L’introduzione dell’offerta congrua ad iniziativa dei privati è, attualmente, di fatto solo una disposizione di principio, concretamente non attuabile.
Il nuovo articolo 34-bis
introdotto dal “decreto aiuti” nel corpo del d.l. 4/2019, convertito in legge
26/2019, dispone: “Le offerte di lavoro congrue di cui al presente decreto
possono essere proposte ai beneficiari di cui al comma 7 del presente articolo
direttamente dai datori di lavoro privati. L’eventuale mancata accettazione
dell’offerta congrua da parte dei beneficiari di cui al medesimo comma 7 è
comunicata dal datore di lavoro privato al centro per l’impiego competente per
territorio, anche ai fini della decadenza dal beneficio. Con decreto del
Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da adottare entro sessanta
giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, sono
definite le modalità di comunicazione e di verifica della mancata accettazione
dell’offerta congrua”.
L’ultimo periodo di tale comma è sintomatico di un modo di legiferare dal molto tempo consueto: la legge si limita ad indicare scenari molto ampi, non più generali e astratti ma solo di principi molto laschi, senza concretamente introdurre la specifica innovazione ordinamentale, demandata a successivi provvedimenti.
Infatti, la possibilità di far
partire il sistema dell’offerta congrua ad iniziativa del datore privato
dipende dal decreto del Ministro del lavoro, che ha il compito delicato di
passare dalle mere enunciazioni generali alla concreta specificazione:
1.
di come si accerti la “mancata accettazione”
(non si poteva scrivere più brevemente “rifiuto”) dell’offerta congrua da parte
del datore di lavoro;
2.
di come il datore lo comunichi al centro per
l’impiego;
3.
soprattutto, di come e chi abbia debba curarsi
della “verifica” della “mancata accettazione”.
Il sistema rischia di incagliarsi
e bloccarsi prima ancora di partire proprio per i problemi connessi alla
verifica.
Alcuni elementi appaiono grosso
modo comprensibili. In primo luogo, i datori di lavoro dovranno necessariamente
formalizzare un’offerta di lavoro congrua, la quale non potrà che avere la
forma scritta e dovrà ovviamente essere sottoscritta dal proponente, contenendo,
ai sensi del DM 42/2018 in modo chiaro:
a) la qualifica da ricoprire e le
mansioni;
b) i requisiti richiesti;
c) il luogo e l’orario di lavoro;
d) la tipologia contrattuale;
e) la durata del contratto di
lavoro;
f) la retribuzione prevista o i
riferimenti al contratto collettivo nazionale applicato.
Questa proposta, tuttavia, è
lungi dal poter essere gestita, in via “semplificata” autonomamente dal datore
di lavoro. Infatti, il datore deve essere certo che:
a)
si tratti di un percettore del reddito di
cittadinanza; dovrebbe quindi verificarlo col centro per l’impiego (ma le
banche dati dei Cpi non ricevono in tempo reale i rilasci del RdC dall’Inps) o
con l’Inps;
b)
si tratti di persona disoccupata; anche in
questo caso, il datore deve verificarlo, stavolta col centro per l’impiego.
Inoltre, ai sensi dell’articolo 4
del citato DM 82/2018, il datore dovrebbe anche verificare la durata della
disoccupazione, fondamentale per la coerenza dell’offerta con le esperienze e
competenze maturate dal lavoratore: anche in questo caso, sembra del tutto
necessaria un’interlocuzione coi centri per l’impiego, anche perché pare del
tutto inverosimile che il destinatario della proposta congrua possa rilasciare
una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà valevole per il datore,
visto che la disciplina delle autocertificazioni contenuta nel dPR 445/2000 non
si applica nelle relazioni tra privati.
Dunque, nei fatti, anche solo per
elaborare la proposta congrua, comunque il datore privato non può fare a meno
di rivolgersi comunque all’operato dei centri per l’impiego e dell’Inps, se
intende costruire un’offerta legittima e sostenibile in ogni sede.
Come deve essere scritta,
sottoscritta e quindi formale l’offerta congrua, altrettanti requisiti deve
avere il suo rifiuto. Il datore, per poter comunicare al centro per l’impiego,
infatti, il rifiuto di tale offerta deve poter costruire un dossier
comprovabile, non potendo certo bastare il “racconto” di contatti verbali o
informali col lavoratore e soprattutto di un rifiuto della proposta anch’esso
informale. Sarà, tuttavia, molto difficile per i datori privati porre in essere
atti di coercizione del lavoratore a sottoscrivere un rifiuto formale, come
anche non semplicissima è la comprova di convocazioni e riunioni. Occorrerebbe
che la normativa costruisse in capo ai datori privati offerenti di offerte
congrue il ruolo di incaricati di pubblico servizio, così da permettere loro di
redigere verbali comprovanti i fatti fino a querela di falso. Ma, pare davvero
possibile considerare “pubblico servizio” una negoziazione di un rapporto di
lavoro? La forzatura pare evidente.
Inoltre, il DM 42/2018 comunque all’articolo
8 contiene una serie di cause giustificative[1]
dei rifiuti da parte dei lavoratori. E’ immaginabile che i datori privati
compiano verifiche istruttorie su tali circostanze, agendo senza una specifica
attribuzione di un potere pubblico, che la norma approvata dal Parlamento non
assegna loro in modo espresso?
Poniamo che le difficoltà
indicate sopra riferite alle sole modalità di proposizione dell’offerta congrua
e di acquisizione formale del rifiuto ingiustificato siano superabili e che un
datore abbia potuto in effetti proporre un’offerta formalmente rifiutata da un
percettore del RdC. Il datore dovrà comunicare l’evento al centro per
l’impiego. La comunicazione non sarà un grande problema: si immagina verranno
realizzati canali specifici nel portale Anpal o nei servizi informativi
regionali e, comunque, nelle more della loro realizzazione ed utilizzabilità la
posta elettronica certificata potrà certamente andare bene.
Ma, a valle del rifiuto della
proposta e della sua comunicazione al centro per l’impiego da parte del datore
(comunque, chiamato ad un’ulteriore incombenza amministrativa) si apre il
problema della “verifica”.
Pare evidente che la verifica del
rifiuto dovrà necessariamente estendersi all’intero processo e, quindi,
esaminare se la proposta presentata in modo formale risulti realmente congrua
in quanto conforme ai requisiti di cui al DM 42/2018 come integrati
dall’articolo 4, commi 8 e 9, del d.l. 4/2019 ed acquisire un rifiuto
formalizzato in un atto o certificato da una dichiarazione del datore,
qualificabile come “verbale” facente fede fino a querela di falso. Dunque, la
comunicazione del rifiuto appare meno semplice: per poter scatenare
l’applicazione della sanzione consistente nella decadenza dal RdC, dovrà contenere
tutta la documentazione necessaria alla verifica successiva.
Resta il problema
dell’individuazione del soggetto competente a compiere, poi, tale verifica. Per
come è scritta la novella al d.l. 4/2019, sembra evidente, infatti, che
l’applicazione della sanzione della decadenza abbia come presupposto di
legittimità appunto il compimento della verifica, che accerti l’effettiva
congruità dell’offerta formalmente proposta al lavoratore da parte del datore e
il formale ed ingiustificato rifiuto di questo.
In apparenza, poiché la
comunicazione dei datori sarà rivolta ai centri per l’impiego “anche ai fini
della decadenza dal beneficio”, si potrebbe pensare che la verifica sia di
competenza dei Cpi medesimi.
Tuttavia, non si deve dimenticare
quanto prevede l’articolo 7, comma 10, del d.l. 4/2019: “L'irrogazione delle
sanzioni diverse da quelle penali e il recupero dell'indebito, di cui al
presente articolo, sono effettuati dall'INPS”.
Quindi, competente a disporre la
decadenza dal RdC non è il Cpi, ma l’Inps. Infatti, il successivo comma 12 del
citato articolo 7 precisa: “I centri per l'impiego e i comuni,
nell'ambito dello svolgimento delle attività di loro competenza, comunicano alle
piattaforme di cui all'articolo 6, al fine della messa a disposizione dell'INPS,
le informazioni sui fatti suscettibili di dar luogo alle sanzioni di cui al
presente articolo, ivi compresi i casi di cui all'articolo 9, comma 3, lettera
e), entro dieci giorni lavorativi dall'accertamento dell'evento da sanzionare”.
Pertanto, i Cpi debbono limitarsi
a segnalare all’Inps l’evento. Poi, è l’Inps ad irrogare la sanzione.
La responsabilità del
procedimento di irrogazione della sanzione, dunque, ricade sull’Istituto, che,
quindi, ai sensi della legge 241/1990, risulta titolare dell’istruttoria.
Si è visto sopra che la verifica
della corretta gestione del processo con cui si giunge al rifiuto
ingiustificato dell’offerta congrua è il presupposto per la legittima
applicazione della sanzione; si deve, dunque, concludere che la verifica debba
essere effettuata dal soggetto titolare della competenza a sanzionare, cioè
l’Inps, e non dal soggetto chiamato solo a segnalare l’evento, cioè i centri
per l’impiego. I quali, quindi, dovrebbero limitarsi a fare da “passa carte”
all’Inps, trasferendo la documentazione acquisita a seguito della ricezione
della comunicazione del rifiuto dell’offerta congrua da parte del percettore
del RdC.
Vedremo se sarà così, come logica
vorrebbe, o se il Ministero scaricherà, impropriamente, sui Cpi una verifica
spettante, a ben vedere all’Inps.
Certo è che il meccanismo,
comunque sia disegnato l’iter, si presta ad un contenzioso estesissimo.
Il percettore è messo nelle
condizioni di dolersi nei confronti del datore, anche chiamandolo a
responsabilità per falso, facendo valere l’inesistenza dei requisiti della
proposta. Ma, potrebbe chiamare in causa anche i servizi pubblici, Inps o
Centri per l’impiego, allo scopo di far valere l’illegittimità per incompetenza
della verifica o comunque per l’insufficienza probatoria della verifica, con
richiesta risarcitoria e anche possibilità di azioni penali per possibile
falso.
L’impianto normativo, anche se
ancora inefficace e carente del decreto attuativo, si presenza, insomma,
tutt’altro che una semplificazione: si tratta, invece, di un processo di
estrema complessità e idoneo ad aprire un contenzioso potenzialmente molto
vasto. Solo i costi da contributo unificato davanti ai Tar e ovviamente gli
oneri per i legali potranno rappresentare un deterrente nei confronti dei
percettori del RdC, che come tali non dovrebbero avere troppe disponibilità per
affrontare vertenze. Ma, il contenzioso potrebbe anche essere riferito a
richieste di autotutela o attivato mediante ricorsi gerarchici. In ogni caso,
si rischia comunque di elevare e non di poco la tensione tra lavoratori, datori
e centri per l’impiego: episodi non gradevoli, conseguenti a decurtazioni o
decadenze, in questi mesi sono già accaduti.
Ma, i problemi non finiscono qui.
A meno che il datore di lavoro non venga a sapere direttamente dal lavoratore
che si tratti di un percettore di reddito di cittadinanza, come si è visto
sopra l’unico sistema per saperlo è chiedere all’Inps o ai Centri per l’impiego.
Qui, però, scattano rilevantissimi
problemi connessi alla tutela della riservatezza. Ai sensi del Regolamento (UE)
2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a proposito
di trattamento di categorie particolari di dati personali, articolo 4, par. 1,
n. 1, “dato personale” è “qualsiasi informazione riguardante una persona
fisica identificata o identificabile” e “si considera identificabile
la persona fisica che può essere identificata, direttamente o
indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il
nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un
identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità
fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o
sociale”.
Come evidenziato dal Garante per
la protezione dei dati personali nell’Ordinanza ingiunzione nei confronti di
Regione Lombardia - 22 luglio 2021 [9697724] “i soggetti pubblici, come la
Regione, possono diffondere «dati personali» solo se tale operazione è prevista
«da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento» (art.
2-ter, commi 1 e 3, del Codice), nel rispetto – in ogni caso – dei principi in materia di protezione dei dati,
fra cui quello di «minimizzazione», in base al quale i dati personali devono
essere «adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità
per le quali sono trattati»”.
In particolare, il Garante evidenzia
che “È esclusa la pubblicazione dei dati identificativi delle persone
fisiche destinatarie dei provvedimenti di cui al presente articolo, qualora da
tali dati sia possibile ricavare informazioni relative […] alla situazione di disagio
economico-sociale degli interessati» (art. 26, commi 2-4, del d. lgs. n. 33 del
14/3/2013).
[…] In ordine alla diffusione
online di dati personali di soggetti beneficiari di contributi economici, fin
dal 2014, il Garante ha fornito specifiche indicazioni alle pubbliche
amministrazioni sulle cautele da adottare, con il provvedimento generale n. 243
del 15/5/2014, recante le «Linee guida in materia di trattamento di dati
personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato per
finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da altri
enti obbligati», pubblicato in G.U. n. 134 del 12/6/2014 e in www.gpdp.it, doc.
web n. 3134436 (attualmente in corso di aggiornamento, ma ancora attuale nella
parte sostanziale).
Nelle Linee guida del Garante
sopra citate, è espressamente sancito, con riferimento all’obbligo di
pubblicazione degli atti di concessione di benefici economici (parte prima,
par. 9.e), che «lo stesso d. lgs. n. 33/2013 individua una serie di limiti all’obbligo
di pubblicazione di atti di concessione di benefici economici comunque
denominati. Non possono, infatti, essere pubblicati i dati identificativi delle
persone fisiche destinatarie dei provvedimenti di concessione di sovvenzioni,
contributi, sussidi e attribuzione di vantaggi economici, nonchè gli elenchi
dei relativi destinatari”.
Ora, bisogna chiedersi quale sia
il ruolo di Inps e Centri per l’impiego nell’ambito di un sistema di
proposizione delle offerte congrue di lavoro da parte dei privati. Escluso che
l’Inps possa svolgere funzioni di mediazione della domanda, a ben vedere l’impostazione
della novella normativa porta a ritenere che il privato possa rivolgere ad un
percettore del reddito di cittadinanza un’offerta congrua di lavoro a
condizione di sapere che il destinatario di detta offerta sia appunto un
percettore.
Se l’offerta congrua fosse mediata
da un Centro per l’impiego, questo sarebbe a conoscenza direttamente della
condizione di percettore di reddito. Il sistema, in astratto, dovrebbe
consistere in un meccanismo per il quale Centri per l’impiego captano o
promuovono offerte provenienti da aziende dotate dei requisiti previsti dal DM
del 2018, così da poter valutare se esse possano considerarsi “congrue”, se
proposte ad un percettore. Il datore privato viene a sapere della condizione di
percettore del reddito della persona proposta dal Cpi ai fini dell’assunzione,
allo scopo di poter beneficiare dell’esonero dal versamento dei contributi
previdenziali e assistenziali previsto dall’articolo 8, comma 1, del d.l.
4/2019, come strumento per incentivare il reclutamento dei beneficiari del
reddito. Il trattamento del dato personale da parte del Cpi, quindi, risponde
al fine generale di favorire l’inserimento lavorativo ed è evidentemente frutto
di un’interlocuzione stringente col datore, che nel presentare l’offerta
qualificabile come congrua deve mostrare una concreta volontà di assumere, per
effetto della quale la comunicazione della condizione soggettiva del percettore
diviene trattamento legittimo.
Ma, laddove la relazione ai fini
del reclutamento intervenga direttamente tra datore di lavoro e lavoratore,
saltando quindi l’operato di un mediatore, la congruità dell’offerta come
strumento per applicare le sanzioni discende dalla circostanza che il datore –
come più volte evidenziato – sia al corrente che il lavoratore sia percettore
di reddito di cittadinanza.
A meno che tale condizione non
sia rivelata spontaneamente dal lavoratore, il datore non può che chiederlo
agli unici soggetti che dispongano delle banche dati, Inps e Cpi, come detto.
Tuttavia, c’è da chiedersi come l’Istituto
e i centri per l’impiego possano considerarsi legittimati a diffondere a
privati dati personali idonei a rivelare una condizione soggettiva che riveli
le sue condizioni economiche e sociali, in assenza di un presupposto giuridico
fortissimo di legittimità.
E’ estremamente complicato
pensare che i datori privati possano chiedere agli enti preposti un elenco
complessivo “a strascico” dei percettori del reddito di cittadinanza, per sondare
l’eventualità di chiamarli poi allo scopo di presentare loro l’offerta congrua di
lavoro: sarebbe una diffusione di dati personali a fortissimo rischio di
illiceità. Occorrerebbe allo scopo pur sempre una manifestazione chiara di
volontà di effettuare l’assunzione.
La diffusione di elenchi di
percettori risulta di evidente difficoltà. Ma, senza la possibilità per i
datori privati di accedere all’informazione sullo status dei lavoratori, tutto
il sistema si impiglia. E, d’altra parte, tra i rischi già visti sopra di contenzioso,
di per sé molto ampi, non si possono nascondere anche quelli correlabili a
possibili questioni su improprie rivelazioni di dati personali da tutelare.
Il compito del MD attuativo della
novella normativa, come si nota, risulta molto arduo e tante delle questioni
sottese all’attivazione dell’offerta congrua di iniziativa del privato datore di
lavoro si sarebbero dovute affrontare e risolvere con la fonte normativa, poiché
alcuni aspetti particolarmente delicati, come il trattamento dei dati
personali, non pare si possano con piena legittimità affrontare con fonti
regolamentari o di secondo livello.
a) documentato
stato di malattia o di infortunio;
b) servizio civile e richiamo alle armi;
c) stato di gravidanza, per i periodi di astensione
previsti dalla legge;
d) gravi motivi familiari documentati o certificati;
e) casi di limitazione legale della mobilità
personale;
f) ogni comprovato impedimento oggettivo o causa di
forza maggiore, documentati o certificati cioè ogni fatto o circostanza che
impedisca al soggetto di accettare l’offerta di lavoro congrua.
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