L’aumento contrattuale di 200 milioni previsto per il settore pubblico sarà finanziato in grande parte da un inusitato intervento sulla dirigenza pubblica.
L’idea del Governo è evitare che gli incrementi contrattuali gravino sulla spesa pubblica, comportandone un aumento. Quindi, gli aumenti non debbono modificare il perimetro complessivo della spesa (circa 163 miliardi) e vanno reperiti attraverso una redistribuzione della spesa medesima. Sicchè, si pensa di sottrarre la cifra di 200 milioni ai dirigenti.
Il testo del disegno di legge non consente, per ora, di valutare esattamente la portata della decisione.
Sulla dirigenza pubblica, infatti, da anni si insiste in una serie di equivoci, esaltati da analisi dal vago sapore populistico che però possono anche fruttare incarichi da aiuto commissario alla spending review, che confondono le idee.
Si afferma, per esempio, che i dirigenti pubblici siano circa 170 mila e che complessivamente la spesa per il loro trattamento economico ammonti a circa 13 miliardi.
Queste indicazioni sono largamente imprecise, perché considerano nella dirigenza anche magistrati (che nulla hanno a che vedere con l’ordinamento del lavoro: sono dipendenti della Repubblica, ma appartengono ad un potere separato), ufficiali delle forze armate e dell’ordine e, soprattutto, i circa 115 mila medici del servizio sanitario nazionale, tutti inquadrati come dirigenti per effetto delle curiose norme italiane. Solo per super plotone dei dirigenti medici la spesa è di circa 9,5 miliardi.
Escludendo tutti questi soggetti, i dirigenti pubblici veri e propri ammontano a circa 51.000 e il costo complessivo è di poco più di 4 miliardi l’anno.
Allora, una prima cosa da capire è: l’intervento finanziario previsto vale per i soli dirigenti veri e propri, oppure anche per le categorie come i magistrati e gli ufficiali delle forze armate e, soprattutto, della dirigenza medica?
Si capisce perfettamente, infatti, che l’onere economico dei dirigenti risulta radicalmente diverso se si compie una scelta o l’altra.
Sembra, inoltre, che il taglio di 200 milioni al costo della dirigenza riguarderà la retribuzione di risultato. Essa, alla luce dei contratti collettivi nazionali di lavoro di comparto, corrisponde circa al 15% del salario accessorio, che finanzia oltre alla retribuzione di risultato anche quella di posizione, cioè il peso dell’incarico dirigenziale sostenuto. Complessivamente, il salario accessorio in media si avvicina al 40% della retribuzione nel suo complesso.
Allora, se l’intervento riguarderà l’intera dirigenza, occorre stimare il 40% della spesa complessiva di 13 miliardi circa, che dà come salario accessorio un totale di 5,2 miliardi, il cui 15% ammonta a 780 milioni. Un taglio di 200 milioni significa una riduzione media di circa il 25% del salario accessorio dell’intera dirigenza.
Se, invece, si intervenisse solo nei confronti dei circa 51.000 dirigenti veri e propri, la spesa complessiva sarebbe di circa 5 miliardi; il 40% darebbe la somma di euro 2 miliardi quale ammontare del salario accessorio; il 15% da risultato ammonterebbe, allora, a 300 milioni, sicchè il taglio di 200 milioni equivarrebbe al 67% della retribuzione per la performance.
Laddove la proporzione fosse questa, si finirebbe per scontrarsi frontalmente sia con la riforma-Brunetta, il d.lgs 150/2009, rendendo sostanzialmente inutili i complessi sistemi di valutazione della performance della dirigenza; sia anche con le indicazioni della legge-Madia, la 124/2015 di delega per la riforma della PA, che proprio sulla valutazione della dirigenza pubblica e sul “merito”, punta per potenziare e rendere ancora più evidenti gli effetti della riforma Brunetta.
Non solo. L’idea di intervenire sul trattamento economico dei dirigenti ormai è presente da anni e già nei testi preparatori del d.l. 66/2014 erano emerse proposte per la determinazione di “tetti” variabili a seconda delle fasce dirigenziali. Tuttavia, immaginare di incidere drasticamente sui fondi di risultato dei dirigenti, apre il rischio di attivare un altro contenzioso, probabilmente perdente, con la Corte costituzionale. La Consulta, infatti, pochi anni fa ebbe modo di stroncare un intervento simile: il contributo “di solidarietà” richiesto ai trattamenti economici dirigenziali complessivi anche della retribuzione di risultato, superiori ai 90.000 euro. Ciò perché interventi di simile natura finiscono per coincidere con prelievi fiscali mirati, come tali non conformi alle regole costituzionali sull’imposizione fiscale.
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