Lo scritto dell’ex Ministro e vice Ministro dell’economia, Vincenzo Visco, su Il Sole 24 Ore dello scorso 23 aprile “Le difficoltà e il limiti della PA” rappresenta meglio di qualsiasi altro elemento 20 anni di riforme che hanno arrecato all’ordinamento italiano ferite estremamente gravi.
Contrariamente a quanto diffuso dalla vulgata, se in Italia qualcosa non è affatto mancato da decenni sono proprio le riforme. L’assenza che si avverte, semmai, è la qualità delle riforme, questa, sì, attesa vanamente.
Una tra le riforme meno convincenti ed efficaci è quella che riguarda le Agenzie, proliferate in circa 19 dal 1999, e in particolare quelle fiscali. Visco nel suo scritto svela qual era il vero intento della loro costituzione: “Quando nel 1996 divenni ministro delle Finanze, il ministero era una enorme macchina vetusta, semiparalizzata, incapace di svolgere la propria funzione con un minimo di efficienza. Mi limito ad un esempio: dopo poche settimane dall'insediamento venni informato che alcune manifatture dei Tabacchi (che erano, o dovevano essere, imprese) funzionavano a ritmi ridotti per la mancanza di elettricisti. Chiesi allora perché non si affrettassero ad assumerli, e mi risposto che la cosa non era tanto semplice: bisognava infatti indire un pubblico concorso per titoli ed esami, pubblicare il bando sulla gazzetta ufficiale, aspettare la presentazione delle domande, nominare le commissioni di concorso, ecc. Era necessario almeno un anno, e nel frattempo la produzione di sigarette poteva attendere. Queste procedure, tutte coerenti col diritto amministrativo e con l'idea che la PA fosse una unica organizzazione unitaria da gestire con le stesse norme, valevano per l'intero ministero e lo paralizzavano. Queste sono state le ragioni alla base della riforma che trasformò il vecchio Ministero delle Finanze in Agenzie fiscali, più un Dipartimento con il compito di elaborazione e di coordinamento delle Agenzie. E in verità si è trattato dell’unica riforma di un pezzo (importante) della Pa che ha funzionato e che ha avuto pieno successo in termini di recupero di efficienza, produttività e capacità di far fronte alle molteplici esigenze di una fiscalità moderna”; e ancora: “nel caso delle Agenzie fiscali il disegno originale, l'unico razionale, prevedeva che nella gestione del personale esse avessero le stesse possibilità di una impresa privata, e cioè la possibilità di valorizzare il personale, selezionare i migliori, promuoverli, anche con strumenti di selezione interna, e di assumere dall'esterno le professionalità che non fossero disponibili internamente. Nessuna impresa privata mette a concorso i posti di dirigente disponibili nella sua organizzazione: sarebbe irrazionale e anche pericoloso, salvo casi specifici. Ne deriva che sarebbe fortemente consigliabile che per le Agenzie fiscali si tornasse al modello originario, e più in generale che per la riforma della Pa non si facesse ricorso a un modello organicistico, astratto e uniforme, ma si fosse capaci di distinguere le situazioni diverse che si riscontrano in pratica, tenendo presente che i veri limiti della nostra Pa consistono nella sua incapacità di programmare, adeguare per tempo le strutture amministrative, e attivare le decisioni prese in tempi non biblici. Tali difficoltà derivano da due elementi precisi: la formazione prevalentemente giuridica e formalista dei funzionari, l'impalcatura del nostro diritto amministrativo che segue un approccio del tipo: "one size fits all", che ovviamente non funziona”.
In estrema sintesi, dunque, Visco ritiene che per migliorare il funzionamento dei servizi pubblici (in particolare quelli fiscali) occorra privatizzarli. Solo in questo modo l’organizzazione potrebbe diventare davvero “moderna” ed “efficiente”.
E’ il solito, abusato, provinciale, vecchio e peloso refrain del “privato è bello”, a confronto del “pubblico brutto, antiquato, paralizzato, inefficiente”.
Evidentemente Visco, che ha svolto ruoli di primissimo piano in compagini di Governo per lunghi anni, ha compartecipato a sua insaputa a tutte le decisioni che in questi anni non hanno reso la macchina organizzativa della pubblica amministrazione sempre più pesante e difficile da gestire:disciplina assurdamente complessa delle assunzioni, ma non a causa dei concorsi, bensì delle regole incredibili sulla programmazione triennale, i vincoli, sempre modificati, sul tetto di spesa totale, sulle spese da computare nel tetto, sulle soglie del turn over da rispettare, sugli obblighi di preventiva attivazione della mobilità, da realizzare come fosse un concorso, sui tetti di spesa ai fondi della contrattazione. Un insieme di regole che ha creato una Babele normativa ed un sistema talmente intricato da aver fatto dimettere di recente dall’Agenzia per l’Italia Digitale la direttrice nominata meno di un anno fa.
Questi ostacoli ad una gestione del personale quanto meno razionale non sono effetto della “burocrazia” brutta e cattiva. Sono frutto di scelte precise e continuate di Governi e Parlamenti succedutisi negli anni a rendere sempre più fitta la giungla normativa, col capolavoro finale,oggi, della legge 190/2014, causa del garbuglio inestricabile delle assunzioni congelate a causa della devastante riforma delle province.
Visco, invece di fare qualcosa per razionalizzare il sistema interviene oggi ad autoassolversi per il fallimento della propria idea alternativa. Che, come visto, non consiste nel curare gli effetti perversi di una legislazione a dir poco barocca, ma nel creare un “sistema parallelo”, specifico per il fisco. Un ambito nel quale rendere la funzione amministrativa della stessa stregua di qualsiasi attività privata e, sulla base di questa privatizzazione, pretendere regole di ingaggio dei dipendenti e dei dirigenti del sistema delle Agenzie di stampo privato.
Si tratta di un’idea davvero difficile da considerare condivisibile. Al di là dei risultati tutt’altro che lusinghieri ottenuti dalle Agenzie, come l’attuale deprimente esperienza del 730 precompilato (avviato solo per compiacere una campagna elettorale continua del premier) insegna, Visco dovrebbe tenere presente che se c’è, negli Stati, una funzione sicuramente pubblica e da gestire totalmente in maniera pubblicistica è proprio quella del fisco.
L’unità di una Nazione nasce fondamentalmente su tre basi: l’esercito, il potere di governo ed il fisco, che raccoglie le risorse per garantire i primi due elementi.
Sono scoppiate rivoluzioni, come quella americana, proprio dovute al legame strettissimo che esiste tra diritti civili pieni e dovere di pagare le tasse. Il sistema fiscale deve essere pensato esclusivamente per la garanzia assoluta che al cittadino, chiamato a prestare parte significativa del proprio reddito per far funzionare lo Stato, sia assicurato un trattamento equo, semplice, razionale.
Si tratta di una funzione totalmente pubblica perché proprio il tema del fisco è uno dei principali sui quali i cittadini hanno il diritto di valutare l’azione dei propri governi, a partire da come prtetendono il pagamento delle imposte, per poi verificare come le spendono.
I cittadini, dunque, hanno un diritto pieno ed inviolabile a pretendere una struttura efficiente, competente, veloce e capace, ma pubblica, interamente controllabile e trasparente. Nella quale si possa verificare puntualmente chi e come abbia ottenuto poteri amministrativi talmente pervasivi da poter entrare nella sfera più intima e privata di ciascuno, con atti di accertamento e verifica del reddito, di ciò che si paga e ciò che si dovrebbe pagare.
La gestione del fisco non è affatto, contrariamente a quanto sostiene Visco, una faccenda privata, da organizzare e gestire come fosse un’azienda. Non ci sono profitti da perseguire, piani industriali per il prodotto, marketing per la vendita, ma solo servizi da offrire e totale e assoluta equità.
Non si dica, per piacere, che il sistema delle Agenzie in Italia abbia minimamente scalfito il problema dei problemi, l’evasione e la sostanziale iniquità del sistema fiscale, che scarica su lavoratori dipendenti e pensionati l’80% dell’intero gettito.
Il modello difeso da Visco non ha intaccato l’evasione, ma è stato capace di introdurre un sistema di regolazione complessissimo, fatto di circolari, comunicati, direttive, interpelli, un insieme di grida manzoniane e di imposizioni di atti ed attività a cittadini, imprese e professionisti tale da essere un dedalo nel quale trovare una via d’uscita coerente e univoca è impresa disperata.
Quello immaginato da Visco è un sistema che egli ammanta di modernità ed efficienza, mentre invece altro non appare che il feudale e medievale sistema di attribuzione a plenipotenziari del re il compito di gestire il fisco, avvalendosi di una rete di vassalli, valvassori e valvassini creati direttamente da loro, sotto l’egida della politica, al di fuori di ogni controllo democratico e di qualsiasi verifica della presunta efficienza del sistema.
Visco autodifende la propria creatura ed è comprensibile. Tuttavia, le argomentazioni che propone sono semplicemente inaccettabili.
Il sistema feudale di attribuzione degli incarichi dirigenziali è stato ritenuto illegittimo ed abbattuto ripetutamente da Tar, Consiglio di stato e Corte costituzionale. Invece di prendere atto di questo e, magari anche chiedere scusa, i suoi fautori pretendono di interpretare le sentenze, in particolare la 37/2015 della Consulta, sulla base del diritto non com’è, ma come si vorrebbe che fosse. Per altro, il tutto ammantandosi dello status di “economisti” e non dei vituperati giuristi. Curioso pretendere di interpretare elementi di stretto diritto, come una sentenza, alla luce di una competenza giuridica inesistente. Infatti, Visco nel suo articolo propone alcune affermazioni semplicemente sbagliate, probabilmente proprio perché il campo giuridico non è il suo forte. L’ex ministro, infatti, sostiene che la sentenza della Consulta “non appare convincente anche perché la Costituzione prevede l'assunzione per concorso dei dirigenti pubblici, ma non necessariamente il concorso per la loro progressione di carriera”.
Peccato che non esista alcuna progressione di carriera tra area delle qualifiche, quella alla quale appartengono i funzionari illegittimamente incaricati dalle Agenzie come dirigenti, ed area della dirigenza. E peccato che non sia la Costituzione a parlare espressamente di assunzione dei dirigenti per concorso, ma ciò lo si debba al combinato disposto degli articoli 97 della Costituzione e 28 del d.lgs 165/2001. Il quale ultimo è proprio la norma che impone il concorso per accedere alla dirigenza, creando, così, la netta cesura esistente tra area delle qualifiche ed area dirigenziale, tale da impedire qualsiasi progressione di carriera dell’una rispetto all’altra. Inoltre, le progressioni di carriera, regolate dall’articolo 52, coma 1-bis, del d.lgs 165/2001, sono riservate solo ai dipendenti delle aree delle qualifiche e, comunque, si svolgono esclusivamente mediante concorsi pubblici con riserva di posti, non certo mediante cooptazione diretta, come pretendono le Agenzie. Visco, evidentemente questo lo ignora. Ed è molto grave che un ex ministro difenda gli esisti fallimentari di una propria riforma accusando la Consulta di aver sbagliato e, comunque, prendendosela col fato rio e ingrato, che gli consegna un diritto vigente.
La qualità dell’azione amministrativa non consiste solo nell’avere buone idee. A tutti piacerebbe gestire senza i fastidi delle procedure, dei vincoli, delle regole, che costituiscono ostacolo a qualsiasi livello, in primo luogo per i cittadini, in secondo per qualsiasi pubblica amministrazione, non solo quella fiscale. Tuttavia, se esistono delle leggi e delle regole, esse vanno rispettate. La legalità dell’azione amministrativa è il primo indice di efficienza. Se, infatti, una qualsiasi decisione amministrativa, ammantata di modernità ed aziendalismo, risulti illegittima, essa creerà solo danno e problemi.
Visco ed i suoi epigono dovrebbero capire che i problemi alla gestione delle Agenzie non li ha per nulla creati la sentenza della Consulta, ma li ha causati egli in prima persona e tutti i governi che si sono succeduti, consentendo che le Agenzie nominassero i dirigenti come se fossero, appunto, dei soggetti privati, considerati estranei al controllo ed alla finalità pubblica. Visco dovrebbe molto riflettere sulla circostanza che la sua riforma ha fatto dei direttori delle Agenzie dei plenipotenziari, speso ospitati col massimo ossequio nelle trasmissioni televisive, quasi più importanti degli stessi ministri, senza che passino dal controllo quanto meno del voto.
Visco, insomma, invece di chiedere la Luna e pretendere che Tar, Consiglio di stato e Corte costituzionale si adeguino alla sua idea di amministrazione, purtroppo inesistente nell’ordinamento, dovrebbe riflettere molto sulle cause di ciò che è avvenuto. Ed astenersi da articolo come quello che si commenta, nel quale vuol anche rappresentare, sfiorando la comicità, il sistema del fisco come alieno dalla “formazione formalista” che pregiudicherebbe il buon funzionamento delle altre amministrazioni. Ma, l’ex Ministro, scherza? Il formalismo è uno degli aspetti maggiormente delicati e meno apprezzati esattamente dell’amministrazione fiscale. Se gli italiani hanno della “burocrazia” un’idea negativa, lo si deve in primis esattamente al principale degli interlocutori “burocratici” con i quali hanno a che fare: il fisco.
Sembra proprio di dover concludere che Visco ed epigoni non abbiano nessuna intenzione di comprendere fino in fondo il messaggio dato dalla Consulta. Ostinandosi nella difesa di un sistema indifendibile e inneggiando al refrain “la colpa è dei giudici”, che oggettivamente non ha portato sin qui molta fortuna al Paese.
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