Troppo facile, troppo semplice la relazione del Prefetto Gabrielli sulla situazione di Roma, laddove richiede provvedimenti solo nei confronti di una ventina tra dirigenti e funzionari, mentre in sostanza lascia esente da responsabilità il sindaco, perché ha attivato sia pure inconsapevolmente e con poca efficacia, per il poco tempo a disposizione, una svolta nella gestione.
Era evidente che Gabrielli avrebbe incontrato estreme difficoltà nel concludere la propria relazione chiedendo il commissariamento del Comune di Roma. Fortissime pressioni politiche, l’incombenza del Giubileo, la delicatezza della questione facevano dare per scontata una soluzione “diplomatica”, quale quella adottata e cioè non commissariare il Comune ma solo alcune sue circoscrizioni e direzioni, nonché chiedere rimozione o allontanamento di una serie di funzionari.
Piuttosto debole appare la motivazione: l’esistenza di tratti di rilevanza e concretezza delle infiltrazioni della criminalità organizzata, ma l’impossibilità di accertarne “l’univocità”, cioè di provare la totale connessione tra criminalità ed amministrazione.
A rigor di logica, quando una ventina di dirigenti e alcuni Municipi sono considerati responsabili di gravi violazioni normative nella gestione ce ne sarebbe abbastanza per considerare necessaria una rinnovazione totale della compagine del Comune, non solo amministrativa, ma anche politica.
La parte meno convincente della relazione del Prefetto Gabrielli sta proprio nella richiesta di provvedimenti nei riguardi della dirigenza.
La relazione, come molta parte della stampa generalista, dà per scontato che i dirigenti ivi segnalati (molti dei quali, per altro, finiti nelle intercettazioni raccolte dagli inquirenti) siano da considerare alla stregua di dipendenti pubblici “infedeli” alla missione, come dire, a titolo personale.
E’ certamente vero che la responsabilità penale è sempre e solo personale. Ma l’indagine di Gabrielli non è un giudizio penale, bensì solo amministrativa.
Allora, dovendo analizzare la situazione del comune di Roma sul piano amministrativo, non sarebbe dovuto sfuggire che i dirigenti considerati infedeli e da rimuovere non stanno lì per grazia ricevuta o partenogenesi, ma sono incaricati da qualcuno.
Questo qualcuno è individuato molto precisamente dal d.lgs 267/2000 che all’articolo 50, comma 10 dispone: “Il sindaco e il presidente della provincia nominano i responsabili degli uffici e dei servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e regolamenti comunali e provinciali”.
Dunque, non può esservi dubbio alcuno che se alcuni dirigenti considerati funzionali al sistema corruttivo che ha inquinato Roma erano posti nei ruoli dirigenziali “strategici” per l’organizzazione criminale, stavano lì perché incaricati dal sindaco.
Questo evidentemente non comporta il trasferimento della responsabilità personale di tali dirigenti nei confronti del sindaco. Tuttavia, la cosa rivela e conferma una volta di più che il vertice politico del comune quanto meno non abbia avuto modo di accorgersi pienamente della situazione.
La vicenda della direzione de dipartimento promozione e servizi sociali dimostra quanto l’organizzazione criminale incidesse nell’amministrazione comunale. Il sindaco Marino aveva messo al posto del precedente dirigente, un’altra dirigente poco gradita alla “cricca”, perché “non riceve mai”, rivelano le intercettazioni. Ma, le pressioni dell’organizzazione criminale sono state tali e tante che venne poi sostituita da un’altra dirigente definita “fidata” da esponenti della “banda”.
Sicchè, le pressioni esterne sugli organi di governo competenti a decidere gli incarichi dirigenziali ci sono verosimilmente state. Sul piano organizzativo, quindi, al di là della presunzione di totale innocenza, si dimostra che il sistema non fosse per nulla esente da condizionamenti molto forti, anche e soprattutto della compagine politica.
Le vicende di Roma dovrebbero, dunque, essere di insegnamento per la riforma della dirigenza che si va prospettando in Parlamento. L’ulteriore precarizzazione dei dirigenti e l’attribuzione agli organi politici di un potere sostanzialmente arbitrario di incaricare e revocare gli incarichi dovrebbe essere percepita come un pericolo da evitare assolutamente, visto che faciliterebbe a dismisura inquinamenti come quelli di Roma. Ma, si ha la sensazione che il Parlamento ed il Governo non trarranno alcun monito.
Certo, la dirigenza ha ovviamente le proprie responsabilità, visto che si dimostra permeabile alla corruzione.
L’altro insegnamento, allora, che si può trarre dalla vicenda di Mafia Capitale è l’assoluta inefficienza del sistema anticorruzione previsto dalla legge 190/2012 e tutte le altre disposizioni connesse. Si è trattato, nella sostanza, di un rilevantissimo carico burocratico, incapace, nel caso di specie, di incidere nemmeno un po’ sul sistema corruttivo romano, tanto che a far saltare il tappo è stata la magistratura e non certo nessuna misura anticorruzione di natura amministrativa posta in essere dal Comune.
Meno che mai si è rivelata utile la figura organizzativa del segretario generale, contestualmente incaricato anche come direttore generale. Molti considerano il segretario generale del comune, incluso nella relazione di Gabrielli tra i dirigenti da rimuovere, come un “capro espiatorio”, perché un segretario da solo non ha certo modi e strumenti per prevenire la mala gestio.
Sul piano squisitamente umano, queste considerazioni sono più che fondate e, per altro, il segretario del comune di Roma non è stato nemmeno sfiorato dalle indagini penali ed è noto come persona specchiata e di indubitabile rettitudine.
Tuttavia, qui è la figura giuridica e non la persona fisica che la impersona, a rivelare tutta la sua debolezza, scatenata dalle improvvide riforme Bassanini.
L’eliminazione dei controlli di legittimità è stata chiaramente una scelta sbagliatissima della quale si pagano pesantemente le conseguenze. Prima della sciagurata legge 127/1997 la verifica della legittimità si basava su un primo baluardo costituito dal segretario comunale dipendente dal Ministero dell’interno e non dalle scelte dei sindaci e, poi, un secondo filtro (probabilmente non troppo efficace, ma comunque significativo) nei Co.re.Co.
La riforma ha privato il segretario comunale di questa veste e lo ha reso totalmente dipendente dallo spoil system pensato ad hoc per i sindaci, che ora si vuole sostanzialmente estendere a tutta la dirigenza.
Succede, dunque, che possano sfuggire alla figura “apicale” che dovrebbe assicurare la correttezza della gestione amministrativa, appalti di servizi sociali ampiamente sopra soglia assegnati senza gara e con i sistemi disinvolti esistenti a Roma.
Ancor più rilevante è questa incapacità della funzione segretariale di intercettare simili modalità gestionali, nonostante dal 2012 la riforma dei controlli interni abbia riaperto margini di intervento anche preventivi, se si pensa che a Roma il segretario era anche incaricato quale direttore generale, figura che ai sensi dell’articolo 108 del d.lgs 267/2000 dovrebbe provvedere ad “attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell'ente, secondo le direttive impartite dal sindaco o dal presidente della provincia, e che sovrintende alla gestione dell'ente, perseguendo livelli ottimali di efficacia ed efficienza”.
Non pare assolutamente che possa affermarsi che Roma eccella – da anni ed anni – per il perseguimento di “livelli ottimali di efficacia ed efficienza”, visto l’enorme debito accumulato che, come è noto, ha creato una gestione commissariale speciale e l’innalzamento delle tasse locali che si scarica non solo sui cittadini romani, ma su tutti i contribuenti italiani.
E’ la riprova che la formulazione astratta di slogan aziendalistici (il livello ottimale di efficacia ed efficienza), l’obbligo a redigere piani di gestione, reportistica, strumenti di presunta pianificazione e valutazione, nonché l’attribuzione a figure come “deus ex machina” di poteri miracolistici, quale il direttore generale non portano ad alcuno sbocco di utilità.
La figura del direttore generale dei comuni, pomposamente definita “city manager”, è uno dei più clamorosi fallimenti della riforma Bassanini. Fallimento ratificato dalla (inevitabile) eliminazione della figura, inutile e costosa, nei comuni con popolazione al di sotto dei 100.000 abitanti e ulteriormente confermato dalle condizioni finanziarie e gestionali pessime di centinaia di comuni nei quali la presenza dei direttori generali non ha avuto alcuna capacità di evitare deficit e dissesti, nonchè dalla disastrata situazione di Roma. Nemmeno tutti i piani esecutivi di gestione, i cicli della performance, le griglie di obiettivi e valutazione dei “risultati” sono stati utili per capire che qualcosa (molte cose) nella gestione proprio non andavano.
Segretari comunali e direttori generali totalmente dipendenti mani e piedi dalla politica finiscono o per essere emarginati a ruoli d’ombra, oppure per rivelarsi sostanzialmente dei posti politici mascherati da tecnici: questo vale per i direttori generali in particolare. In ogni caso, poco, pochissimo idonei non solo a garantire “efficienza ed efficacia”, ma perfino a costruire sistemi organizzativi in grado da soli quanto meno a far scattare i campanelli d’allarme.
Se poi si aggiunge che a Roma la funzione di responsabile della prevenzione della corruzione è stata assegnata ad un dirigente esterno, il quale evidentemente poco ha fatto, ed è stata sostanzialmente duplicata con lo strano assessorato “alla legalità” si ha la conferma definitiva che gli strumenti organizzativi e gestionali immaginati da quasi 20 anni a questa parte, per “ammodernare” la PA e renderla “più efficiente” sono una debacle totale. Che, purtroppo, la riforma della PA in discussione in Parlamento vuole confermare ed ampliare a dismisura.
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