lunedì 3 maggio 2021

Riforma della PA: la semplificazione del silenzio-assenso che pare proprio effetto di un lisergico assenzio

 Il silenzio assenso è da sempre lo strumento principale di semplificazione dei rapporti tra cittadini e imprese, da un lato, e pubblica amministrazione dall’altro.

Infatti, per effetto di questo meccanismo, si rimedia all’inerzia dell’amministrazione che resti silente di fronte ad una domanda del cittadino.

Il meccanismo è regolato dall’articolo 20 della legge 241/1990, il cui comma 1 dispone: “Fatta salva l'applicazione dell'articolo 19, nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell'amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima amministrazione non comunica all'interessato, nel termine di cui all'articolo 2, commi 2 o 3, il provvedimento di diniego, ovvero non procede ai sensi del comma 2. Tali termini decorrono dalla data di ricevimento della domanda del privato”.

Su Il Messaggero del 29 aprile 2021, l’articolo “Semplificazioni: il silenzio-assenso avrà bisogno di una ‘certificazione’”, il cui solo titolo lascia già inebetiti, si annuncia l’intenzione di intervenire mediante il prossimo “decreto semplificazioni” proprio sull’istituto del silenzio assenso, come uno dei punti cardini dell’attuazione della più ampia riforma della PA. Ma, le prospettive di tale riforma – che si auspica sia stata sintetizzata eccessivamente – appaiono davvero preoccupanti sulla concreta efficacia e capacità di semplificare davvero.

Andiamo con ordine. L’articolo del Messaggero evidenzia la preoccupazione evidenziata da cittadini e imprese: “soprattutto quando si debbono investire cifre rilevanti, l’inerzia di una amministrazione pubblica non viene considerata abbastanza per potere avviare un cantiere o un’opera. Il timore è che possano essere sollevate eccezioni in ogni momento in grado di fermare i lavori”.

Esplicitiamo meglio quel che spaventa: il silenzio assenso non è un provvedimento, ma un fatto. L’assenso si forma in modo tacito ed implicito, sicché il cittadino e l’impresa, si afferma, non ha alcun provvedimento da esibire a chi eventualmente operasse dei controlli sull’operato, a conferma dell’assenso formatosi tacitamente.

Questo, dunque, potrebbe scatenare conflittualità: laddove chi effettui i controlli eccepisca l’assenza di un provvedimento autorizzatorio espresso, potrebbe adottare sanzioni. Queste, però, sarebbero illegittime, in presenza dell’assenso tacito, ma per far valere tale illegittimità l’interessato dovrebbe rivolgersi ai giudici amministrativi o civili, affrontando le connesse spese, sospendendo i lavori ed attendendo il lungo tempo necessario per la decisione della controversia.

Preoccupazione corretta, che può starci. Ma, in un mondo normale essa non avrebbe ragione di essere.

In effetti, se davvero si tratti del fenomeno del silenzio-assenso, il modo per verificare agevolmente la sua formazione vi sarebbe. Basterebbe che il cittadino o l’impresa mostrasse a qualsiasi altra autorità l’invio della domanda alla pubblica amministrazione destinataria, caratterizzato dalla data di inoltro e facesse verificare il decorso del tempo da quella data ordinariamente necessario per il silenzio assenso (30, 90 o 180 giorni, a seconda del tipo di procedimento). Dovrebbe essere onere dell’autorità controllante verificare con l’amministrazione destinataria dell’istanza rimasta senza risposta se all’istanza appunto non abbia fatto seguito alcun provvedimento, per acquisire così la dimostrazione dell’avvenuto silenzio assenso. Tra amministrazioni capaci di dialogare tra loro mediante pec e strumenti telematici oppure, meglio, come pretenderebbe da 21 anni il dPR 445/2000, con accessi diretti alle banche dati, questi controlli potrebbero avvenire in un attimo.

Sostanzialmente, quindi, la necessità di dimostrare la formazione del silenzio assenso attraverso un atto è il più classico dei falsi problemi.

Semmai, la questione vera consiste nella legittimità del comportamento delle autorità pubbliche caratterizzato da un atteggiamento vessatorio: quello, appunto, di pretendere un provvedimento espresso, laddove invece la fattispecie si sia formata per effetto del silenzio.

La semplificazione di cui parla l’articolo del Messaggero, quindi, apparirebbe dedicata a rimediare all’eventuale illegittimità dei comportamenti delle pubbliche amministrazioni, che non riconoscessero gli effetti del silenzio assenso.

Ma, il rimedio immaginato, come descritto nell’articolo, appare semplicemente paradossale e fonte di ulteriori complicazioni, esattamente l’opposto dell’obiettivo perseguito.

L’idea sarebbe la seguente: “una volta chiesta un’autorizzazione e decorso il termine senza che l’amministrazione abbia assunto nessuna decisione, il richiedente potrà chiedere un ‘certificato’ che attesti il silenzio-assenso. In questo modo si avrebbe un atto da opporre alle possibili successive richieste.

Inutile dire che assolutamente non ci siamo. Per una serie di ragioni:

  1. pare logico evidenziare che se per gli effetti giuridici del silenzio assenso si richieda un provvedimento espresso, qual è la certificazione, allora non si ha più alcun silenzio assenso: occorre comunque un provvedimento;

  2. il silenzio assenso è un fatto, come sopra si è evidenziato; l’interessato, sulla base delle disposizioni dell’ordinamento vigente, allora, non ha alcuna necessità di acquisire alcuna dichiarazione. Ai sensi dell’articolo 47 del dPR 445/2000 può benissimo rilasciare quello che in un gergo impreciso si chiama “autocertificazione”, ma tecnicamente consiste nella dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, la dichiarazione, avente valore probatorio fino a prova contraria, che un certo fatto sia avvenuto ed è notorio, in quanto dimostrabile;

  3. la certificazione dell’avvenuto silenzio assenso sarebbe impossibile, se non si modifica radicalmente l’intero impianto normativo attivato a partire dal 2011, ai sensi del quale si fa divieto a tutte le pubbliche amministrazioni di rilasciare ai cittadini certificazioni da esibire ad un’altra amministrazione;

  4. in ogni caso, l’inusitata e paradossale certificazione del silenzio assenso, sostanzialmente finirebbe per essere, invece, proprio il provvedimento che il silenzio assenso sostituisce, ad obbligatorio contenuto favorevole all’istanza: un mostro giuridico.

Insomma, il risultato semplicemente irrazionale di simile riforma consisterebbe proprio nell’estrema complicazione di una fattispecie semplice. Non solo perché al silenzio assenso si sostituirebbe un provvedimento espresso, negando il silenzio; ma, perché si aprirebbero probabilmente avvitamenti irrisolvibili e conflittualità infinite. Infatti: che ne sarebbe dell’eventualità nella quale a fronte della richiesta di rilascio della certificazione sull’avvenuta formazione del silenzio assenso, l’amministrazione destinataria di tale domanda resti ancora una volta silente? Si forma di un altro silenzio assenso, da certificare?

Sembra davvero che chi sta muovendo i primi passi verso la riforma della PA non abbia chiare le regole principali ed il quadro di riferimento. L’articolo de Il Messaggero afferma, infatti, che l’introduzione della certificazione del silenzio assenso completerebbe un’altra riforma del decreto semplificazioni: pare si voglia introdurre una norma “che i tecnici al lavoro sul provvedimento definiscono una ‘clausola di conclusione del procedimento’”.

Ora, con tutto il rispetto per questi “tecnici”, in attesa di smentita dovuta alla lettura del decreto, questa “clausola di conclusione”, dalla quale evidentemente si vorrebbe far discendere l’obbligatorietà del rilascio della certificazione del silenzio assenso, esiste già e da sempre e sempre nella legge 241/1990. E’ disposta, infatti, dall’articolo 2, comma 1: “Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso”. Non solo: i successivi commi 2, 3 e 4, impongono alle amministrazioni di concludere i procedimenti entro i termini di 30, 90 o 180 giorni ivi disposti, fatti salvi eventuali termini diversi stabiliti dal specifiche leggi di settore.

Ancora: nel caso in cui l’ufficio resti inerte e, quindi, non adotti il provvedimento nei termini, sempre l’articolo 2, al comma 9, stabilisce che “La mancata o tardiva emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”. E i commi successivi, dal 9-bis al 9-quater regolano l’intervento di un’autorità che adotti il provvedimento finale al posto di quella inerte.

Dunque, l’ordinamento contiene già una disciplina del tutto coerente e conchiusa di disciplina dell’obbligo di provvedere entro termini precisi, la violazione dei quali fa scattare il potere sostitutivo e la responsabilità del soggetto inerte.

Ma non basta. In effetti, non sono mancati negli anni comportamenti profondamente scorretti delle PA che in alcuni casi, una volta formatosi il silenzio-assenso, sono tuttavia intervenute successivamente per adottare un provvedimento espresso di segno contrario, lasciando in questo caso davvero spiazzato il cittadino; per altro, questo comportamento è stato non di rado considerato legittimo dalla giurisprudenza amministrativa (per tutte: Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza 13 gennaio 2014, N. 63: «con riguardo alla formazione del silenzio assenso, il decorso del termine previsto per la conclusione del procedimento, secondo l' unanime giurisprudenza, non consuma il potere della Amministrazione di provvedere, sia in senso satisfattivo per il destinatario dell' atto finale del procedimento medesimo, sia in senso a lui negativo»).

Ma a questo fenomeno ha risposto uno dei tanti, troppi “decreti semplificazioni” visti nel passato, il d.l. 76/2020, convertito in legge 120/2020, che ha introdotto sempre nel corpo dell’articolo 2 della legge 241/1990 un altro fondamentale comma, l’8-bis: “Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14-bis, comma 2, lettera c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, ovvero successivamente all’ultima riunione di cui all’articolo 14-ter, comma 7, nonché i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti, di cui all’articolo 19, commi 3 e 6-bis, primo periodo, adottati dopo la scadenza dei termini ivi previsti, sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall’articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni”. Per effetto di tale disposizione, il silenzio assenso, una volta formatosi non può essere contraddetto da un provvedimento espresso successivo di segno contrario, a meno che non si tratti di un provvedimento di annullamento del silenzio assenso, da motivare in relazione alle violazioni di legge che esso abbia eventualmente determinato.

Il tutto, dimostra che la vera riforma e la vera semplificazione del procedimento si otterrebbero non introducendo risibili provvedimenti espressi di conferma di provvedimenti taciti o inutili clausole di conclusione del procedimento, bensì intervenendo sulle cause che portino alle inefficienze operative.

Non è accettabile, in effetti, che alcune amministrazioni agiscano come se il silenzio assenso non si sia formato e pretendano la dimostrazione espressa di un fatto implicito. Così come non è accettabile il comportamento contrario a buona fede e correttezza delle PA che adottino un provvedimento di diniego, una volta formatosi il silenzio assenso. Ancora, dovrebbe risultare chiaro che il silenzio assenso non è un metodo ordinario e normale di gestione dei procedimenti amministrativi. Sono tantissime le PA ed i funzionari che ritengono di poter svolgere la propria attività senza mai adottare il provvedimento finale, lasciando tutto al decorso dei termini, specie nell’edilizia. Dovrebbe risultare chiaro che il silenzio assenso è un rimedio apprestato al cittadino contro l’inerzia della PA, volto a consentirgli comunque l’ottenimento del beneficio, nonostante il silenzio dell’ente al quale si sia rivolto.

Come visto sopra, la legge 241/1990 prescrive in capo agli uffici il dovere di concludere ogni procedimento con un provvedimento esplicito, sanzionando appunto il silenzio o il ritardo con le responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente.

Ma, allora, il problema reale è proprio questo: la verifica dell’effettiva reazione della PA contro i funzionari che non adempiono ai doveri.

Una riforma davvero utile ed efficace, dunque, non potrebbe essere altro che quella capace di introdurre strumenti, organismi, di controllo amministrativo sull’azione amministrativa e sul corretto operato.

Il cittadino e l’impresa, di fronte all’eventuale pretesa di una PA di ottenere la dimostrazione per iscritto del silenzio tacito, dovrebbe essere in grado di ottenere tutela, gratis ed immediata, da un’autorità amministrativa che intervenga a controllare l’operato, chiedendo conto e ragione alla PA della vessazione inutilmente perpetrata ed avviando le necessarie iniziative di sanzione nei confronti dei responsabili.

Allo stesso modo, tale autorità dovrebbe poter verificare se, a fronte della mancata adozione dei provvedimenti entro i termini, le PA attivino davvero, come sarebbe doveroso, le azioni di responsabilità nei confronti dei funzionari e dirigenti inadempienti.

Con un sistema di controlli di questo genere, senza introdurre paradossi, si potrebbe contare su una maggiore correttezza operativa.

Non si dica che i controlli complichino, rallentino ed appesantiscano. Non c’è imprenditore che non preveda controlli di qualità sui propri prodotti, prima di immetterli sul mercato, per evitare dure reazioni della clientela. Non si vede perché da circa 30 anni si pensi sia possibile per la PA agire in assenza di alcun controllo preventivo, ma anche successivo, sui suoi provvedimenti e sui suoi comportamenti, posto che anche di queste componenti è fatta la qualità qualità dell’operato. Un malinteso senso dell’autonomia degli enti ha innescato sistemi gestionali perversi, che una riforma del procedimento amministrativo come quella descritta dal Messaggero finirebbe per rendere ancor peggiori.

Infine, un’annotazione tecnica. Il ragionamento sul silenzio assenso rivolto, come narrato dall’articolo, alle procedure di avvio di cantieri o alle richieste di concessione è completamente erroneo.

Infatti, in questi casi non si applica per nulla il silenzio assenso, cioè quanto disciplinato dall’articolo 20, comma 1, della legge 241/1990. Si applica, invece, l’articolo 19 della medesima legge. Se si torna a leggere il testo dell’articolo 20, comma 1, esso fa salvo appunto l’articolo 19, norma dedicata proprio all’apertura delle attività imprenditoriali ed ai “cantieri” nell’edilizia privata.

L’articolo 19 regolamenta la Segnalazione Certificata di Inizio Attività (nota come Scia), fattispecie solo simile, ma profondamente diversa dal silenzio assenso.

Con la Scia, il soggetto privato forma autonomamente e da sé il titolo giuridico necessario ad avviare l’attività di impresa, avvalendosi dell’operato dei professionisti che elaborano la documentazione tecnica e progettuale e le varie documentazioni necessarie. Non si forma, quindi, un assenso tacito, ma un titolo a formazione privatistica, che esibito alla PA destinataria consente al privato di avviare da subito l’attività; la PA dispone di termini brevi, variabili a seconda dell’attività, tra i 30 e i 60 giorni, per adottare provvedimenti che inibiscano la prosecuzione dell’attività stessa o prescrivano misure ulteriori da adottare, entro termini specifici.

Non si vorrebbe che si equivochino i controlli successivi alla Scia come appunto quelle sgradite “eccezioni” mosse a chi attiva cantieri o attività di imprese: sarebbe davvero una partenza col piede totalmente sbagliato.

AGGIORNAMENTO (4.5.2021)

Non si affermi che la modifica proposta serve ad agevolare i rapporti tra cittadini e soggetti privati, come ad esempio banche o comunque finanziatori di progetti edilizi o imprenditoriali, i quali hanno bisogno della comprova dell'effettiva formazione del silenzio assenso.

L'articolo 20, comma 8, del dPR 380/2001 è stato previsto ed introdotto esattamente a quello scopo, come antesignano della balzana idea della certificazione dell'avvenuto silenzio assenso: "Decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, ove il dirigente o il responsabile dell’ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso, fatti salvi i casi in cui sussistano vincoli relativi all’assetto idrogeologico, ambientali, paesaggistici o culturali, per i quali si applicano le disposizioni di cui agli articoli da 14 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241. Fermi restando gli effetti comunque prodotti dal silenzio, lo sportello unico per l’edilizia rilascia anche in via telematica, entro quindici giorni dalla richiesta dell’interessato, un’attestazione circa il decorso dei termini del procedimento, in assenza di richieste di integrazione documentale o istruttorie inevase e di provvedimenti di diniego; altrimenti, nello stesso termine, comunica all’interessato che tali atti sono intervenuti".

Quanto trascritto con nostra sottolineatura è stato introdotto dall'articolo 10, comma 1, lettera i), del d.l. 76/2020, convertito in  legge 120/2020.

Ma, la stessa legge ha reso obbligatorio, per i privati, accettare le dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dell'atto sostitutivo di notorietà, intervenendo sull'articolo 2 del dPR 445/2000:


Dunque, non risulta affatto necessario, nè opportuno pensare a trasformare una fattispecie implicita e tacita, il silenzio-assenso, in un certificato esplicito.

Bisognerebbe, all'opposto, solo che le amministrazioni pubbliche comprendessero quanto sia improponibile pensare di concludere sistematicamente le procedure senza esprimersi, cosa che vìola le disposizioni generali della legge 241/1990; aggiungendo che nei casi, da considerare rari ed eccezionali, di formazione del silenzio assenso, così come le pubbliche amministrazioni, anche i privati debbono essere messi nelle condizioni di verificare la veridicità delle dichiarazioni sostitutive, mediante un accesso semplice, immediato, diretto e gratuito alle banche dati delle PA.

Altrimenti, è inutile baloccarsi su un silenzio assenso che evidentemente non si è in grado di gestire e disciplinare in maniera seria ed efficiente.


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