Perché i comuni si accorgessero che la riforma delle province li riguarda molto da vicino, occorrevano la deliberazione della Corte dei conti, Sezione Autonomie 19/2015, e il d.l. 78/2015 in tema di (presumibile) divieto di assunzioni dei vigili “stagionali”.
Fin qui i comuni, pur immediatamente qualificabili come potenziali ricettori di funzioni provinciali dismesse e, soprattutto, ricollocatori del personale in sovrannumero, hanno pensato di poter allegramente ignorare le conseguenze (devastanti per tutta la PA e i cittadini, non solo per le amministrazioni provinciali) della riforma Delrio, abbinata in modo micidiale alla legge 190/2014.
Da quanto è entrata in vigore la legge 190/2014, l’impegno quasi quotidiano della maggior parte dei comuni è stato aggirarla. In nome dell’autonomia, che ha risvolti e valori totalmente diversi, i comuni hanno pensato di poter rivendicare comunque il diritto ad assumere nonostante il congelamento, complice anche la circolare interministeriale 1/2015, asseritamente “illustrativa” e che invece ha fornito interpretazioni e letture affrettate e anche non fondate. Come l’indicazione relativa al “percorso dedicato” al personale dei servizi per il lavoro, clamorosamente smentito dall’attuazione del Jobs Act, che non prevede affatto il transito dei dipendenti provinciali verso l’Agenzia per il lavoro; o, ancora, l’altro “percorso dedicato” per la polizia provinciale, che secondo la fervida analisi della circolare 1/2015 sarebbe stata canalizzata verso una riforma della polizia che nemmeno è prevista da nessuna parte.
Interpretazioni di consulenti vari, sostenuti anche da una dottrina poco incline a comprendere la straordinarietà che connota la disciplina della legge 190/2014, messa – invece – bene in luce della Cote dei conti, hanno suggerito di poter egualmente continuare con la mobilità “neutra”, nonostante all’evidenza di chiunque essa sottraesse possibilità di ricollocazione per i 20.000 provinciali in sovrannumero.
L’impossibilità di assumere i vigili “stagionali” derivante dalla formulazione davvero infelice dell’articolo 5, comma 3, del d.l. 78/2015, ora sveglia i comuni dal torpore e dall’illusione.
La campana suona anche per loro. La legge Delrio è una riforma pessima, perché stravolge l’intero assetto organizzativo, funzionale e di competenze degli enti locali, coinvolgendo appieno i comuni. Che si sarebbero accorti lo stesso e con amarezza delle conseguenze della legge 56/2014 anche se fosse stata attuata senza l’intervento inopportuno della legge 190/2014: basti pensare alle difficoltà organizzative che i comuni avrebbero dovuto sostenere per fare proprie funzioni mai gestite, come turismo, formazione professionale, vigilanza ambientale.
Perché i comuni si rendessero conto (l’Anci esultava all’idea dell’abolizione-riforma delle province) della dannosità della riforma dovevano essere punti sul vivo.
E l’evento è inevitabilmente occorso. Il Governo ed il Parlamento, pur ostinandosi a negare la necessità di rivedere da zero la riforma Delrio, si stanno rendendo conto che nulla dell’impianto posto in essere funziona. E quando non si ha l’accortezza e saggezza (l’umiltà è anche indice di saggezza) di ammettere gli errori commessi per emendarli, si attivano di conseguenza forzature, per imporre risultati che l’idea iniziale – drammaticamente sbagliata – non riesce a far ottenere.
Dunque, la situazione è, a 6 mesi dalla vigenza della legge 190/2014 e a 18 mesi dalla collocazione in disponibilità di massa dei soprannumerari delle province, che niente si è mosso. Le regioni non hanno riordinato le funzioni non fondamentali, per non prenderle in corpo ed accollarsi una maggiore spesa di 3 miliardi; i 20.000 dipendenti provinciali sono ancora in provincia, col carico di una spesa di 1,9 miliardi, che le province, vittime di tagli di 3 miliardi tra il 2011 e il 2014, che diverranno 6 nel 2017 (su un totale di 10; il 60%, percentuale mai nemmeno pensata per altre amministrazioni!); le tasse a carico dei cittadini non sono diminuite, perché nei confronti delle province non si è tagliata la spesa, ma imposto versamenti obbligatori allo Stato, che spende quei 3 miliardi destinati a divenire 6 al posto delle province, per fini diversi da quelli connessi alla raccolta delle tasse provinciali; i servizi resi dalle province ridotti all’agonia: le scuole non più mantenute, le strade piene di buche e dichiarate impercorribili o percorribili a 30 km all’ora.
Per rimediare parzialmente allo stallo dei trasferimenti di personale, per i quali si sono persi 6 dei 24 mesi a disposizione, allora il Governo ha pensato di forzare la mano: costringere i comuni ad assumere i poliziotti provinciali, vietando di assumere agenti di polizia municipale per esigenze stagionali.
Il rimedio al fallimento del processo di ricollocazione dei dipendenti provinciali e segnatamente della polizia provinciale è, con ogni evidenza, peggiore del male. La legge 190/2014 ha congelato le assunzioni a tempo indeterminato, per far transitare dalle province alle altre amministrazioni, comuni per primi, personale a tempo indeterminato delle province, colmando i vuoti di organico.
E’ certamente vero che un corpo di polizia municipale che si rafforzi attraverso l’assunzione di agenti a tempo indeterminato può ridurre il ricorso agli stagionali. Altrettanto vero è che gli spazi finanziari per le assunzioni a tempo indeterminato e stagionali non sono simmetrici, né si tratta di vasi comunicanti. Per altro, proprio la certezza che i comuni avevano di poter assumere con contratti a tempo determinato (non vietati dalla legge 190/2014) i vigili, ha certamente spinto molti di essi ad orientare la copertura di posti vacanti della dotazione organica verso professionalità diverse, lasciandosi gli spazi di flessibilità per la polizia municipale.
La formulazione dell’articolo 5 del d.l. 78/2015, per altro, se interpretata in modo restrittivo è fonte di seri problemi. Infatti, potrebbe invalidare le assunzioni a tempo determinato poste in essere a seguito di procedure selettive attivate prima dell’inopinabile disposizione normativa, creando anche pericoli di danno erariale. Oltre, ovviamente, a legare le mani dei comuni che si stessero muovendo solo ora per le esigenze stagionali.
Da questo punto di vista, il d.l. 78/2015 è l’ennesima conferma che il legislatore ed il Governo si stiano muovendo davvero a tentoni, senza un’idea precisa, senza una direttrice comune. Mai l’ordinamento ha conosciuto una riforma organizzativa delle dimensioni di quella pretenziosamente disposta con la legge 56/2014. Era semplicemente assurdo pensare che si potesse risolvere tutto facilmente, entro 24 mesi, con in gioco l’autonomia costituzionale delle regioni che, infatti, si sono guardate bene dall’approvare le leggi regionali di riordino, nonché le incrostazioni procedurali ed amministrative che rendono difficilissima, nella PA, la soluzione ad uno dei bisogni più normali di un’attività produttiva: assumere personale.
I comuni, ora, per voce del presidente dell’Anci, Fassino, chiedono almeno una circolare che interpreti l’articolo 5 del d.l. 798/2015 nel senso che non blocchi le assunzioni stagionali. Una pezza peggiore del buco: la solita circolare contraria a legge, che cerca di modificare i contenuti della legge.
L’Anci si è accorta, dunque, che suona la campana. Ma, la cosa sconcertante è che nelle note di stampa diffuse dall’Anci, il presidente concentra l’attenzione soprattutto sull’esigenza di dotare i presidenti delle città metropolitane di personale “di staff”. Mentre, dunque, 20.000 dipendenti provinciali a 6 mesi di distanza dalla legge 190/2014 non si riescono a trasferire, mentre i comuni capiscono quanto la riforma delle province incida negativamente su di loro, mentre lo Stato ancora non intende fare la propria parte assumendo qualche provinciale (i trasferimenti presso gli uffici giudiziari, per altro per solo 1000 posti sono ancora al palo; le Agenzie non hanno alcuna intenzione di coprire i posti dirigenziali resi vacanti dalla Corte costituzionale chiamando i dirigenti provinciali; nessun’altra amministrazione statale si è mossa per la mobilità), mentre le regioni continuano a non legiferare, il problema, per l’Anci, è lo staff dei sindaci metropolitani.
Non stupisce, dunque, che la campana stia suonando fortissimo soprattutto per le province. Vibo Valentia, provincia nella quale i dipendenti non ricevono gli stipendi da 4 mesi e si sono accampati sul tetto dell’edificio provinciale, con anche tentativi di suicidio, è l’esempio lampante del fallimento devastante della riforma improvvisata dal Governo.
Tanti esponenti dell’esecutivo affermavano che non vi sarebbero stati problemi per gli stipendi del personale, che nessun dipendente avrebbe perso il posto, che sarebbe stata l’occasione per redistribuire le professionalità in modo più razionale, che comunque le regioni sarebbero state forzate a riordinare e che per circa la metà dei dipendenti provinciali, i 7500 dei servizi per l’impiego, il trasferimento verso l’Agenzia per il lavoro era cosa fatta, solo questione di tempo.
Niente, ma proprio niente, di tutto ciò si è verificato alla prova dei fatti. I quali lasciano i comuni senza stagionali, Vibo Valentia al disastro cagionato non dalla cattiva amministrazione, ma dalla riforma, 20.000 lavoratori nel limbo, l’assetto locale nel disastro. E le campane suonano.
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