Cosa ha insegnato il caso “Mafia capitale” in merito alla riforma della pubblica amministrazione, in particolare, della dirigenza? Stando alle reazioni e dichiarazioni di stampa di molti, se non tutti, protagonisti della politica del Paese, sostanzialmente nulla.
L’intreccio di Mafia capitale è gravissimo e molto intricato: disvela gli agganci inconfessabili tra politica e criminalità organizzata, che passano attraverso la raccolta di consenso connessa ad appalti riservati a soggetti controllati che fanno riferimento ad aree di partito molto precise, in grado poi di utilizzare parte delle risorse acquisite dall’ente locale per distribuirle tra componenti politici degli organi di governo ed alcuni dirigenti, in modo che il ciclo della gestione amministrativa inquinata dalla corruzione prosegua senza mai interruzioni.
Poiché la gestione concreta, come appunto l’indizione e la gestione delle procedure di gara e la stipulazione dei contratti, spetta alla dirigenza, è essenziale che il sistema inglobi appunto una serie di dirigenti strategici, pronti ad esserne parte integrante e fulcro.
Ha, allora, ragione Alfonso Sabella, assessore alla legalità del comune di Roma, nella sua intervista su La Repubblica del 6 giugno 2015 “I dirigenti corrotti ancora in Comune, il Parlamento ci dia i poteri per cacciarli”, a ritenere che il problema consista nella corruzione dei dirigenti e nella sostanziale impossibilità di licenziarli?
Questa impostazione del problema è alla base, in parte, della riforma della dirigenza contenuta nel disegno di legge di riforma della PA, attualmente all’esame della Camera. E’ noto che l’elemento portante della riforma della dirigenza consista, nel testo attuale, proprio nella facilitazione estrema del licenziamento della dirigenza. In estrema sintesi, per disfarsi dei dirigenti basterà semplicemente non assegnare loro alcun incarico. Non occorrerà, allo scopo, nessuna motivazione, sicchè la decisione si rivelerà inattaccabile davanti a qualsiasi giudice. La mancata assegnazione dell’incarico metterà i dirigenti a disposizione dei ruoli unici per un certo lasso di tempo, decorso il quale di risolverà il rapporto di lavoro.
Tuttavia, chi ragiona alla Sabella e, dunque, di fatto sostiene le idee fondamentali della riforma della dirigenza, non si rende conto di fornire una risposta parziale, ma soprattutto sbagliata, gravemente sbagliata, al problema.
Non ci si rende conto che facilitando il licenziamento e, dunque, l’uscita dei dirigenti pubblici, simmetricamente si facilita l’assunzione di dirigenti pubblici per via di cooptazione fiduciaria, senza concorsi.
In effetti, di questo si è resa perfettamente conto la Corte dei conti. Nella recente audizione alla Camera proprio sul disegno di legge di riforma della PA, la magistratura in merito alla revisione della disciplina della dirigenza evidenzia i seguenti problemi, drammaticamente rilevanti proprio per vicende come quella di Mafia capitale: “Restano, pertanto, confermate le osservazioni formulate al riguardo nell’audizione presso il Senato, in particolare in ordine:
- alla necessità di contemperare la flessibilità dei modelli organizzativi con la salvaguardia di un effettiva autonomia dei dirigenti nei confronti degli organi politici;
- alle modalità per la selezione dei soggetti ai quali conferire incarichi dirigenziali, che non tengono in adeguata considerazione le competenze specifiche dei potenziali interessati;
- al mancato coordinamento delle previsioni con quelle del d.lgs. n. 165 del 2001 relative al conferimento di incarichi a soggetti esterni all’amministrazione;
[…] Anche la previsione di una semplificazione e di un ampliamento delle ipotesi di mobilità tra le amministrazioni pubbliche e tra queste ed il settore privato (comma 1 lett.e ) desta perplessità, in quanto potrebbe prefigurare un più ampio discrezionale ricorso al conferimento di incarichi dirigenziali ad estranei”.
Perché tali questioni sono così importanti e di rilievo per la questione Mafia capitale, ma, in generale, per assicurare che la gestione amministrativa sia non solo esente da corruzione e commissione di reati ma, soprattutto, improntata al buon andamento, all’economicità, all’imparzialità e non al consenso e conservazione del potere della maggioranza? La ragione è semplice. Certamente i dirigenti corrotti vi sono, l’inchiesta di Roma lo dimostra. Certamente la responsabilità penale è personale, dunque essi dovranno rispondere personalmente della propria condotta.
Altrettanto vero è, però, che gli incarichi sono conferiti ai dirigenti dagli organi di governo. Segnatamente, in un comune è il sindaco a conferirli. Indubbiamente il sindaco non può rispondere penalmente della scelta di assegnare un incarico a un dirigente che si riveli infedele e apra alla corruzione. Tuttavia, nemmeno è possibile immaginare che tutto accada costantemente e sempre all’insaputa di chi dispone del potere di nominare e incaricare.
E’ bene ricordare che uno dei principali protagonisti dell’inchiesta, Luca Odevaine, è stato prima incaricato come dirigente esterno, assunto senza concorso, dall’allora sindaco Veltroni come capo di gabinetto, e dall’allora presidente della provincia Zingaretti come capo della polizia provinciale; poi, sempre senza alcuna selezione pubblica, è stato incaricato dal Ministero dell’interno come capo della struttura di accoglienza degli immigrati. Odevaine sta rispondendo di persona della sua posizione. E, tuttavia, se l’Odevaine è entrato a far parte della pubblica amministrazione, se ha avuto incarichi di consulenza e collaborazione da parte di istituzioni pubbliche, la responsabilità di tali scelte è degli organi di governo e di nessun altro.
Alfonso Sabella, che pure è magistrato, non può fare finta di non vedere che il problema non si annida esclusivamente là dove gli atti della corruzione vengono adottati. Da magistrato, dovrebbe capire che certe figure dirigenziali agiscono come corrotti, perché lavorano ed operano in un terreno di coltura il cui scopo è costruire e favorire proprio la presenza di figure che aiutino le organizzazioni criminali, ma anche le lobby o chiunque abbia interessi ad inquinare l’azione amministrativa a “mungere la mucca”.
Le intercettazione dell’inchiesta dimostrano come l’organizzazione guidata da Buzzi e Carminati era riuscita ad avere un interlocutore privilegiato nel dirigente del dipartimento promozione e servizi sociali. Chi aveva incaricato quel dirigente? Poi, quel dirigente venne spostato appena insediato il sindaco Marino ed al suo posto era stata incaricata una dirigente poco gradita alla “cricca”, perché “non riceve mai”, rivelano le intercettazioni. Bene. No, male. Perché le pressioni dell’organizzazione criminale sono state tali e tante che le venne affiancata un’altra dirigente definita “fidata” dal segretario di Mirko Coratti, ex presidente del consiglio capitolino.
Salvo gli accertamenti definitivi che avverranno in giudizio, il quadro racconta appunto dell’esistenza di quell’humus nel quale la corruzione si accresce e dove i dirigenti corrotti sono solo l’ultimo anello di una catena che parte molto più a monte, lì dove le cooperative intendono truccare gli appalti e mungere la mucca (cioè il comune), lì dove l’organizzazione criminale crea il consenso e riesce a spingere propri referenti dentro le istituzioni o, comunque, ad affiliarli dopo, e tramite essi riesce ad ottenere che gli incarichi dirigenziali siano assegnati a “persone fidate”, quelle che assicurino la firma sulle carte necessarie alla cura dei propri interessi.
Con buona pace dei Rebora, dei Valotti, dei Brunetta e dei tanti consulenti bocconiani che da anni predicano sui sistemi di valutazione, sul merito, sulla “scelta dei migliori”, non risulta proprio che il tourbillon degli incarichi dirigenziali a Roma (ma, anche senza che si vada su fatti gravissimi come Mafia capitale, la cosa si riscontra ovunque) sia stato il frutto di valutazione dei risultati, di analisi dei curriculum, di meritocrazia. E’, al contrario evidente che la troppa libertà di azione e discrezionalità della politica nell’assegnazione degli incarichi dirigenziali espone il sistema agli inquinamenti che possono divenire parossistici, come a Roma.
Questo, perché mancano gli anticorpi, i quali sono da reperire in sistemi di reclutamento e conferimento di incarichi completamente opposti a quelli immaginati dalla riforma della PA. Un ruolo unico nel quale pescare rose di candidati tra le quali selezionare in totale discrezionalità il dirigente è perfetto perché interessi lobbystici quando non criminali di interpongano nella scelta dei dirigenti “fidati”; la privazione di rilevanza alla dimostrazione concorsuale della preparazione; la debolezza estrema degli organismi di valutazione e controllo che dovrebbero essere terzi ma anche loro sono nominati dagli organi di governo, sono tutti perfetti strumenti per creare, se serve, una dirigenza corrotta al servizio dei corrotti. Specie se, come afferma la Corte dei conti, nulla si fa per limitare le assunzioni di dirigenti esterni senza concorsi e, anzi, tutto si fa per aumentarne il numero.
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