domenica 1 novembre 2015

Caso Marino: i limiti di democrazia della riforma degli enti locali

Per giustificare la necessità di “fare le riforme”, Governo e sistema dei media continuano ad affermare che essa necessità discenda da 20-30 anni nei quali non si è fatto nulla, perdendo del tempo.

Naturalmente, non è vero niente. Di riforme in questi ultimi decenni ne sono state portate a termine un numero immenso e, probabilmente, proprio questa è una delle cause della crisi in cui ci si ritrova avvitati.

Ne è un esempio palmare l’ordinamento degli enti locali, riformato in più tronconi, con la legge 142/1990, la legge 81/1993, il d.lgs 77/1995, la legge 127/1997, la legge 265/1999, il d.lgs 267/2000, il d.gs 118/2011, solo per citare le principali e trascurare molte altre “frattaglie”.

Ebbene, l’attenzione, dopo il caso Marino di Roma, non può non soffermarsi sulla legge 81/1993. Si tratta delle norma che ha introdotto l’elezione diretta del sindaco e del presidente della provincia.

Si può senz’altro affermare che la deriva delle istituzioni sia partita esattamente da lì, per poi sfociare nella pienezza della sua portata di limitazione della democrazia esattamente con le dimissioni dei 26 consiglieri comunali di Roma, decise in uno studio notarile, in attuazione di diktat della segreteria nazionale di un partito, che ha cercato alleati nell’opposizione ma non per rafforzare il proprio mandato politico, bensì per affossare il sindaco.

L’elezione diretta del sindaco è frutto della stagione dei referendum di Segni, simbolo di una nuova vocazione “maggioritaria” della democrazia. Si diceva, all’epoca, che l’elezione diretta avrebbe rafforzato e velocizzato l’azione dei sindaci, rendendoli indipendenti dalle imboscate delle maggioranze consiliari, ma soprattutto avrebbe creato una fortissima legittimazione popolare, stringendo il mandato del corpo elettorale, così da creare una figura, il sindaco, estremamente vigorosa sul piano politico, garantendo la stabilità del mandato.

E’ facilissimo prendere queste parole del passato e confrontarle con quelle che oggi vengono poste a giustificare la riforma della Costituzione. Che, in maniera molto evidente, trae spunto proprio dalla legge 81/1993.

Ma, a distanza di 22 anni, è andata davvero come ci hanno raccontato? Maggiore stabilità, più democrazia?

Tutti hanno notato che simmetricamente al maggior potere dei sindaci, connesso alla loro legittimazione popolare indipendente da quella del consiglio, è corrisposto un degrado progressivo proprio della funzione dei consigli. Già la legge 142/1990 aveva sottratto alle assemblee elettive il 90% delle competenze. Dopo la legge 81/1993 il processo è divenuto inarrestabile: i consigli si limitano ad approvare pochissime delibere, ma soprattutto sono divenuti del tutto estranei alla gestione, che è riservata in via quasi esclusiva al sindaco, alla giunta e all’apparato dirigenziale, cui la legge 127/1997 ha attribuito estesissime competenze operative.

Tanto che da anni, ormai, per il sindaco nominare un dirigente conta quasi di più di incaricare un assessore. Ecco il “mercato delle vacche” dei dirigenti locali, che, non a caso, per un terzo non sono selezionati per concorso, ma a seguito di nomine dirette dei sindaci, i quali con la legge 127/1997 hanno ottenuto il potere di nominare direttamente i segretari comunali e, ora, finalmente con la legge 124/2015 hanno visto esaudire il desiderio di abolire la figura, così da crearsi di volta in volta il “dirigente apicale” di loro stretta fiducia e a loro immagine e somiglianza.

Alla progressiva riduzione di poteri e competenze dell’organo consiliare ha fatto davvero fronte un incremento della capacità amministrativa e gestionale? A giudicare dai diffusi dissesti dei comuni, dall’immenso debito creato dalla gestione allegra dei residui attivi e passivi che ha imposto l’armonizzazione contabile (un’altra riforma cervellotica e disastrosa), non si direbbe proprio.

Né si può affermare che la legge 81/1993 abbia portato alla stabilità politica immaginata. Se Marino è stato cacciato via da Roma (non si vuole entrare nel merito della questione e nelle dinamiche complessive), ciò è anche dovuto a quella riforma di 22 anni, che se da un lato rafforza la legittimazione elettorale dei sindaci, dall’altro non ne ha per nulla rafforzato la posizione di autonomia rispetto alle segreterie dei partiti.

Queste restano libere di manovrare più o meno nell’ombra e di assumere posizioni cangianti, ora di difesa, poi di attacco finale al sindaco. Ed i consiglieri, sostanzialmente inermi e poco utili per il governo della città, si rivelano arma potentissima di pressione nei confronti dei sindaci.

Il caso Roma è un esempio di verticalizzazione estrema della politica. Un sindaco, qualsiasi sindaco, sebbene riceva dal popolo la propria legittimazione, in effetti non risponde del proprio operato al corpo elettorale, ma ai vertici di partito, i quali possono manovrare i consiglieri tenendo qualsiasi sindaco continuamente sotto il ricatto di alleanze anche contro natura con le opposizioni, per farlo fuori quando ciò lo si ritenga utile. In barba alla “legittimazione popolare”.

Non pare, oggettivamente, che questo esito sia la prova che l’idea dell’elezione diretta del sindaco abbia portato maggiore democrazia, più efficienza e stabilità.

Sembra, all’opposto, che si sia trattata di una delle prime riforme delle tante che stanno modificando radicalmente il sistema democratico e delle istituzioni, spostando la sovranità sempre più dal popolo a ristrettissimi vertici politici, per altro operanti generalmente al di fuori delle istituzioni.

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