mercoledì 2 marzo 2022

Il reclutamento della dirigenza pubblica non può restringersi ad un assessment psicologico

 Non è dato sapere se presso alcune università gli incarichi ai docenti ed ai dirigenti discenda da un assessment di psicologi del lavoro. Potrebbe darsi e, nel caso, si tratterebbe di una pratica interessante, da studiare e condividere, per verificare quanto di essa sia esportabile nelle selezioni per i dirigenti pubblici.

Sicuramente il tema della capacità di attivare relazioni positive con strutture e dipendenti, assumersi le responsabilità connesse al ruolo, tra le quali quelle di guida, l’idoneità a dirigere per progetti contenenti l’indicazione di compiti da svolgere, risultati connessi, risorse da utilizzare, ruoli da svolgere, rendicontazioni collegate e misurazione preventiva degli input e dei benefici complessivi, è fondamentale.

La dirigenza pubblica deve essere formata e idonea, per svolgere il proprio ruolo delicatissimo, consistente nell’attuazione delle politiche decise dagli organi di governo utilizzando il complesso delle risorse pubbliche disponibili, e la sua selezione è a sua volta opera delicata.

Immaginare l’accesso alla dirigenza come “coronamento” di una carriera, o come un incarico “senatoriale”, o come riconoscimento di una “vicinanza politica” con chi incarica, determina il rischio concreto, e molto spesso in effetti verificato, di comporre una compagine dirigenziale poco motivata o troppo orientata a confondere il ruolo dirigenziale con quello politico-partitico. Soprattutto, il rischio è la creazione di un sistema autoreferenziale, come tale non pienamente capace di realizzare con professionalità ed utilizzando al meglio le risorse pubbliche, attuando con lealtà gli indirizzi politici, mutevoli nel tempo, perchè mutevoli sono le maggioranze, nella consapevolezza che al mutare delle compagini di governo non deve mutare la lealtà, la capacità operativa tendente alla realizzazione dei risultati connessi agli obiettivi.

Il tema, quindi, posto dalla professoressa Raffaella Saporito con l’articolo “Tre domande chiave per modernizzare la dirigenza pubblica”, pubblicato da Il Sole 24 Ore del 2 marzo 2022 è fondamentale ed importante: del resto, tocca argomenti da decenni all’attenzione.

Se il tema di fondo è corretto e le preoccupazioni condivisibili, appaiono, invece, poco appaganti e stantie, molto stantie, le soluzioni proposte in particolare con riguardo alla prima delle tre domande poste, relativa al “come reclutare la dirigenza”.

L’analisi proposta evidenzia, ancora dopo 30 anni, una certa prigionia negli slogan di quel New Public Management ormai messo da parte, senza rimpianti, anche dai sistemi anglosassoni ove fu teorizzato. In molte situazioni, il problema della riforma della dirigenza della PA, a partire dal reclutamento, viene affrontato con un lessico irrinunciabile ed evocativo, un po’ come i comandi tedeschi ai cani: al posto di sitz, platz, voraus, komm, leggiamo le paroline magiche inglesi, come leadership, management, assessment (nell’articolo manca stakeholder, ma diamolo per letto).

Purtroppo, non sono le formule magiche a risolvere il problema del ruolo e del reclutamento della dirigenza, per quanto la capacità di guida, gestionale e una valutazione anche dei profili e delle competenze connesse al ruolo di vertice (come si nota, gli stessi concetti si possono anche esprimere in italiano), siano necessarie ed indispensabili.

Affermare che i concorsi per la dirigenza non sono troppo diversi dai concorsi previsti per le aree delle qualifiche, significa evidenziare una conoscenza molto teorica dei meccanismi selettivi.

L’accesso alla dirigenza, proprio per le esigenze di guida, responsabilità e gestione operative richieste, è il salto da un tipo di lavoro ad uno che, molte volte, è completamente diverso: lo si chieda, per esempio, ai docenti che passino a svolgere la funzione di dirigente scolastico.

L’accertamento di competenze fondamentali di carattere relazionale è utile. Ma, non si risolvono i problemi connessi, ad esempio, alla progettazione e rendicontazione del Pnrr, o alla pianificazione urbanistica di un comune, o alla predisposizione dei processi gestionali per assicurare il pagamento di politiche attive e passive ai lavoratori, o alla gestione della logistica di un porto, con la ledership e l’assessment da soli.

Un direttore di un museo dovrà, oltre ai requisiti relazionali, anche dimostrare non solo di conoscere l’arte, ma anche il complesso sistema degli appalti, dei contratti, delle assicurazioni, della contabilità industriale.

L’accesso alla dirigenza è un vero e proprio salto verso una nuova professione e per questo, come sancisce da sempre una consolidatissima giurisprudenza, occorre un concorso, ai sensi dell’articolo 97 della Costituzione, che nessun assessment può riuscire ad abolire o eludere.

L’autrice nota che la gran parte del “bacino” di reclutamento della dirigenza pubblica proviene dalle aree dei funzionari (in effetti è esattamente quanto prevede l’articolo 7 del dPR 70/2013), stupendosi che l’esperienza maturata come funzionari non entri nella valutazione connessa alla selezione.

Basterebbe prendere atto che, come rilevato sopra, l’accesso alla dirigenza implica un netto cambiamento del “mestiere” svolto, per passare dallo stupore alla ragione.

L’esperienza nel ruolo di funzionario è, nell’attuale normativa, un requisito soggettivo per accedere ai concorsi: nulla vieta al legislatore ed alle amministrazioni, mediante i concorsi, anche di farla valere.

Anni addietro il Legislatore decise di effettuare i concorsi per la dirigenza esclusivamente per esami, senza curarsi dei titoli. Fu una scelta troppo drastica, finalizzata alla massima rigorosità selettiva, ma a pena di non tenere conto dei percorsi precedenti.

Giusto pensare di arricchire il sistema di reclutamento con valutazioni dei titoli e delle esperienze.

Tuttavia, raccontare i concorsi come banali lotterie nozionistiche, nelle quali prevale chi, come immaginato dall’autrice, “si mette in ferie per studiare” è una grottesca caricatura della realtà.

Di storie di funzionari che hanno affrontato i concorsi a seguito di un vero e proprio percorso formativo informale sul campo, svolto con attenzione, talvolta anche grazie alla funzione di “mentore” di dirigenti volenterosi, talaltra malgrado dirigenti autoritari e neghittosi, sottraendo tempo e notti alla propria vita privata, senza invece nemmeno un giorno di ferie da dedicare allo studio, ve ne sono moltissime, a fronte di percentuali quasi non enumerabili di qualcuno che, evidentemente approfittando appunto di dirigenti distratti e incapaci di fissare programmi e compiti di lavoro, si astenga dal servizio per “studiare”.

La riforma dell’accesso alla dirigenza disposta col d.l. 80/2021, considerata dalla Saporito come positivo primo passo verso una dirigenza nuova, manageriale e ricca di leadership, pecca(1), invece, sotto molti aspetti, in particolare per l’eccessivo spazio alla fiduciarietà, sublimato nelle progressioni verticali verso la dirigenza, a detrimento proprio della necessità di reclutare tenendo il più che sia possibile unita la selezione per conoscenze, competenze, capacità operative, esperienze pregresse, titoli, stili.

Affrontare il tema dell’accesso alla dirigenza per slogan o proponendo metodi finalizzati solo a valutare capacità relazionali è sterile.

Molto più produttivo sarebbe, invece, puntare su un sistema generalizzato di “praticantato”, svolto da serie scuole di specializzazione, noto in qualche misura nell’esperienza dei passaggi di fascia per i segretari comunali ed in quella del corso-concorso gestito dalla Scuola superiore dell’amministrazione.

Il metodo che appare migliore per “scolpire” e selezionare la futura dirigenza, senza dare troppo spazio alla fiducia o ad improbabili, quanto facilmente politicamente orientabili assessment (forse, molto utilizzati nel privato, ove, si ricorda, il proprietario sceglie come vuole i propri dipendenti e dirigenti ed orienta molto l’assessment sulla genetica) è costruire un percorso di esperienze e titoli, che guidi verso un corso formativo, composto da un “praticantato” di qualche mese in funzioni dirigenziali, da chiudere poi con un esame finale.

In effetti, tra i pregi, non moltissimi, del d.l. 80/2021 è il tentativo - fin qui però andato a vuoto - di rilanciare l’apprendistato nella PA. Un percorso di apprendistato specifico per la dirigenza potrebbe rivelarsi una soluzione, certo da articolare e pensare molto seriamente, migliore di qualsiasi concorso solo nozionistico o di qualsiasi reclutamento per fiducia, o anzianità o assessment psicologico.

Se si riesce a venire fuori dalle parole magiche, dagli slogan, dal paragone insostenibile col privato, si potrà dare un contributo reale alla soluzione dei problemi. Senza, per questo, passare per “minoranza retriva”.


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(1) Si veda, in maniera più diffusa, L. Oliveri, La fiducia nel reclutamento dei dirigenti pubblici, in Giornale di Diritto Amministrativo, n. 6/2021, pag. 691.

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