Tema:
stipendi più alti ai professori che lavorano al nord, perché la vita è più alta.
Svolgimento:
Ennesima soluzione facile e fuorviante, proposta per risolvere problemi molto complessi e, dunque, destinata ad essere, se realmente adottata, dannosa e controproducente; ma anche ennesimo tentativo di sviare da temi ben più importanti.
Al fondo di simili bislacche proposte, c’è la storia troppe volte riottosa a fare davvero da Maestra di vita. La conoscenza della difficilissima evoluzione dell’Italia dall’unità a oggi evidentemente non è nota: se progressivamente la scuola da comunale e clericale è passata a statale e centrale, comprendendo anche il trattamento economico dei docenti, vi sono ragioni profonde. I libri di storia sono lì per questo: sarebbe il caso di leggerli.
C’è, poi, una periodica riscoperta del presunto beneficio delle “gabbie salariali”. Un metodo, si potrebbe affermare, per collegare il costo del lavoro alle realtà territoriali, comprendenti anche proprio il valore del costo della vita.
Purtroppo, è una fascinazione infondata, che rischia di legittimare valori paradossali: quello, cioè, non del perseguimento dell’elevazione delle condizioni, anche retributive, del lavoro, bensì del distanziamento della forbice tra zone ricche e zone meno ricche. Alle prime stipendi più elevati, alle seconde meno alti, così da innescare un processo potenzialmente perverso che, sempre i libri di storia, segnalano come già avvenuto ad inizio ‘900: anche in questo caso, consultarli farebbe solo bene.
Incidere sulle retribuzioni dovrebbe essere un metodo per puntare alla crescita omogenea del Pil, non un modo per accentuare diseguaglianze e disfunzioni.
Bisognerebbe essere consapevoli che a fronte di un costo della vita minore, in determinate zone dell’Italia vi sono servizi pubblici, ma anche privati, di qualità inferiore a standard appena accettabili, a partire proprio dall’istruzione.
Merita di guadagnare di più un insegnante, perché lavora a Milano e gli affitti sono carissimi? Ma, perché: l’insegnante che deve educare giovani in territori del Sud a rischio criminalità organizzata, a forte povertà economica e sociale, in strutture cadenti e non manutenute, non meriterebbe attenzione ed incentivo, viste le condizioni difficilissime di lavoro e visto che i risultati che si chiedono, alla fine, sono gli stessi? O l’Invalsi si diversifica tra nord e sud, per esempio?
Giusto pensare a come favorire il lavoro al nord dei docenti, anche perché molti provengono dal sud e si fa fatica a sradicarli (a meno di pensare a voucher incentivanti il viaggio in Freccia Rossa quotidiano da Napoli a Milano).
Ma, perché non affrontare, allora, due nodi certo più difficili da sciogliere e meno di impatto mediatico e populista, di facile presa?
Il primo, il sistema ordinamentale del lavoro pubblico. Invece di pensare a categorie dei secoli scorsi, come le gabbie salariali, sarebbe da pensare seriamente alla possibilità per i datori di lavoro di agganciare gli stipendi reali a fattori connessi alla produttività, con possibilità di estendere il welfare e garantire la formazione continua. Si otterrebbe una diversificazione mirante alla valorizzazione delle realtà più efficienti. Ma, la condizione sarebbe di introdurre non tanto un salario minimo, ma quanto meno standard minimi retributivi per la contrattazione collettiva, mettendo fuori gioco i contratti che intorbidiscono le acque e lasciano interi settori o tipologie con contratti, sì, collettivi, ma dalle condizioni minime insostenibili.
Non bisogna dimenticare che, comunque, un contributo alla diversificazione dei trattamenti economici può discendere oltre che da contratti aziendali e territoriali, anche dagli stessi contratti individuali.
Ora, la Pubblica Amministrazione è un grande datore di lavoro, per circa 3.200.000 dipendenti, dei quali circa 900.000 sono proprio insegnanti.
Ma, può permettersi un datore di lavoro unico di differenziare il trattamento economico di un profilo e di un’attività identici, solo sulla base dell’allocazione territoriale del lavoratore? Visto che c’è una fonte di contrattazione collettiva necessariamente univoca, sarebbe molto semplice prevedere un livello contrattuale retributivo minimo di ingresso, uguale dappertutto. Per una vera differenziazione, allora, capace di tenere conto del costo della vita della zona, come anche di condizioni di lavoro particolarmente estreme, o anche di specifiche capacità individuali, allora bisognerebbe pensare a come estendere l’autonomia contrattuale del datore pubblico, che ad oggi è talmente tanto limitata da risultare quasi solo formale.
I contratti individuali di lavoro pubblici non servono praticamente a nulla: moltissimi dipendenti nemmeno ricordano di averli sottoscritti e non saprebbero nemmeno trovarli.
Sì, è vero, si parla da sempre di incentivi, produttività, premialità, merito. Ma, se, poi, alla fine, come nel comparto enti locali, complicatissimi sistemi di preventivazione e successiva valutazione degli obiettivi sortiscono incentivi mediamente di 1.000 circa l’anno, è evidente che anche in questo caso tutto resta solo pura forma.
Un’autonomia negoziale vera, dovrebbe poter consentire al docente che opera al nord di far valere sia una propria riconoscibile abilità, sia la possibilità di andare a lavorare anche da altre parti, e chiedere un trattamento individuale più conveniente.
Ovviamente, è un sogno: finché il lavoro pubblico resti privatizzato solo per finta e compresso tra tetti di spesa, tetti alle assunzioni, contratti collettivi nazionali che non delegano nulla alla contrattazione decentrata, norme di controllo della spesa complessiva del personale (che incide sulla spesa pubblica per il 19% circa, non poco), l’autonomia negoziale, quella vera, quella che potrebbe far sì che il “mercato” regoli i trattamenti economici, non sarà mai possibile.
Il secondo aspetto è la creazione di condizioni perché il costo della vita del nord sia messo sotto controllo.
E’ perfettamente evidente che qualcosa nella determinazione di tale costo non funziona. Nel milanese la bolla speculativa edilizia è potentissima ed ha fatto salire da troppo tempo ormai alle stelle affitti e prezzi di vendita degli immobili.
Non si scorge nessuna politica pubblica capace di metter sotto controllo questi fenomeni: nessun intervento sull’edilizia, sugli affitti, sulla regolazione della vita delle città. E quando fenomeni esogeni ed impattanti come il Covid hanno fatto scoprire il lavoro agile come possibile forma di organizzazione del lavoro capace di rivedere a fondo proprio anche la simmetrica organizzazione della vita delle città, è stato proprio il sindaco di Milano il primo oppositore dello smart working, perché la sua diffusione avrebbe potuto rischiare il parziale sgonfiamento della bolla. Condendo il tutto con zone B inaccessibili, che costringono all’acquisto di vetture abilitate ad entrarvi, certo non si creano le condizioni per un costo della vita sostenibile da chi vive di stipendi da lavoro subordinato.
Se, insomma, il caro-vita del nord è autoindotto, sarà difficile risolvere davvero il problema e contenere l’innesco di spirali perverse di crescita esponenziale degli stipendi.
Fine del tema. Firma, con la consapevolezza di non aver saputo approfondire gli argomenti trattati, ma anche dell’inopportunità di continuare con boutade e populismi come strumenti della strategia politica di un Paese, che da oltre 30 anni è imprigionato in queste maglie.
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