sindaco che aveva preso una decisione per l’interesse della città, bensì come singolo individuo. Rimango orgoglioso di quelle decisioni, ma non condivido l’idea che possano essere considerate dalla legge come le azioni di un privato cittadino”.

Se si comprendesse che laddove un organo adotti decisioni ed eserciti competenze che non gli sono proprie si scinde il rapporto organico con l’ente e quindi le responsabilità, da quelle connesse all’organo, si trasferiscono alla soggettività individuale, la lamentazione del Marino assumerebbe il giusto perimetro.

La legge non considera per nulla come assunte da un privato cittadino le decisioni del sindaco in quanto tale, ma quei provvedimenti e decisioni viziati da incompetenza ed altri vizi di legge.

Sono i sindaci che non fanno i sindaci in maniera corretta ad andare incontro alle responsabilità per le quali si fa il piagnisteo e si pretende lo scudo: sono i sindaci che cercano di orientare gli appalti, che premono per l’erogazione di contributi ad associazioni connesse al partito o alla lista elettorale, che brigano per negare i permessi di costruire agli avversari e, simmetricamente, per concedere ogni possibilità edilizia agli amici e finanziatori, che fermano la riscossione per motivi elettorali, che non mettono a valore i beni patrimoniali, che assumono sulla base delle tessere e così via.

Il già citato piagnisteo si è fatto via via più forte, dopo la condanna del sindaco di Torino per la disgraziata finale di Champion’s del 2017. Un sindaco che la stampa generalista unanimemente vedrebbe ben di buon grado mai più eletto, ma che viene strumentalizzato per la campagna in favore dei sindaci, raccontati come eroi e martiri.

Ma, i comuni sono in larghissima parte indebitati fino al collo, per manifesta mala amministrazione. Roma è proprio l’archetipo: ha accumulato tra la fine del secolo scorso e l’inizio degli anni 2000 talmente tanto debito (all’inizio 17 miliardi), che il comune è distinto in due amministrazioni: vi è una gestione commissariale impegnata a pagare ai creditori l’immane debito, per altro posto a carico dell’intera fiscalità nazionale. Torino non è da meno: è uscita con le ossa rotte dalla velleitaria organizzazione delle Olimpiadi invernali del 2006. Ma, migliaia sono i comuni indebitati, talmente tanto da utilizzare le anticipazioni di cassa che lo Stato negli anni scorsi ha erogato loro per pagare i debiti commerciali, come finanziamento indiretto per le ordinarie spese correnti.

In condizioni simili, pare normale che un sindaco debba dedicare tempo, energie e risorse per pressare, anche attraverso l’operato dell’inutile figura del capo di gabinetto, allo scopo di allestire in fretta e furia il mega schermo per la partita di calcio? Sono queste le priorità? Sono queste le funzioni gestionali che si dovrebbero compensare col “salario” da amministratore delegato?

1 commento:

  1. Caro Oliveri, condivido in toto quanto da lei scritto e predicato peraltro da anni. Purtroppo i politici da questo orecchio non vogliono sentirci. Amano troppo gestire. In Sicilia è la prassi ricorrente che alle conferenze di servizi partecipi solo il sindaco oppure il sindaco e il dirigente. Io in qualità di RdP tengo conto ovviamente sempre e soltanto quello le dichiarazioni del dirigente. Credo che le cose difficilmente cambieranno visto che la tendenza è sempre di più (la l'ha fatto notare anche lei in altri articoli) quella di aggirare i concorsi per assumere dirigenza non dico prezzolata ma quasi. Una piccola chiosa sul concetto di azienda. In realtà il comune così come ogni P.A. è un'azienda, però di "erogazione" non di "produzione" (imprese) secondo la definizione del grande maestro di ragioneria ed economia aziendale Gino Zappa. Le aziende di erogazione hanno lo scopo di soddisfare infatti “indirettamente” i bisogni umani ("La nozione di azienda nell'economia moderna" 1954). Ciò anche perché anche le aziende (di erogazione) pubbliche debbono soggiacere ai principi di sana e corretta amministrazione.

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