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venerdì 4 settembre 2015

Docenti e ATA delle scuole comunali: l'inutilità della circolare 3/2015 della Funzione pubblica

Una circolare che sorprende per la sua scarsa utilità, oltre che per l’assenza dell’unica presa di posizione che avrebbe potuto essere utile: la precisazione che le assunzioni a seguito di concorsi non costituiscono reiterazione illecita di contratti di lavoro a termine.

La circolare 3/2015 della Funzione Pubblica lascia realmente interdetti. In disparte la circostanza che le circolari non possono costituire fonte giuridica, meno che mai se non rivolte ad uffici subordinati, come nel caso dei comuni, autonomi e in alcun modo in dipendenza gerarchica col Dipartimento della Funzione pubblica, la generale poca utilità di tali strumenti di interpretazione del diritto in questo caso si esalta e sublima.

Al di là della dotta disanima delle disposizioni normative vigenti in merito alla regolazione del lavoro a tempo determinato, la circolare brilla per la sua assoluta carenza di indicazioni utili a disciplinare l’attività amministrativa.

Infatti, quanto scritto da Palazzo Vidoni è utile esclusivamente a porre il problema, ma senza dare nessuno strumento utile per risolverlo.

Il problema, nel caso specifico, è: si applica al personale docente delle scuole materne e degli asili nido il termine massimo di durata di 36 mesi previsto in generale per i lavoratori a tempo determinato?

La circolare esamina il problema ponendolo in modo corretto, affermando che:

  1. al personale docente e ATA delle istituzioni scolastiche comunali è applicabile l'esclusione dalla disciplina generale del lavoro a tempo determinato, posta dal decreto legislativo n. 81 del 2015, mentre non è direttamente applicabile la disciplina speciale della legge n 107 del 2015”;

  2. infatti:

    1. l’articolo 29, comma 2, lettera c), del d.lgs 81/2015 esclude tutto il personale docente ed ATA (compreso quello locale) dalla regolazione del lavoro a termine e, quindi, dal limite massimo dei 36 mesi;



  3. l’articolo 1, comma 131, della legge 107/2015 si applica esclusivamente alle amministrazioni statali, essendo stato previsto al solo fine di programmare le assunzioni stabili, necessarie per adeguare l’ordinamento e l’organizzazione della scuola statale alle sentenze della Corte di giustizia Ue, che ha ripetutamente condannato lo Stato per la reiterazione incontrollata dei rapporti di lavoro a termine del personale della scuola statale.


Posta correttamente la questione interpretativa (sulla quale, per la verità, nessuno poteva muovere specifici dubbi), qual è, allora, la soluzione proposta da Palazzo Vidoni? Nessuna. O, meglio: i comuni facciano un po’ quello che credono. Non può che sintetizzarsi così la sconcertante chiosa della circolare, che così afferma: “valuteranno, pertanto, i comuni la sussistenza delle ragioni oggettive che, nel rispetto dei principi e delle condizioni sopra menzionate, consentano di reiterare i contratti di lavoro a tempo determinato al fine di corrispondere alle esigenze improcrastinabili collegate all'inizio del presente anno scolastico”.

Se una circolare è emessa con lo scopo di indirizzare e coordinare l’attività amministrativa, è necessario che essa fornisca indirizzi e strumenti di coordinamento. Ma se si limita a prendere atto che siano i destinatari della circolare stessa a valutare se e come risolvere i problemi che la circolare pone ed evidenzia, è chiaro che essa non ha alcuna utilità.

E’ certamente vero e corretto, come sempre affermato tautologicamente dalla circolare di Palazzo Vidoni, che la non applicabilità diretta del limite di 36 mesi ai docenti e ATA a tempo determinato delle scuole comunali non significa che i comuni possano reiterare senza limite alcuno i rapporti a termine con essi. I principi evincibili dalla disciplina europea del lavoro e dallo stesso d.lgs 81/2015 evidenziano che l’inanellamento di rapporti a termine continua a costituire un abuso, sanzionato secondo gli strumenti stabiliti dallo stesso d.lgs 81/2015.

Quindi, che fare? La circolare si è dimenticata di proporre la precisazione essenziale: cioè, non v’è e non può esservi “reiterazione”, laddove gli incarichi ai docenti ed al personale ATA siano frutto non di rinnovi successivi dei contratti (che se riprodotti a lungo implicano l’inanellamento illecito), bensì del superamento di prove concorsuali, ogni assunzione è autonoma e non reitera il rapporto di lavoro precedente.

Per la reiterazione occorre l’animus rinnovandi del datore, che si rivolge direttamente al lavoratore, riaccordandosi con esso per riprodurre il precedente rapporto di lavoro, costruendo così una serie che se reiterata nel tempo non può non ricadere nei limiti generali dei 36 mesi. Altra “dimenticanza” della circolare – molto grave – è aver omesso di ricordare che la giurisprudenza dei giudici del lavoro è pacifica nel ritenere comunque invalicabile il tetto dei 36 mesi, anche per i docenti delle scuole gestite dagli enti locali. Incentrare, dunque, sul concorso, strumento aperto a tutti che per sua natura esclude la reiterazione ed il rinnovo, avrebbe fornito ai comuni chiarimenti e strumenti per superare l’impasse.

Ma, poiché ai giudici del lavoro non risulta particolarmente chiaro che una prova selettiva recide ogni volontà di riprodurre il precedente rapporto, non sarebbe comunque bastata una circolare: occorre una legge che chiarisca soprattutto ai giudici le differenze profonde tra lavoro pubblico e privato, derivanti in particolare dal reclutamento.

La circolare 3/2015, dunque, è sostanzialmente un’occasione perduta, più che un’esibizione di analisi giuridica magari pregevole, ma poco utile.

sabato 27 giugno 2015

Per chi suona la campana della riforma delle province

Perché i comuni si accorgessero che la riforma delle province li riguarda molto da vicino, occorrevano la deliberazione della Corte dei conti, Sezione Autonomie 19/2015, e il d.l. 78/2015 in tema di (presumibile) divieto di assunzioni dei vigili “stagionali”.

Fin qui i comuni, pur immediatamente qualificabili come potenziali ricettori di funzioni provinciali dismesse e, soprattutto, ricollocatori del personale in sovrannumero, hanno pensato di poter allegramente ignorare le conseguenze (devastanti per tutta la PA e i cittadini, non solo per le amministrazioni provinciali) della riforma Delrio, abbinata in modo micidiale alla legge 190/2014.

Da quanto è entrata in vigore la legge 190/2014, l’impegno quasi quotidiano della maggior parte dei comuni è stato aggirarla. In nome dell’autonomia, che ha risvolti e valori totalmente diversi, i comuni hanno pensato di poter rivendicare comunque il diritto ad assumere nonostante il congelamento, complice anche la circolare interministeriale 1/2015, asseritamente “illustrativa” e che invece ha fornito interpretazioni e letture affrettate e anche non fondate. Come l’indicazione relativa al “percorso dedicato” al personale dei servizi per il lavoro, clamorosamente smentito dall’attuazione del Jobs Act, che non prevede affatto il transito dei dipendenti provinciali verso l’Agenzia per il lavoro; o, ancora, l’altro “percorso dedicato” per la polizia provinciale, che secondo la fervida analisi della circolare 1/2015 sarebbe stata canalizzata verso una riforma della polizia che nemmeno è prevista da nessuna parte.

Interpretazioni di consulenti vari, sostenuti anche da una dottrina poco incline a comprendere la straordinarietà che connota la disciplina della legge 190/2014, messa – invece – bene in luce della Cote dei conti, hanno suggerito di poter egualmente continuare con la mobilità “neutra”, nonostante all’evidenza di chiunque essa sottraesse possibilità di ricollocazione per i 20.000 provinciali in sovrannumero.

L’impossibilità di assumere i vigili “stagionali” derivante dalla formulazione davvero infelice dell’articolo 5, comma 3, del d.l. 78/2015, ora sveglia i comuni dal torpore e dall’illusione.

La campana suona anche per loro. La legge Delrio è una riforma pessima, perché stravolge l’intero assetto organizzativo, funzionale e di competenze degli enti locali, coinvolgendo appieno i comuni. Che si sarebbero accorti lo stesso e con amarezza delle conseguenze della legge 56/2014 anche se fosse stata attuata senza l’intervento inopportuno della legge 190/2014: basti pensare alle difficoltà organizzative che i comuni avrebbero dovuto sostenere per fare proprie funzioni mai gestite, come turismo, formazione professionale, vigilanza ambientale.

Perché i comuni si rendessero conto (l’Anci esultava all’idea dell’abolizione-riforma delle province) della dannosità della riforma dovevano essere punti sul vivo.

E l’evento è inevitabilmente occorso. Il Governo ed il Parlamento, pur ostinandosi a negare la necessità di rivedere da zero la riforma Delrio, si stanno rendendo conto che nulla dell’impianto posto in essere funziona. E quando non si ha l’accortezza e saggezza (l’umiltà è anche indice di saggezza) di ammettere gli errori commessi per emendarli, si attivano di conseguenza forzature, per imporre risultati che l’idea iniziale – drammaticamente sbagliata – non riesce a far ottenere.

Dunque, la situazione è, a 6 mesi dalla vigenza della legge 190/2014 e a 18 mesi dalla collocazione in disponibilità di massa dei soprannumerari delle province, che niente si è mosso. Le regioni non hanno riordinato le funzioni non fondamentali, per non prenderle in corpo ed accollarsi una maggiore spesa di 3 miliardi; i 20.000 dipendenti provinciali sono ancora in provincia, col carico di una spesa di 1,9 miliardi, che le province, vittime di tagli di 3 miliardi tra il 2011 e il 2014, che diverranno 6 nel 2017 (su un totale di 10; il 60%, percentuale mai nemmeno pensata per altre amministrazioni!); le tasse a carico dei cittadini non sono diminuite, perché nei confronti delle province non si è tagliata la spesa, ma imposto versamenti obbligatori allo Stato, che spende quei 3 miliardi destinati a divenire 6 al posto delle province, per fini diversi da quelli connessi alla raccolta delle tasse provinciali; i servizi resi dalle province ridotti all’agonia: le scuole non più mantenute, le strade piene di buche e dichiarate impercorribili o percorribili a 30 km all’ora.

Per rimediare parzialmente allo stallo dei trasferimenti di personale, per i quali si sono persi 6 dei 24 mesi a disposizione, allora il Governo ha pensato di forzare la mano: costringere i comuni ad assumere i poliziotti provinciali, vietando di assumere agenti di polizia municipale per esigenze stagionali.

Il rimedio al fallimento del processo di ricollocazione dei dipendenti provinciali e segnatamente della polizia provinciale è, con ogni evidenza, peggiore del male. La legge 190/2014 ha congelato le assunzioni a tempo indeterminato, per far transitare dalle province alle altre amministrazioni, comuni per primi, personale a tempo indeterminato delle province, colmando i vuoti di organico.

E’ certamente vero che un corpo di polizia municipale che si rafforzi attraverso l’assunzione di agenti a tempo indeterminato può ridurre il ricorso agli stagionali. Altrettanto vero è che gli spazi finanziari per le assunzioni a tempo indeterminato e stagionali non sono simmetrici, né si tratta di vasi comunicanti. Per altro, proprio la certezza che i comuni avevano di poter assumere con contratti a tempo determinato (non vietati dalla legge 190/2014) i vigili, ha certamente spinto molti di essi ad orientare la copertura di posti vacanti della dotazione organica verso professionalità diverse, lasciandosi gli spazi di flessibilità per la polizia municipale.

La formulazione dell’articolo 5 del d.l. 78/2015, per altro, se interpretata in modo restrittivo è fonte di seri problemi. Infatti, potrebbe invalidare le assunzioni a tempo determinato poste in essere a seguito di procedure selettive attivate prima dell’inopinabile disposizione normativa, creando anche pericoli di danno erariale. Oltre, ovviamente, a legare le mani dei comuni che si stessero muovendo solo ora per le esigenze stagionali.

Da questo punto di vista, il d.l. 78/2015 è l’ennesima conferma che il legislatore ed il Governo si stiano muovendo davvero a tentoni, senza un’idea precisa, senza una direttrice comune. Mai l’ordinamento ha conosciuto una riforma organizzativa delle dimensioni di quella pretenziosamente disposta con la legge 56/2014. Era semplicemente assurdo pensare che si potesse risolvere tutto facilmente, entro 24 mesi, con in gioco l’autonomia costituzionale delle regioni che, infatti, si sono guardate bene dall’approvare le leggi regionali di riordino, nonché le incrostazioni procedurali ed amministrative che rendono difficilissima, nella PA, la soluzione ad uno dei bisogni più normali di un’attività produttiva: assumere personale.

I comuni, ora, per voce del presidente dell’Anci, Fassino, chiedono almeno una circolare che interpreti l’articolo 5 del d.l. 798/2015 nel senso che non blocchi le assunzioni stagionali. Una pezza peggiore del buco: la solita circolare contraria a legge, che cerca di modificare i contenuti della legge.

L’Anci si è accorta, dunque, che suona la campana. Ma, la cosa sconcertante è che nelle note di stampa diffuse dall’Anci, il presidente concentra l’attenzione soprattutto sull’esigenza di dotare i presidenti delle città metropolitane di personale “di staff”. Mentre, dunque, 20.000 dipendenti provinciali a 6 mesi di distanza dalla legge 190/2014 non si riescono a trasferire, mentre i comuni capiscono quanto la riforma delle province incida negativamente su di loro, mentre lo Stato ancora non intende fare la propria parte assumendo qualche provinciale (i trasferimenti presso gli uffici giudiziari, per altro per solo 1000 posti sono ancora al palo; le Agenzie non hanno alcuna intenzione di coprire i posti dirigenziali resi vacanti dalla Corte costituzionale chiamando i dirigenti provinciali; nessun’altra amministrazione statale si è mossa per la mobilità), mentre le regioni continuano a non legiferare, il problema, per l’Anci, è lo staff dei sindaci metropolitani.

Non stupisce, dunque, che la campana stia suonando fortissimo soprattutto per le province. Vibo Valentia, provincia nella quale i dipendenti non ricevono gli stipendi da 4 mesi e si sono accampati sul tetto dell’edificio provinciale, con anche tentativi di suicidio, è l’esempio lampante del fallimento devastante della riforma improvvisata dal Governo.

Tanti esponenti dell’esecutivo affermavano che non vi sarebbero stati problemi per gli stipendi del personale, che nessun dipendente avrebbe perso il posto, che sarebbe stata l’occasione per redistribuire le professionalità in modo più razionale, che comunque le regioni sarebbero state forzate a riordinare e che per circa la metà dei dipendenti provinciali, i 7500 dei servizi per l’impiego, il trasferimento verso l’Agenzia per il lavoro era cosa fatta, solo questione di tempo.

Niente, ma proprio niente, di tutto ciò si è verificato alla prova dei fatti. I quali lasciano i comuni senza stagionali, Vibo Valentia al disastro cagionato non dalla cattiva amministrazione, ma dalla riforma, 20.000 lavoratori nel limbo, l’assetto locale nel disastro. E le campane suonano.

giovedì 14 maggio 2015

Dirigenti più pagati? Quelli delle regioni, non i dirigenti provinciali. La Corte dei conti fuorvia con rilevazioni discutibili

Sui giornali si dà un grandissimo risalto al dato sul "costo" dei dirigenti provinciali, fornito dalla deliberazione della Corte dei conti, Sezione Autonomie 16/2015, che è semplicemente fuorviante.

La deliberazione, traendo i dati dal Conto annuale del personale del 2013, informa che la spesa media per i dirigenti delle province sarebbe di euro 97.444, per le regioni di euro 89.748 e per i comuni di euro 85.075. Tutti i giornali hanno suonato la grancassa, sottolineando il paradosso di enti di fatto agonizzanti che pagano i propri dirigenti più di altri.

Nessuno, però, ha guardato come la magistratura contabile ha computato tale spesa media, nonostante sia indicato nelle note delle tabelle, ove si legge che si ottiene dal rapporto tra la spesa netta e le “unità annue”, le quali, a loro volta, sono la somma dei mesi lavorati dal personale dirigenziale, divisa per 12 mensilità. Basta, quindi, che in un certo anno il computo dei mesi lavorati, fortemente influenzato dalla quantità totale dei dirigenti e da eventi di assenza, si modifichi, per ottenere dati completamente diversi.

In ogni caso, la “spesa media” a cui si riferisce la delibera della Sezione Autonomie non è la retribuzione media dei dirigenti.

Se si va a dare un’occhiata al Conto nazionale del personale in rete, si scopre che manca un filtro per le retribuzioni medie per comparto. Con estrema pazienza, tuttavia, è possibile estrarre la retribuzione media dei dirigenti ente per ente. Si scopre, allora, che la retribuzione media dei dirigenti provinciali è di euro 95.937, molto più bassa della retribuzione media dei dirigenti delle regioni a statuto ordinario, che risulta di euro 100.084. Anche la retribuzione media dei dirigenti delle regioni a statuto speciale e delle province autonome è più alta di quelle dei dirigenti provinciali, perché ammonta ad euro 98.149.

In allegato le tabelle elaborate in base ai dati del Conto del personale 2013.

domenica 15 dicembre 2013

#leggeelettorale #sindaco d'Italia: la grande sciocchezza autoritaria

Tra tutti gli slogan di facile presa, di evidente tecnica pubblicitaria, quello della legge elettorale del "sindaco d'Italia" è il più pericoloso.
Le idee presunte "nuove" di Matteo Renzi sono in gran parte reperibili nel "Piano di rinascita democratica" di Licio Gelli: abolizione delle province, eliminazione del potere negoziale collettivo e privilegio della sola contrattazione individuale, Senato delle regioni in testa.
È evidente che Renzi persegua il medesimo indirizzo auspicato dalla grande finanza che depreca le costituzioni degli Stati mediterranei nate dal dopoguerra: troppo democratiche, troppo spazio ai parlamenti, troppa attenzione ai diritti. Secondo il sentire dell'Europa e della Grande Finanza occorre più "governabilità".
Accentrare il potere su pochi soggetti è grandemente utile, per cogliere l'obiettivo. E, nei fatti, da anni in Italia questo accade, a Costituzione vigente, con solo pochi a stigmatizzarlo.
Il Parlamento di nominati riduce i parlamentari a fedelissimi senza spirito critico, consentendo ai "marginali" di offrirsi alla maggioranza di turno per puntellarla. E al di là del bassissimo contributo che un Parlamento simile può dare, a svuotarlo concorrono due elementi. Il primo, il costante ricorso a decreti legge sui quali il Governo pone la fiducia; il secondo, la tecnica normativa che lascia le leggi sempre più vuote, intrise di rimandi a successivi regolamenti, decreti ed atti attuativi del Governo.
Il tutto, sotto gli occhi del Presidente della Repubblica, che non ha nulla da osservare e, anzi, invece di mantenersi neutrale e in funzione di garante, svolge una funzione di aperto sostegno a governi e maggioranze.
Ora, chi conosce la disciplina degli enti locali, sa che l'effetto di svuotamento degli organi rappresentativi si è compiuto da tempo. I consigli comunali non contano praticamente nulla. Si riuniscono di rado, per lo più per la disciplina generale delle aliquote e delle tariffe (complici le folli leggi tributarie), qualche regolamento e piani urbanistici.
Il resto, tutto il resto, è competenza del sindaco o della giunta, che è tutta espressione del sindaco stesso, che la nomina.
I sindaci dispongono di un potere fortissimo, monocratico, per altro, a causa delle sciagurate leggi Bassanini e della riforma del Titolo V, senza alcun controllo preventivo. Non è un caso che poteri così assoluti, sciolti da necessari contrappesi e controlli, sfocino in ordinanze assurde, o iniziative come le "ronde".
Al livello amministrativo la cosa può anche andare in parte bene, dal momento che non si fa politica, ma appunto si amministra, con scelte dirette alla soluzione di problemi estremamente concreti.
Ma, laddove si forma un indirizzo politico, talvolta anche su temi etici (testamento biologico, procreazione assistita, etc) o sui diritti, la cosa assume aspetti delicatissimi.
La contestuale eliminazione di una camera e l'accentramento dei poteri nel "Sindaco d'Italia" senza i contrappesi, dei quali nessuno pare preoccuparsi, apre la strada al conducador "illuminato". Ma, il giorno che si spenga la luce, il passo verso l'autoritarismo è brevissimo. Il populismo sudamericano è, ormai, acquisito, in Italia. Stiamo facendo quanto manca per applicare anche i modelli "democratici" del Sud America,