Sul Corriere della sera del 14
agosto 2016 l’articolo di Sergio Rizzo “La
«rotazione» che fa impazzire tanti manager pubblici” rappresenta
perfettamente la confusione immensa di chi “narra” i contenuti della riforma
Madia probabilmente sulla sola base dei comunicati stampa governativi e in
relazione ad alcune mezze verità dell’organizzazione, la cui rappresentazione
però distorce i dati concreti.
Partiamo dal titolo. Fa effetto
il riferimento alla “rotazione”, perché evoca le misure anticorruzione e le
tante parole spese dal presidente dell’Anac Cantone. Inoltre, la rotazione
viene da molti considerata comunque opportuna per l’arricchimento professionale
e per evitare l’esposizione troppo prolungata ai condizionamenti di un certo
ambiente.
Infatti, il Rizzo, nel corpo
dell’articolo, ironizza sulla per lui presunta necessità che esigenze di
professionalità escludano l’apertura a continui cambiamenti di incarichi i
dirigenti pubblici. Si legge: “La riforma
prevede che non si possa occupare lo stesso posto per più di sei anni. E come
la mettiamo con l'esperienza? Maneggiare soldi e percentuali mica è da tutti.
Magari ti arriva a via XX settembre un segretario comunale, e non sa nemmeno
dove mettere le mani... Mentre adesso funziona tutto così bene, alla
perfezione. Tanto che nei ministeri, dicono le statistiche, tutti i dirigenti
di prima fascia raggiungono almeno il 90% del massimo”.
L’assunto è la perfetta
permeabilità, quindi, di qualsiasi incarico in qualsiasi ministero. Perché i
dirigenti “sono manager” e quindi debbono esercitare solo competenze
trasversali, “saper fare squadra”, “dirigere i team”, “costruirsi lo staff” e “utilizzare
al meglio le risorse per innovare processi e prodotti”. Slogan per la verità
fin troppo banali che non valgono nemmeno nell’ambito aziendale, ma che restano
totalmente privi di senso nell’amministrazione pubblica che è caratterizzata da
necessità di investimento in competenze estremamente verticali e in conoscenze
tecniche specifiche, tali da rendere queste qualità generali del manager
assolutamente insufficienti. Non si può dirigere un ufficio delle
espropriazioni se non si conosce molto a fondo la normativa specifica: potrai
saper fare squadra quanto vuoi, ma se non segui, come dirigente, con attenzione
e competenza estrema il “processo e prodotto” che ti viene imposto totalmente
dall’esterno (cioè dalle leggi), fai solo danno ai privati e all’erario.
Ora, la rotazione è uno
strumento certamente importante per evitare la creazione di sultanati. Ma, da
qui a passare a considerare completamente equivalenti investimenti in
competenze specifiche ne corre. Un dirigente di via XX Settembre non sa nulla
di funzioni, competenze, esigenze e modalità operative di un ente locale; un
segretario comunale non sa niente di produzione, organizzazione,
interpretazione delle complicatissime norme in tema fiscale. Un interscambio
per “rotazione” tra queste due figure significa solo buttare via anni di
formazione soggettiva di ciascuno di loro, ed anni di investimento in
aggiornamento e professionalizzazione realizzati dagli enti presso i quali
lavorano.
Ma, al di là di questa evidenza
che evidentemente la stampa non è in grado di cogliere, affascinata dalla
narrazione erronea dello Stato e degli enti pubblici come “azienda”, basta
semplicemente leggere la legge 124/2015 e le bozze del decreto attuativo per
comprendere che di rotazione non si parla affatto.
La riforma non è per nulla
improntata al principio della rotazione degli incarichi. Se così fosse, al
netto dei problemi segnalati sopra della conservazione e valorizzazione delle
professionalità che si acquisiscono (è bene ricordare al Rizzo che non si
diviene dirigenti – non sempre almeno, come si vedrà – per volontà dello
Spirito Santo, ma a seguito di concorsi, che susseguono ad almeno 5 anni di
attività e formazione in una certa branca), non vi sarebbero troppi problemi.
Alla dirigenza verrebbe chiesto di modificare periodicamente enti e sedi di
lavoro (ma non si capirebbe con quali criteri territoriali e di efficienza),
come da sempre, per esempio, accade per i prefetti o i magistrati (al netto
della circostanza che, comunque, questi alti dirigenti hanno trattamenti
economici stellari e ad alcuni, i prefetti, addirittura si assicurano residenze
principesche nei palazzi delle vituperate province, per facilitarne la “rotazione”…).
La realtà è proprio un’altra: la
riforma vuole creare un “mercato della dirigenza” nel quale del tutto a caso i
dirigenti, dopo 4 (o 6 a seguito di una proroga biennale) anni di incarico non
possono proseguire a svolgerlo nello stesso ente, se non a condizione che l’ente
emetta un avviso pubblico, pubblicato da apposite commissioni nazionali, per
pubblicizzare la necessità dell’incarico, così da permettere di partecipare a
tutti i dirigenti inseriti nei ruoli unici ad una “selezione”, governata dalle
medesime commissioni; queste elaborano una “rosa” di nominativi, trasmessa,
poi, all’organo politico che sceglierà in totale arbitrio chi incaricare.
Non c’è alcun principio di
rotazione, ma semplicemente la disconnessione tra la qualifica dirigenziale e
la copertura dell’incarico, rimessa, come capisce chiunque legga il testo delle
riforme, al semplice “capriccio” del politico di turno. I, quale potrebbe, certamente,
considerare esperienze e professionalità acquisite e magari confermare il
dirigente che per 6 anni ha ben operato; oppure, azzardare un dirigente che per
anni ha diretto l’anagrafe di un comune al posto di un dirigente esperto un
finanze statali: assurdità che la legge espressamente consente, al preciso
scopo non di consentire la “rotazione”, bensì di consegnare le sorti della
dirigenza nelle mani dei politici, per rafforzare ogni oltre misura lo spoil system e creare una dirigenza
politicizzata o, comunque, sotto il giogo delle fortissime pressioni politiche,
rafforzate dal potere di incarico e mancata conferma ad libitum senza motivazione alcuna.
Siamo entrati, dunque, nel cuore
della questione. Che il Rizzo sintetizza, invece, in tutt’altro modo,
affermando che la dirigenza (specie quella di Palazzo Chigi) sta boicottando la
salvifica riforma Madia perché presa dal terrore “terrore di retrocedere per chi
resta senza posto perché non valutato meritevole, questo si profila con la
riforma della dirigenza, si è sparso nei ministeri. Paura vera, perché nessuno
ha mai provato l'onta della retrocessione per demeriti professionali”.
L’affermazione è estremamente
suggestiva e fornisce l’immagine di un apparato dirigenziale tetragono nel
rimanere abbarbicato ad incarichi (e privilegi), pauroso di essere valutato, perché
potrebbero, questi dirigenti gaglioffi, essere valutati non meritevoli e,
quindi, perdere il posto o, come indicato dalla riforma, dover chiedere di
retrocedere a funzionari per evitare il licenziamento.
Peccato, però, che questa
suggestione evocata dal Rizzo sia totalmente sbagliata.
La legge 124/2015 e le bozze di
decreto attuativo non si limitano ad enunciare un assunto che è assolutamente normale
per qualsiasi “ingaggio” lavorativo di qualsiasi tipo e, cioè, risolvere il
rapporto di lavoro nei confronti di chi ottenga valutazione negative per non
aver conseguito gli obiettivi richiesti. D’altra parte, la possibilità di
licenziare i dirigenti non meritevoli esiste da sempre ed attualmente è
definita dall’articolo 21 del d.lgs 165/2001, norma vigente ed efficace. Se,
poi, i valutatori (tutti di nomina politica) non sono in grado di valutare e
colpire i non meritevoli, forse il problema non sta proprio nella necessità di
riformare la normativa sulla dirigenza, ma di intervenire sugli apparati
politici o in staff alla politica, che non sanno né valutare, né definire
obiettivi davvero credibili e misurabili.
Il fatto è che, come detto
sopra, qualsiasi dirigente superati 6 anni di effettuazione della prestazione,
anche se sarà stato valutato come meritevole (e questo avverrà certamente per
chi appunto svolgerà un incarico di 6 anni, in quanto la proroga biennale dopo
il primo quadriennio sarà consentita solo a condizione dell’acquisizione di
valutazioni favorevoli) dovrà comunque cessare dall’incarico e rientrare nel
ruolo unico, con lo stipendio più che dimezzato e dovrà partecipare alle
procedure sintetizzate prima per sperare di ottenere un nuovo incarico.
Il punto deteriore,
inefficiente, probabilmente incostituzionale, foriero di una becera
politicizzazione della dirigenza, della riforma Madia è proprio questo:
nonostante la stampa, raccogliendo le veline governative, continui a raccontare
che sarà valorizzato il merito, il sistema degli incarichi sarà totalmente
slegato da qualsiasi riferimento ai risultati ottenuti e, quindi, alla
meritevolezza del dirigente.
La regola d’ingaggio non sarà: “ti
affido un incarico a tempo, valuto come lo gestisci e se raggiungerai gli
obiettivi prefissati te lo riconfermo, altrimenti ti licenzio”. Al contrario,
sarà: “ti affido un incarico a tempo e, anche qualora avrai ben operato,
comunque dopo 6 anni ti lascio senza incarico e con lo stipendio falcidiato, né
ti garantisco in alcun modo di svolgere la tua attività né presso l’ultimo ente
dove hai lavorato, né presso qualsiasi altro”.
Il comandamento della riforma è:
dopo 4 o 6 anni i dirigenti debbono avere una cesura nell’espletamento degli
incarichi e finire “a disposizione dei ruoli”, con il trattamento economico
ridottissimo. Lo scopo è chiarissimo: mettere totalmente il loro futuro
lavorativo, la sussistenza, la professionalità, nelle mani della politica e “brigare”
con essa per ottenere la “spinta” ad essere inseriti dalle commissioni nelle “rose”,
dalle quali la politica poi attingerà, aspettandosi gratitudine e contraccambi.
Non è, dunque, affatto vero che
i dirigenti resteranno privi di incarico se valutati non meritevoli. Per coloro
che saranno valutati in modo insufficiente, l’unica differenza è che potranno
vedersi risolto il rapporto di lavoro anche prima dei 4+2 anni di durata dell’incarico.
Ma al quarto o sesto anno, resteranno senza incarico tanto quelli valutati
male, quanto quelli considerati, invece, sì meritevoli, ma messi alla porta
comunque.
La cosa davvero assurda è che le
conseguenze saranno identiche, sia per i dirigenti considerati incapaci, sia
per i meritevoli: rimanere privi di incarico a stipendio dimezzato per 6 anni,
con ulteriori riduzioni del 10% ogni anno ed essere destinati al licenziamento,
a meno che non chiedano di essere demansionati come funzionari (senza che
nessuno possa capire come e dove potranno andare a prestare servizio da
funzionari, visto che non apparterranno ai ruoli di nessun’amministrazione).
Quindi la riforma, descritta
come “meritocratica” ha il paradossale esito di non tenere in alcun conto la competenza
e la capacità dimostrata e di far finire in disponibilità dei ruoli nello
stesso modo capaci ed incapaci.
Ma, il Rizzo non demorde. E,
come il resto degli altri giornalisti della stampa generalista, smuove
confusamente le acque, continuando ad accusare i dirigenti (ed i critici della
riforma) di arroccarsi in una posizione di boicottaggio abbarbicandosi ad argomentazioni
considerate, dal Rizzo, meri artifici dialettici. La principale argomentazione
che il Rizzo ritiene solo un pretesto è quello dell’evidente lesione che la
riforma Madia determinerebbe al principio di separazione tra politica e dirigenza,
sottomettendo totalmente questa alla prima, creando la totale politicizzazione
di cui anche qui si è parlato prima.
Dunque, Rizzo spara a palle
incatenate contro chi evidenzia questo palese effetto di politicizzazione: “C'è chi soffia sul fuoco anche fuori dei
ministeri. Carlo Deodato, consigliere di Stato già capo di gabinetto di Renato
Brunetta, che guidava l'ufficio legislativo di palazzo Chigi prima che Matteo
Renzi lo sostituisse con l'ex capo di vigili urbani di Firenze Antonella
Manzione, ha palesato per esempio in un lungo articolo l'eventualità che con la
riforma «si un assetto della dirigenza pubblica che la renda ossequiosa al
governo». Come se non fosse mai esistito il rischio di una commistione fra
politica e amministrazione in un Paese dove un prefetto del calibro di Umberto
Postiglione ha potuto ricoprire un La parola incarico politico come quello di
sindaco di Angri, città di 30 mila abitanti, continuando tranquillamente a
lavorare al Viminale: ministero che per inciso vigila sui Comuni. Lui ne va
fiero”.
Non si capisce davvero,
tuttavia, quale sarebbe l’argomentazione contraria proposta dal Rizzo. E’
evidentemente legittimo non condividere le opinioni altrui: anzi, è largamente
opportuno che si sviluppino dibattiti con tesi opposte, allo scopo di ampliare
quanto più possibile i punti di vista della disamina, per comprendere tra tesi
e antitesi quali sintesi siano alla fine da considerare corrette.
Però, nelle parole del Rizzo e
di tanti altri fautori della riforma, si nota l’assenza assoluta dell’antitesi
rispetto alla tesi. Come visto sopra, il Rizzo, e con lui tanta stampa, per un
verso racconta fatti contraddetti dal contenuto delle norme (rotazione,
valutazione, merito, etc.).
Per altro verso, all’obiezione
fondamentale che la riforma finisce per indurre la dirigenza a divenire da
strumento della politica per attuare sul piano tecnico l’indirizzo politico, ma
nel rispetto dei principi di imparzialità, buon andamento ed efficienza, a
dirigenza politicizzata e di partito e, quindi “di parte” e non più al servizio
esclusivo della Nazione, come imposto dall’articolo 98 della Costituzione, il
Rizzo sembra rispondere facendo spallucce: “embè, non succede anche adesso?”.
Ma, la domanda è un’altra. E’
vero, succede anche adesso. I problemi, però, allora, sono due:
1.
è da considerare utile e corretto che la dirigenza sia
nelle mani della politica ed agisca per l’interesse della maggioranza al potere
e non della collettività?;
2.
qual è la dimensione del fenomeno?
Al primo problema il Rizzo
risponde, sempre nell’articolo che ha dato spunto a questo scritto, con una
valutazione negativa. Al giornalista sembra proprio non piacere che i dirigenti
pubblici flirtino con la politica. Infatti, racconta le vicende di due noti grand commis allo scopo evidentemente
didascalico di dimostrare che anche oggi, senza la riforma, avvengono cose poco
commendevoli. Ecco il racconto: “Magari
non tutti lo aspettavano a braccia aperte. Comunque Marcello Fiori, il figliol
prodigo, è tornato a palazzo Chigi. Dirigente di prima fascia della presidenza
del Consiglio: il posto è suo e nessuno glielo può toccare. Da due anni e mezzo,
secondo il sito del governo, risultava comandato al Senato, in virtù, si
intuisce, del suo incarico politico. Quello di coordinatore degli enti locali
di Forza Italia. Partito dov'era approdato forzando il proprio passato. L'ex
sindaco di Roma Francesco Rutelli l'aveva prelevato dall'Acea, affidandogli
incarichi sempre più importanti come quello del grande Giubileo. Poi Guido
Bertolaso l'aveva preso sotto la sua ala: commissario a Pompei e dirigente
generale dello stato, forse caso più unico che raro, per decreto. Fino a
Berlusconi, che l'aveva voluto a capo dei suoi club quando aveva già perso il
proverbiale tocco magico. Lui ce l'aveva messa tutta, fin dal debutto, nel
2013. Quando esclamò: «Devo dare un dispiacere a Berlusconi,che ha parlato di
mille club. Presidente, i club sono 3.386!». Acqua passata”.
Il Rizzo sembra proprio
disapprovare la circostanza che un dirigente pubblico abbia temporaneamente
abbandonato la propria funzione dirigenziale, per abbracciare brevemente una
carriera politica attiva e poi tornare al proprio posto.
Siamo perfettamente d’accordo. L’autonomia
della dirigenza dovrebbe presupporre che accanto al sacrosanto diritto di
ciascun cittadino di esercitare i propri diritti di elettorato attivo e passivo
e, quindi, ci impegnarsi in politica, vi debba essere la simmetrica misura di
prudenza posta ad imporre ai dirigenti pubblici (lo stesso dovrebbe valere, a
maggior ragione, per i magistrati) di dimettersi dalla funzione svolta.
Dimissioni o decadenza dal posto di lavoro: la semplice aspettativa non basta, né
misure come quelle della normativa anticorruzione, che escludono per tre anni
dalla conclusione dell’attività politica dalla possibilità di avere alcuni
incarichi dirigenziali appaiono più di meri palliativi.
Però, invece, attualmente è
così: la normativa consente ed anzi agevola queste le “porte girevoli” tra
politica e dirigenti che il Rizzo condanna.
Ma, allora, se la commistione
tra politica e dirigenza viene considerata poco commendevole dal Rizzo, allora
il giudizio che Egli dovrebbe coerentemente dare della riforma Madia dovrebbe
essere connotato di altrettanta negatività. Infatti, come dimostrato prima, la
riforma di fatto rende un “sistema” generalizzato ciò che oggi avviene per
circoscritti segmenti: la commistione tra dirigenza e politica.
Andiamo, allora, al secondo
elemento problematico enunciato prima: qual è la dimensione del fenomeno,
attualmente?
Nell’attuale regime normativo
(ovviamente, al netto di comportamenti delinquenziali e penalmente rilevanti,
come truccare i concorsi pubblici per far vincere gli “amici”) esiste una
divisione molto chiara tra:
a)
dirigenti di ruolo, assunti per concorso, che svolgono
la carriera dirigenziale presso l’amministrazione che li ha reclutati;
b)
dirigenti “a contratto”, cooptati nella maggior parte
dei casi senza concorsi direttamente dalla politica.
Questa seconda categoria ha una
dimensione quantitativa normativamente prevista: il 10% circa della dirigenza
complessiva dello Stato; il 30% circa nei comuni e negli enti locali;
percentuali variabili che vanno dal 10% al 20% nelle regioni; percentuali fino
al 30% nelle restanti amministrazioni.
Il fenomeno, quindi, della
dirigenza “ossequiosa della politica”, perché chiamata per via fiduciaria e
senza concorsi per ragioni di appartenenza politica nelle cariche, è
attualmente confinato entro limiti numerici oggettivamente troppo alti (e
spesso violati), ma, comunque, contenuti.
Con la riforma Madia questo
fenomeno – che il Rizzo, come visto, condanna – diventerà, invece,
generalizzato, perché solo mediante contatti strettissimi tra dirigenza e
politica i dirigenti di fatto potranno contare sulle spinte necessarie per non
restare 6 anni a non far nulla a rischio licenziamento o umiliazione del
demansionamento, anche se non abbiano mai ricevuto valutazioni negative.
Allora, se si dà un giudizio
critico della dirigenza che si avventura nella politica contando sulle “porte
girevoli”, coerenza vorrebbe che la riforma Madia venisse letta e commentata
per quello che è: la sublimazione di questo sistema, nel quale è del tutto
evidente che le porte girevoli saranno sempre più manovrabili e manovrate dalla
politica, che non dovrà nemmeno più “sporcarsi le mani” truccando i concorsi
con pressioni e raccomandazioni per collocare gli amici.
L’articolo del Rizzo, oltre
tutto, è un clamoroso autogol. Infatti, allo scopo di evidenziare che la
rivendicazione dell’autonomia della dirigenza dalla politica è solo un “paravento”
e destare nei lettori la sensazione che i dirigenti, in realtà, sono tutti
fiancheggiatori dei partiti, cita casi che sono tutti rappresentativi
esattamente degli incarichi a contratto. Tutti i nomi che menziona nell’articolo
si riferiscono a persone incaricate negli uffici di staff dei ministeri, che
non sono mai entrate nei ruoli della pubblica amministrazione per concorso, ma
solo a seguito di incarichi diretti e fiduciari da parte della politica, a
partire da Incalza.
I capi di gabinetto sono da
sempre oggetto delle critiche del Rizzo e della stampa, come simbolo dei “mandarini”
inamovibili e privilegiati. Ma, questa stampa non spiega mai che proprio capi
di gabinetto, direttori generali dei ministeri (e dei comuni), segretari generali,
capi dipartimento, sono da sempre scelti per via fiduciaria dalla politica,
reclutandoli prevalentemente dalla magistratura ordinaria o amministrativa e
contabile. Se sono dei “mandarini” potenti e inamovibili, ciò è dovuto ad una
politica che pur potendo con pieni poteri legittimi (la Corte costituzionale,
mentre considera illegittimo lo spoil system per la dirigenza gestionale, lo
ammette, invece, per gli incarichi di massimo vertice dello Stato), non ha la
forza e la capacità di incidere nei confronti di questi ruoli e continua a tenersi
sempre le stesse facce.
Questi dirigenti cooptati, per
altro, non rischiano nulla. Ai capi di gabinetto e vertici massimi
sostanzialmente non vengono assegnati obiettivi né sono sottoposti a
valutazione; sono loro che danno gli obiettivi e sovrintendo alla valutazione
altrui. Inoltre, poiché si tratta di soggetti che un lavoro ce l’hanno già
(magistrato, dirigente di altra amministrazione, professionista), l’eventuale
scadenza e mancato rinnovo dell’incarico non li scalfisce: poiché le norme
regolanti in particolare gli incarichi dirigenziali a contratto nell’ambito del
lavoro pubblico consentono agli incaricati di mettersi in aspettativa, una
volta che un magistrato in aspettativa cessi dall’incarico di capo di
gabinetto, può tornare tranquillamente a lavoro e stipendio da magistrato.
La riforma Madia non scalfisce
minimamente questo sistema che lascia intatto ed anzi rafforza. Infatti, mentre
oggi per gli incarichi dirigenziali a contratto occorre una motivazione che
spieghi che nei ruoli non esistono le professionalità necessarie, le bozze del
decreto attuativo prevedono che quel 10% di dirigenti a contratto sarà
incaricabile senza nemmeno più dover fare lo sforzo di evidenziare la carenza
di professionalità interne.
Dunque, le “spallucce” del Rizzo
rispetto al problema sono oggettivamente paradossali. E’, infatti, vero che la
deteriore politicizzazione della dirigenza esiste; ma esiste in particolare per
la dirigenza di vertice. La riforma Madia non modifica per nulla questo sistema
che, dunque, deteriore è e deteriore resta. Ma, invece, la riforma colpisce la
dirigenza di ruolo, quella non cooptata dalla politica, ed estende anche a
questa i meccanismi che il Rizzo condanna.
Questi sono i dati. Allora,
occorrerebbe un minimo di chiarezza e coerenza. Se al Rizzo e alla stampa in
generale la riforma va bene perché consente di vellicare il popolo raccontando
loro che si eliminano privilegi della casta dei “mandarini”, così si vendono
più copie di giornale, va bene: è una scelta cinica e non proprio rispettosa
del dovere dell’informazione di dare ai cittadini notizie corrette e fondate,
ma fa parte del gioco. Oppure, ancora, se la riforma va bene perché l’editore e
gli inserzionisti richiedono che si dia supporto incondizionato al Governo per
sostenerlo e mantenerne il consenso, anche questo fa parte delle regole del
gioco, sebbene anche questo non vada proprio d’accordo con i doveri di un’informazione
completa e libera.
Se, invece, la riforma va bene perché
si parte da preconcetti e non la si legge nei suoi contenuti e non si comprende
che essa, lungi dal risolvere, estende ed aggrava le storture già oggi
esistenti, forse, allora, è opportuno approfondire di più e non aspettare anni,
per poi partire con inchieste sulla nuova “casta” dei dirigenti politicizzati.
Ciò potrà aiutare a vendere i pamphlet, ma il Paese avrà compiuto un altro
gravissimo passo indietro, senza che nessuno glielo abbia fatto capire prima.
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