Il patto di stabilità a “competenza mista” non poteva che essere una bizzarria tutta italiana. A metà degli anni 10, dopo aver modificato ripetutamente la regola capestro per i bilanci locali, a qualcuno è venuta la classica idea di mischiare “pere e mele”.
Come è noto, per la competenza mista si sommano le entrate (competenza di parte corrente più cassa in conto capitale) e si sottraggono le spese (impegni correnti e pagamenti in conto capitale), in modo da ottenere un saldo che deve essere superiore ad un valore-obiettivo calcolato all'inizio dell'esercizio finanziario, in modo che il complesso delle entrate sia sistematicamente maggiore del complesso delle spese generando una differenza, che di anno in anno dia un valore positivo sempre più elevato.
Un sistema che deve essere apparso molto ingegnoso a chi lo ha inventato, ma che solo a descriverlo dimostra tutta la sua farraginosità.
Purtroppo, oltre ad essere frutto di una visione della finanza e dell’economia davvero particolare, il patto a competenza mista si è rivelato (e non poteva essere diversamente) un disastro sotto l’aspetto dei risultati conseguiti.
Infatti, se da un lato il patto di stabilità così congegnato è servito ben poco a contenere la crescita del debito pubblico italiano, anche perché più dell’80% di detto debito è dello Stato che si guarda bene dal contenerlo attraverso l’azione dei ministeri, dall’altro ha sconquassato le stesse logiche dell’azione amministrativa. Infatti, l’effetto negativo sui saldi determinato dal computo delle spese per via di cassa in conto capitale hanno prodotto la conseguenza sia del rallentamento dei pagamenti, sia della progressiva e verticale riduzione degli investimenti.
Il patto a competenza mista, quindi, ha contribuito in modo decisivo ad aggravare la crisi finanziaria ed economica dell’Italia, in particolare dal 2009 in poi, perché ha creato un immenso debito nei confronti delle imprese, sottraendo denaro circolante nel mercato, ed ha nello stesso tempo ridotto la spesa disponibile per opere pubbliche ed infrastrutturali. Il tutto, per altro, creando negli enti locali virtuosi un immenso deposito di avanzi di amministrazione inutilizzati ed inutilizzabili.
Un disastro finanziario che rimane senza padri e, dunque, senza colpevoli che andrebbero severamente colpiti, puniti ed estromessi per sempre da qualsiasi attività legislativa e di consulenza.
Dopo 10 anni di applicazione di questa assurda regolazione dei bilanci e una volta che il danno all’economia è stato creato ed è divenuto quasi irreversibile (infatti, non si riesce ad intaccare il debito accumulato verso i creditori), il disegno di legge di stabilità prova a cambiare strada.
L’idea è semplicissima: abbandonare il bizantinismo finanziario, per imporre un pareggio di bilancio in termini di sola competenza. Sicchè vi dovrà essere equilibrio tra entrate e spese finali di competenza, cioè gli accertamenti relativi ai primi cinque titoli e gli impegni relativi ai primi tre titoli del nuovo bilancio armonizzato.
Si sono persi 10 anni per giungere all’unico sistema razionale ed utile per misurare il grado di virtuosità dei bilanci. E, purtroppo, nel frattempo si è adottata l’altra discutibilissima scelta del “bilancio armonizzato”, un altro Moloch contabile, che rende la gestione operativa e finanziaria pesantissima, complicata, esasperata, anch’essa potenzialmente capace di produrre danni economici e finanziari rilevantissimi, dei quali ci si accorgerà, però e come sempre, tra 10 anni.
Se la decisione del testo (non ancora consolidato) del disegno di legge di stabilità sarà consolidato, finalmente gli enti locali potranno pagare per via di cassa, senza essere strozzati e provare in qualche misura a ricostruire una spesa di investimento, anche se per rialzare la testa sotto questo aspetto occorreranno ancora anni. Anche perché l’attuale conformazione del disegno di legge tiene ancora bloccati gli avanzi di amministrazione, lasciando qualche spazio solo per le spese da destinare all’edilizia scolastica ed alla viabilità, visto che scuole e strade sono state durissimamente colpite proprio dalla frenata implacabile agli investimenti pubblici.
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