Era possibile peggiorare la già pessima riforma della dirigenza pubblica contenuta nel ddl delega di riforma della PA, all’attenzione della Commissione Affari costituzionali della Camera? Naturalmente sì, e la Commissione, approvando una serie di emendamenti peggiorativi del contenuto delle disposizioni del disegno di legge non si è certo lasciata sfuggire l’occasione.
Un tratto chiarissimo del disegno di legge di riforma, che lo pone in contrasto insanabile con la pacifica giurisprudenza della Corte costituzionale maturata dal 2007 ad oggi, è l’intento di precarizzare quanto più possibile la dirigenza pubblica, sostanzialmente scindendo la qualifica dirigenziale l’incarico connesso dal suo accesso regolato da concorso, sì da rimettere sostanzialmente la possibilità si svolgere un incarico e perfino di mantenere il lavoro all’arbitrio sostanziale degli organi di governo. Così da permettere alla politica di costruirsi definitivamente una dirigenza a propria immagine e somiglianza, reclutata più dalla comunanza di partito che non in base a criteri di selezione trasparenti e concorsuali e in relazione a valutazioni concrete sulla capacità.
Lo schema è chiarissimo. Da un lato, si creano tre ruoli unici dirigenziali, specie di albi professionali, così da elidere un vincolo di dipendenza tra dirigente ed amministrazione presso la quale svolge la propria attività. I dirigenti (come in parte da tempo avviene per i segretari comunali) saranno una sorta di lavoratori in somministrazione: dipenderanno, non si è ancora capito bene con quali modalità, dai ruoli (e dunque dall’autorità che li gestirà) e saranno posti alle sole dipendenze funzionali degli enti che li selezioneranno attingendo dai ruoli, sulla base di procedure asseritamente selettive, che ancora il ddl delega non specifica, essendo questo il compito dei decreti legislativi attuativi. Saranno gli incarichi dirigenziali il modo per acquisire il dirigente dai ruoli, incarichi la cui attivazione o revoca sarà di fatto in via esclusiva di pertinenza degli organi di governo, salvo una blanda e solo formale attività di verifica delle Commissioni previste dal disegno di legge.
Dall’altro lato, dunque, gli organi di governo, la politica, avrà sostanzialmente mani libere nel decidere quali dirigenti incaricare attingendo agli albi. La procedura, infatti, selettiva prevederà la raccolta di una rosa di nomi alla quale attingere. La selezione avverrà solo sulla rosa, mentre la scelta finale sarà ad libitum. Basta che le Commissioni previste dal ddl in modo accorto facciano sì che nelle rose siano presenti i dirigenti più vicini alla politica, per ottenere il risultato voluto.
La politica potrà scegliere la dirigenza a propria immagine e somiglianza potendo contare anche su un altro formidabile potere e sistema di precarizzazione della dirigenza: limitarsi a non riassegnare l’incarico (né per proroga biennale dopo il primo quadriennio, né per selezione dalla rosa), mandando il dirigente nel limbo della messa in disponibilità nell’ambito dei ruoli, che preluderà alla decadenza dell’incarico.
Il mantenimento della possibilità di reclutare dirigenti esterni, non appartenenti ai ruoli, completa lo spoil system parossistico disegnato dal ddl, che consentirà dunque alla politica di assumere dirigenti per pura cooptazione, senza alcun concorso, mentre nei ruoli staranno a languire e ad aspettare il licenziamento dirigenti di ruolo, vincitori di concorsi, non in possesso di tessere di partito o delle tessere giuste nel momento giusto.
Il Ministro Madia aveva annunciato nei mesi scorsi l’intenzione di rimediare a questo sistema piuttosto perverso, apportando dei correttivi.
Gli emendamenti approvati negli scorsi giorni in Commissione avrebbero avuto, dunque, lo scopo di correggere il tiro della riforma.
A giudicare, tuttavia, dal contenuto degli emendamenti l’effetto ottenuto è quanto meno dubbio, se non diametralmente opposto alle intenzioni.
In quanto alla durata degli incarichi dirigenziali, si mantiene la curiosa asimmetria tra scadenza iniziale, di 4 anni, e facoltà di “rinnovo” di soli 2 anni. In effetti, non può tecnicamente considerarsi un “rinnovo”, perché ciò che si rinnova riproduce esattamente gli stessi contenuti del negozio giuridico rinnovato. Al più, si tratta di una proroga che, considerando la complessità estrema del sistema di reclutamento (decine di migliaia di amministrazioni che attingeranno periodicamente a 3 soli ruoli, un caos che si rivelerà ingestibile molto presto), potrebbe risultare molto utile per evitare vacanze negli enti e di impegnare le amministrazioni in continue e ripetute procedure di reclutamento, molto complicate.
Per il “rinnovo” sui generis già previsto sarebbe bastata la riproduzione della volontà dell’organo di governo di avvalersi della prestazione del dirigente. Ma, uno degli emendamenti approvati prevede che la facoltà di “rinnovo”, esercitabile una volta sola, dovrà essere “motivata” ed intervenire “nei soli casi nei quali il dirigente abbia ottenuto una valutazione positiva”.
Dunque, si introduce un elemento di complicazione amministrativa, la specifica motivazione del rinnovo che, per come è scritto l’emendamento pare essere cosa diversa dalla valutazione positiva, individuata come un presupposto automatico. Insomma, non basterebbe la valutazione positiva, la quale non può mai non essere la base per la rinnovazione o proroga di un incarico dirigenziale, a motivare la scelta del rinnovo: occorrerebbe non si sa bene quale altra motivazione da specificare.
E pare davvero paradossale la rigorosa previsione di un obbligo di motivazione per reincaricare un dirigente di ruolo, cioè vincitore di concorsi, mentre si mantiene ferma la disciplina sugli incarichi a contratto, che, laconica sul punto, viene attuata dalle amministrazioni proprio per assumere dall’esterno senza concorso persone estranee ai ruoli, senza addurre mai alcuna motivazione in merito alla scelta.
Il parziale correttivo allo spoil system selvaggio regolato dal ddl delega riguarda il criterio rivolto al legislatore delegato per la successiva di regolazione della decadenza. L’emendamento ha coretto il tiro riscrivendo il criterio come segue: “disciplina della decadenza dal ruolo unico a seguito di un determinato periodo di collocamento in disponibilità successivo a valutazione negativa”.
L’elemento di novità è la connessione tra decadenza e collocazione in disponibilità nel ruolo unico per un determinato periodo a seguito di valutazione negativa.
Cerchiamo di essere più chiari. Per effetto dell’emendamento sembra che la decadenza dal ruolo unico, che equivale al licenziamento, sia conseguenza non della sola carenza di incarico cui consegue il collocamento in disponibilità nel ruolo stesso, ma, anche, della valutazione negativa.
Insomma, rischia di decadere dal ruolo il dirigente collocato in disponibilità nel ruolo unico per essere stato valutato negativamente.
La previsione potrebbe sembrare una maggiore tutela per la dirigenza, perché parrebbe evitare la conseguenza automatica del licenziamento per il mero collocamento in disponibilità, legando, così, il licenziamento ad un motivo soggettivo: la valutazione negativa dell’operato del dirigente.
Se così fosse, però, risulterebbero evidenti le contraddizioni di simile disciplina. Infatti, l’autore di una gestione erronea e con risultati negativi, rispetto al quale sussiste il giustificato motivo soggettivo del licenziamento, non viene licenziato subito, ma lasciato per un determinato periodo di tempo in disponibilità, percependo anche un trattamento economico, per quanto limitato al solo tabellare, senza retribuzione di posizione e risultato, e potendo nel frattempo anche ricollocarsi.
Ma, se la valutazione negativa è fonte della possibilità di risolvere il rapporto di lavoro, occorre chiedersi che senso avrebbe lasciar intercorrere un lasso di tempo (che sarà definito dai decreti legislativi attuativi) per giungere all’effettivo licenziamento, che potrebbe perfino essere scongiurato da una possibile ricollocazione nelle more.
Non solo. Nel periodo nel quale il dirigente collocato in disponibilità dei ruoli a causa della valutazione negativa e passibile di licenziamento, riceverebbe lo stesso trattamento giuridico ed economico di un altro e diverso dirigente che sia stato collocato in disponibilità non per valutazione negativa, ma per scelte dell’organo di governo, non intenzionato a conferirgli incarico.
Il secondo dirigente, per come è scritta la norma, non rischia il licenziamento, ma verrebbe trattato alla pari di un dirigente che abbia operato male. E’ un modo equilibrato di disciplinare gli incarichi dirigenziali?
Ancora, occorre chiedersi se la decadenza dopo un certo periodo di collocazione in disponibilità nei ruoli vale nella sola ipotesi di valutazione negativa, allora i dirigenti che risultino privi di incarico e collocati in disponibilità per ragioni diverse potrebbero restare in disponibilità all’infinito e ricevere un trattamento economico, sia pur ridotto, per non lavorare?
Paradossalmente, si potrebbe giungere a questa surreale conclusione. Gli estensori dell’emendamento non ci hanno minimamente pensato. Se si fossero posti i problemi operativi che la norma così scritta pone, avrebbero, per esempio, quanto meno dovuto subordinare qualsiasi incarico a contratto ai sensi dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001, alla preventiva necessità di chiamare in servizio i dirigenti in disponibilità senza valutazione negativa, così da razionalizzare il sistema, utilizzare le professionalità solo accidentalmente “ferme un giro” ed evitare l’aggravio di costi pubblici derivante dal reclutamento di soggetti esterni ai ruoli.
Ma non basta. A complicare ulteriormente il quadro è l’altro emendamento che indica al legislatore delegato di disciplinare la “previsione della possibilità, per i dirigenti collocati in disponibilità, di formulare istanza di ricollocazione in qualità di funzionario, in deroga all'articolo 2103 del codice civile, nei ruoli delle pubbliche amministrazioni”.
Cerchiamo di capire. La norma intende dare la possibilità al dirigente collocato in disponibilità di non perdere il lavoro, rendendosi disponibile alla mortificazione del declassamento (non si tratta, in questo caso, di mero demansionamento) da dirigente a funzionario, con deroga alle previsioni dell’articolo 2103 del codice civile. Ma, di quale dirigente in disponibilità si parla? Di quello collocato in disponibilità a seguito di valutazione negativa e, dunque, destinato a vedersi risolvere il rapporto di lavoro decorso un certo lasso di tempo di collocamento in disponibilità? In questo caso, la previsione dell’emendamento prevederebbe una singolare ancora di salvezza nei confronti di chi avrebbe posto in essere una condotta gestionale negativa: in sostanza, il “demansionamento” preserverebbe il rapporto di lavoro, sia pure senza più la qualifica dirigenziale, nei confronti di qualcuno nei cui riguardi esistono i presupposti per il licenziamento dovuto a giustificato motivo soggettivo. Una tutela che qualsiasi dipendente pubblico o privato desidererebbe molto volentieri, specie di questi tempi.
Oppure, si parla di qualsiasi dirigente inserito nei ruoli in disponibilità? Ma, se la decadenza dal ruolo vale solo per i dirigenti ivi collocati a seguito di valutazione negativa, per quale ragione mai un dirigente a disposizione dei ruoli non a causa di valutazione negativa dovrebbe scegliere di dequalificarsi a funzionario? L’unica spiegazione di ciò consisterebbe nella circostanza che la decadenza dal ruolo scatterebbe non solo per superamento del tempo previsto dalla norma a seguito di collocazione in disponibilità per valutazione negativa, ma anche per il semplice presupposto della collocazione in disponibilità. Ma, allora, che senso avrebbe la previsione introdotta dall’emendamento di cui si è parlato prima, che connette la decadenza dal ruolo alla collocazione in esso dovuta a valutazione negativa?
Come si dimostra, anche se pareva impossibile, gli emendamenti hanno avuto l’effetto di complicare ulteriormente il testo del ddl e peggiorarne la qualità, lasciando intatto e forse rafforzando l’arbitrio in mano alla politica di plasmare un apparato dirigenziale sostanzialmente lontano dall’obbligo oggi previsto dalla Costituzione di essere al solo servizio della Nazione, cioè in modo imparziale di tutti, per rendersi, invece, parte, partecipe attivo delle formazioni politiche al governo.
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