Stakeholder, steakhouse, Shakespeare… inglesizzare per confondere
L. Oliveri (La Gazzetta degli Enti Locali 24/3/2011)
L. Oliveri (La Gazzetta degli Enti Locali 24/3/2011)
Va di gran moda, sull’abbrivio delle interpretazioni date del d.lgs. 150/2009 dalla Civit, prevedere l’estensione anche agli enti locali di misure di dialogo con gli stakeholders per la programmazione strategica degli obiettivi da raggiungere.
È molto diffusa, in sintesi, l’idea secondo la quale anche agli enti locali si applicherebbe l’articolo 10 del d.lgs 150/2009, il quale va letto in combinazione con:
Stakeholder, l’orrenda e cacofonica espressione di inglesismo “radical-chic” cui la Civit e molti Oiv proprio non riescono a sottrarsi, ha un significato letterale ben preciso: allibratore. Non è propriamente molto tranquillizzante, molto meno “nobile” di quanto i detentori del “bon ton” aziendalistico intendono dispiegare a piene mani, quando discettano di “valutazione” e dell’altra raccapricciante parola straniera performance. In effetti, la parola è il composto di due altre: stake, che significa scommessa; holder, che significa possessore.
Per traslato, la parola passò nell’uso gergale della finanza. In effetti, chi possiede azioni “scommette” sul loro valore futuro, attraverso le operazioni finanziarie in borsa. Sicchè, stakeholder assunse il significato di “possessore di azioni” e, dunque, di titolari di quote di partecipazione, ai quali rispondono gli organi amministrativi delle aziende.
All’inizio degli anni ’60 del secolo e millennio scorso, l’Università di Stanford rielaborò il senso della parola, estendendone il concetto non solo ai possessori di azioni delle imprese, ma anche ai clienti che ne acquistano i prodotti. In effetti, le aziende sopravvivono non solo per l’apporto degli azionisti e della filiera di manifattura, ma anche per l’apporto fondamentale dei clienti. Stakeholder, dunque, sono tutte le persone che forniscono all’impresa un supporto indispensabile, quale appunto l’acquisto dei prodotti. Essi, pertanto, debbono soddisfare determinati requisiti di qualità e costo specifici per ogni stakeholder: al di sotto dei requisiti necessari, infatti, i medesimi stakeholder-clienti cambierebbero fornitore e, dunque, l’impresa potrebbe andare in crisi produttiva e di vendita.
A metà degli anni ’80, l’espressione muta nuovamente di significato, quando si introducono all’interno del capitalismo anche il concetto di etica e bilancio sociale. Lo stakeholder, allora, diviene anche colui che possa subire conseguenze negative dal processo produttivo dell’impresa, senza esserne né un dipendente, né un cliente: per esempio, colui che abita vicino all’impianto di produzione e potrebbe subirne le conseguenze ambientali e di inquinamento.
L’impresa, dunque, deve mirare anche a soddisfare gli interessi di particolari soggetti, per non subire conseguenze negative in termini di consenso sociale e dimostrare attenzione non solo ai profitti.
In questa ultima accezione, dunque, gli stakeholder sono qualificabili semplicemente come “portatori di interesse”, cioè i controinteressati all’avvio o alla gestione di un’attività produttiva.
Insomma, tutto ha a che fare con i delicati rapporti impresa-azionisti-clienti-cittadini controinteressati, nell’ambito di relazioni prevalentemente privatistiche e di regole generali sull’attività di impresa. Pochissimo l’orribile termine stakeholder ha a che vedere con l’azione pubblica. Almeno nell’ordinamento italiano e, in particolare, per gli enti locali.
Proviamo a spiegare il perché, pur sapendo di essere in questa fase della moda interpretativa quasi eretici. Indiscutibilmente il d.lgs. 150/2009 si riferisce alla teoria dell’etica sociale dell’attività non solo dell’impresa privata, ma anche pubblica, sottolineando la necessità di tenere espressamente conto dei bisogni dei cittadini, allo scopo di conformare scopi e modi dell’azione amministrativa ai loro concreti bisogni.
L’articolo 8, comma 1, lett. e), per questa ragione richiede lo sviluppo di forme di partecipazione e collaborazione con i “portatori di interesse”. Il sistema di gestione e valutazione previsto dal Titolo II della riforma-Brunetta, dunque, dovrebbe indurre a ripensare ed organizzare le attività delle amministrazioni, proprio nella logica dell’etica e della rendicontazione sociale, in modo da garantire un dialogo sulle ricadute sociali delle attività con le categorie di soggetti che possono influenzarle, esserne influenzate o, che comunque ne siano interessate.
Per questo, i neo-aziendalisti pubblici consigliano di costituire relazioni formali con gruppi selezionati di portatori di interessi più importanti, che maggiormente possano influenzare l’attività specifica, mediante riunioni generali, per consentire loro la verifica delle attività e le concrete ricadute dell’azione.
In astratto, il concetto è ineccepibile. In concreto, è evidente come questo sistema di concepire l’esito dell’azione amministrativo appartenga pienamente ad un sistema di common law anglosassone. Come è noto, all’ingrosso tale tipo di sistema si caratterizza per l’assenza di un diritto amministrativo vasto ed esteso come in Italia. L’attività “pubblica” è regolata sostanzialmene dal diritto comune (la common law, appunto) e, cioè, dal diritto privato. La negoziazione è la regola. L’esercizio di poteri autoritativi riguarda non tanto la fase di riconoscimento di un beneficio al privato, quanto, invece, quella dei controlli successivi. Inoltre, il minor grado di dettaglio della regolamentazione dell’agire pubblico rende opportuno un colloquio diffuso con i portatori di interesse, per coinvolgerli nell’elaborazione stessa di strumenti finalizzati alla regolamentazione dei reciproci rapporti.
È evidente la sostanziale impossibilità di sovrapporre tale sistema all’ordinamento italiano. Sarebbe stata necessaria quella radicale riforma della Costituzione, naufragata nel 1997 con l’affossamento della Bicamerale.
Certo, il naufragio non è stato totale. Qualche pezzo della nave è riemerso a galla. Cascami della riforma si reperiscono di qua e di là in alcune norme, a partire da alcune delle riforme-Bassanini, che cercarono di anticipare gli effetti della grande riforma, mai avvenuta.
Tracce, dunque, di un ordinamento “anglosassone” le reperiamo nella legge 241/1990, ove all’articolo 1, comma 1-bis, si prevede la sterile e mai attuata disposizione secondo la quale “la pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”. La più volte riformata Dichiarazione di inizio attività (Dia), oggi divenuta Segnalazione certificata di inizio attività (Scia) è la più evidente fattispecie di tentativo di lasciar formare titoli privati e non pubblicistici per l’avvio di attività di impresa, mediante relazioni semplificate tra imprese e p.a.
Ma, per il resto, come affermano i noti proverbi, “non siamo inglesi”. La grandissima parte delle attività pubbliche è regolamentata fino all’ipertrofia. Tanto che l’insistenza su metodi formali di relazioni costanti con gli stakeholder lasciano intravedere il serissimo rischio di un impiego inopportuno di tempo e risorse, rispetto al risultato concretamente producibile.
Questo vale, in particolare, per gli enti la cui azione sia più vicina alla vita di ogni giorno dei cittadini.
Non si deve dimenticare un aspetto particolare della riforma Brunetta: essa è pensata specificamente per le amministrazioni statali, quelle fisiologicamente meno vicine alla comunità amministrata ed anche più aliene alla logica della valutazione del personale. Pochi sanno che i sistemi di valutazione, nello Stato, nelle Aziende e negli enti nazionali (salvo rare eccezioni, sia pur positive) si sono sempre limitati ad affrontare la produttività dei dirigenti. Per i dipendenti dell’area delle qualifiche l’attribuzione del salario accessorio connesso al “risultato” da sempre, ancora fino ad oggi, si sostanzia nella verifica della presenza (1) e del livello. L’avvio di un dialogo serrato e continuativo con i portatori di interesse, ma meglio sarebbe parlare di cittadini, per amministrazioni lontane è quanto mai opportuno, per tarare e saggiare la capacità di dare vita ad attività amministrative veramente capaci di generare benefiche ricadute.
Tutto questo vale anche per gli enti locali? Molto ma molto meno. Ma, prima di approfondire l’argomentazione, spostiamoci nell’ambito del Sistema sanitario nazionale, gestito dalle regioni. Molti si ricorderanno del recente tragico caso di quella persona dimessa dal ricovero ospedaliero per rispettare il termine massimo di degenza previsto dalle “linee guida” regionali, deceduta subito dopo essere giunta a casa. Da qui la domanda, ovviamente retorica: ma, l’azienda ospedaliera, piuttosto che la Usl, ha proprio bisogno di una relazione con lo stakeholder per comprendere che un paziente dovrebbe essere dimesso solo quando è pienamente guarito e non quando lo stabiliscono fantomatiche linee-guida?
Ovviamente no. Allo stesso modo, il comune non ha alcuna necessità di verificare con lo stakeholder se sia necessario l’asilo nido: basta confrontare i dati demografici con i posti disponibili nei nidi pubblici.
Tutta questa attenzione per un assemblearismo con i “portatori di interesse” lascia aperti due rischi. Il primo, una ridondanza di attività non necessarie. La seconda, più grave, è l’idea della sostanziale “negoziabilità” dell’attività amministrativa. Le imprese di costruzione avrebbero tutto l’interesse a contrattare su tempi, modalità, metodi, sistemi e condizioni per ottenere più facilmente titoli abilitativi o controlli ispettivi meno pressanti. E lo stakeholder di incanto si trasformerebbe in lobbier, in lobbista, non un semplice portatore di interessi, bensì in un soggetto che si sentirebbe autorizzato a co-gestire, per portare avanti un interesse privato considerato equivalente a quello generale. Tale rischio deriva dalla scarsa autonomia degli organi di governo locali, troppo facilmente condizionabili alla ricerca del consenso.
Non c’è, poi, da trascurare la considerazione che il comune e anche la provincia dispongono di un contatto con la cittadinanza molto più diretto ed immediato. Per gli uffici demografici, sociali, tecnici, scolastici, culturali, tributari, del lavoro, lo stakeholder è continuamente dietro lo sportello, dentro l’ufficio, dentro le scuole, sulle strade, nelle case. Un fattore che proprio non manca è il contatto diretto.
Prima, allora, di utilizzare il latinorum ed avviare processi organizzativi e valutativi sproporzionati, sarebbe necessario porsi il concreto problema dell’efficacia di sistemi di contatto e relazione con i portatori di interessa, onde evitare la negoziazione di quanto non è negoziabile e di individuare effettivi ambiti nei quali la ricerca di una relazione diretta con i cittadini sia utile.
Si parla di cittadini e non di portatori di interessi, perché a meglio vedere, l’azione amministrativa non dovrebbe limitarsi, come quella delle aziende, a riguardare solo “gruppi” di portatori di interesse, ma l’intera collettività. Forse, si sta perdendo proprio il tratto distintivo del (questa volta il latinorum lo utilizziamo volutamente) civil servant, il quale agisce nell’interesse di tutti, e non solo allo scopo “difensivo” di non urtare la suscettibilità di portatori di interesse. Semmai, la considerazione per particolari gruppi di cittadini, singoli o associati, occorre per valutare con occhio ancora più attento i diritti pretensivi e difensivi sottesi a materie come l’ambiente, i servizi sociali, l’edilizia, l’istruzione.
Sarebbe necessario, ben prima di parlare di rendicontazione sociale, verificare quali siano i livelli essenziali delle prestazioni, quelli appunto connessi alla condizione di “cittadino”, ben più nobile di quella di mero “portatore di interessi” e comprendere se l’azione amministrativa è in grado di apportare ricadute benefiche necessarie, obbligatorie, immediatamente azionabili se non rese nelle dovute forme e con la qualità richiesta. Appunto, non negoziabili.
L’attivazione dei portatori di interesse ha senso, limitato, alle sole attività che vadano al di là dei livelli essenziali delle prestazioni e degli standard, per verificare con loro quali azioni strategiche porre in essere per raggiungere uno standard lontano, o quali costi siano disponibili ad affrontare per ricevere servizi non standard.
Tutto il resto è solo astrazione, complicazione, latinorum, utilizzo di paroloni come stakeholder, più confodibili con la molto meglio nota steakhouse che utili, se presi solo come idea astratta, a migliorare realmente il modo di amministrare e di migliorare.
Del resto, lo ha anche ammesso con ritardo la Civit, l’articolo 10 non si applica agli enti locali. E, in ogni caso, l’articolo 8 non è nemmeno menzionato tra le norme di principio, cui gli enti locali debbano adeguarsi, ai sensi dell’articolo 16 del d.lgs. 150/2009.
Poiché i sostenitori dell’applicazione pedissequa della riforma agli enti locali, negando i margini che essa, invece lascia loro, molte volte sono parti di Oiv, resta forte l’impressione che l’insistenza sulla rendicontazione sociale e su sistemi di valutazione che insistano sull’applicazione dell’articolo 10 ed altre norme non utili e non necessarie, serva soprattutto a facilitare la penetrazione di consulenze e sistemi preconfezionati.
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(1) Ecco la ragione dell’altrimenti inspiegabile – per gli enti locali – norma, poi abolita, del d.l. 112/2008, convertito in legge 133/2008, che ci “spiegava” come l’assenza non potesse equivalere a presenza ai fini del salario accessorio…
È molto diffusa, in sintesi, l’idea secondo la quale anche agli enti locali si applicherebbe l’articolo 10 del d.lgs 150/2009, il quale va letto in combinazione con:
- l’articolo 5, comma 2, lett. a), della riforma Brunetta, secondo il quale gli obiettivi debbono essere “rilevanti e pertinenti rispetto aibisogni della collettività, alla missione istituzionale, alle priorità politiche ed alle strategie dell'amministrazione”;
- l’articolo 8, comma 1, lett. e), secondo il quale la performance organizzativa deve assicurare “lo sviluppo qualitativo e quantitativo delle relazioni con i cittadini, i soggetti interessati, gli utenti e i destinatari dei servizi, anche attraverso lo sviluppo di forme di partecipazione e collaborazione”, per garantire una sorta di rendicontazione sociale, una compartecipazione dei già citati stakeholders alla formulazione degli obiettivi e dei bisogni da raggiungere.
Stakeholder, l’orrenda e cacofonica espressione di inglesismo “radical-chic” cui la Civit e molti Oiv proprio non riescono a sottrarsi, ha un significato letterale ben preciso: allibratore. Non è propriamente molto tranquillizzante, molto meno “nobile” di quanto i detentori del “bon ton” aziendalistico intendono dispiegare a piene mani, quando discettano di “valutazione” e dell’altra raccapricciante parola straniera performance. In effetti, la parola è il composto di due altre: stake, che significa scommessa; holder, che significa possessore.
Per traslato, la parola passò nell’uso gergale della finanza. In effetti, chi possiede azioni “scommette” sul loro valore futuro, attraverso le operazioni finanziarie in borsa. Sicchè, stakeholder assunse il significato di “possessore di azioni” e, dunque, di titolari di quote di partecipazione, ai quali rispondono gli organi amministrativi delle aziende.
All’inizio degli anni ’60 del secolo e millennio scorso, l’Università di Stanford rielaborò il senso della parola, estendendone il concetto non solo ai possessori di azioni delle imprese, ma anche ai clienti che ne acquistano i prodotti. In effetti, le aziende sopravvivono non solo per l’apporto degli azionisti e della filiera di manifattura, ma anche per l’apporto fondamentale dei clienti. Stakeholder, dunque, sono tutte le persone che forniscono all’impresa un supporto indispensabile, quale appunto l’acquisto dei prodotti. Essi, pertanto, debbono soddisfare determinati requisiti di qualità e costo specifici per ogni stakeholder: al di sotto dei requisiti necessari, infatti, i medesimi stakeholder-clienti cambierebbero fornitore e, dunque, l’impresa potrebbe andare in crisi produttiva e di vendita.
A metà degli anni ’80, l’espressione muta nuovamente di significato, quando si introducono all’interno del capitalismo anche il concetto di etica e bilancio sociale. Lo stakeholder, allora, diviene anche colui che possa subire conseguenze negative dal processo produttivo dell’impresa, senza esserne né un dipendente, né un cliente: per esempio, colui che abita vicino all’impianto di produzione e potrebbe subirne le conseguenze ambientali e di inquinamento.
L’impresa, dunque, deve mirare anche a soddisfare gli interessi di particolari soggetti, per non subire conseguenze negative in termini di consenso sociale e dimostrare attenzione non solo ai profitti.
In questa ultima accezione, dunque, gli stakeholder sono qualificabili semplicemente come “portatori di interesse”, cioè i controinteressati all’avvio o alla gestione di un’attività produttiva.
Insomma, tutto ha a che fare con i delicati rapporti impresa-azionisti-clienti-cittadini controinteressati, nell’ambito di relazioni prevalentemente privatistiche e di regole generali sull’attività di impresa. Pochissimo l’orribile termine stakeholder ha a che vedere con l’azione pubblica. Almeno nell’ordinamento italiano e, in particolare, per gli enti locali.
Proviamo a spiegare il perché, pur sapendo di essere in questa fase della moda interpretativa quasi eretici. Indiscutibilmente il d.lgs. 150/2009 si riferisce alla teoria dell’etica sociale dell’attività non solo dell’impresa privata, ma anche pubblica, sottolineando la necessità di tenere espressamente conto dei bisogni dei cittadini, allo scopo di conformare scopi e modi dell’azione amministrativa ai loro concreti bisogni.
L’articolo 8, comma 1, lett. e), per questa ragione richiede lo sviluppo di forme di partecipazione e collaborazione con i “portatori di interesse”. Il sistema di gestione e valutazione previsto dal Titolo II della riforma-Brunetta, dunque, dovrebbe indurre a ripensare ed organizzare le attività delle amministrazioni, proprio nella logica dell’etica e della rendicontazione sociale, in modo da garantire un dialogo sulle ricadute sociali delle attività con le categorie di soggetti che possono influenzarle, esserne influenzate o, che comunque ne siano interessate.
Per questo, i neo-aziendalisti pubblici consigliano di costituire relazioni formali con gruppi selezionati di portatori di interessi più importanti, che maggiormente possano influenzare l’attività specifica, mediante riunioni generali, per consentire loro la verifica delle attività e le concrete ricadute dell’azione.
In astratto, il concetto è ineccepibile. In concreto, è evidente come questo sistema di concepire l’esito dell’azione amministrativo appartenga pienamente ad un sistema di common law anglosassone. Come è noto, all’ingrosso tale tipo di sistema si caratterizza per l’assenza di un diritto amministrativo vasto ed esteso come in Italia. L’attività “pubblica” è regolata sostanzialmene dal diritto comune (la common law, appunto) e, cioè, dal diritto privato. La negoziazione è la regola. L’esercizio di poteri autoritativi riguarda non tanto la fase di riconoscimento di un beneficio al privato, quanto, invece, quella dei controlli successivi. Inoltre, il minor grado di dettaglio della regolamentazione dell’agire pubblico rende opportuno un colloquio diffuso con i portatori di interesse, per coinvolgerli nell’elaborazione stessa di strumenti finalizzati alla regolamentazione dei reciproci rapporti.
È evidente la sostanziale impossibilità di sovrapporre tale sistema all’ordinamento italiano. Sarebbe stata necessaria quella radicale riforma della Costituzione, naufragata nel 1997 con l’affossamento della Bicamerale.
Certo, il naufragio non è stato totale. Qualche pezzo della nave è riemerso a galla. Cascami della riforma si reperiscono di qua e di là in alcune norme, a partire da alcune delle riforme-Bassanini, che cercarono di anticipare gli effetti della grande riforma, mai avvenuta.
Tracce, dunque, di un ordinamento “anglosassone” le reperiamo nella legge 241/1990, ove all’articolo 1, comma 1-bis, si prevede la sterile e mai attuata disposizione secondo la quale “la pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”. La più volte riformata Dichiarazione di inizio attività (Dia), oggi divenuta Segnalazione certificata di inizio attività (Scia) è la più evidente fattispecie di tentativo di lasciar formare titoli privati e non pubblicistici per l’avvio di attività di impresa, mediante relazioni semplificate tra imprese e p.a.
Ma, per il resto, come affermano i noti proverbi, “non siamo inglesi”. La grandissima parte delle attività pubbliche è regolamentata fino all’ipertrofia. Tanto che l’insistenza su metodi formali di relazioni costanti con gli stakeholder lasciano intravedere il serissimo rischio di un impiego inopportuno di tempo e risorse, rispetto al risultato concretamente producibile.
Questo vale, in particolare, per gli enti la cui azione sia più vicina alla vita di ogni giorno dei cittadini.
Non si deve dimenticare un aspetto particolare della riforma Brunetta: essa è pensata specificamente per le amministrazioni statali, quelle fisiologicamente meno vicine alla comunità amministrata ed anche più aliene alla logica della valutazione del personale. Pochi sanno che i sistemi di valutazione, nello Stato, nelle Aziende e negli enti nazionali (salvo rare eccezioni, sia pur positive) si sono sempre limitati ad affrontare la produttività dei dirigenti. Per i dipendenti dell’area delle qualifiche l’attribuzione del salario accessorio connesso al “risultato” da sempre, ancora fino ad oggi, si sostanzia nella verifica della presenza (1) e del livello. L’avvio di un dialogo serrato e continuativo con i portatori di interesse, ma meglio sarebbe parlare di cittadini, per amministrazioni lontane è quanto mai opportuno, per tarare e saggiare la capacità di dare vita ad attività amministrative veramente capaci di generare benefiche ricadute.
Tutto questo vale anche per gli enti locali? Molto ma molto meno. Ma, prima di approfondire l’argomentazione, spostiamoci nell’ambito del Sistema sanitario nazionale, gestito dalle regioni. Molti si ricorderanno del recente tragico caso di quella persona dimessa dal ricovero ospedaliero per rispettare il termine massimo di degenza previsto dalle “linee guida” regionali, deceduta subito dopo essere giunta a casa. Da qui la domanda, ovviamente retorica: ma, l’azienda ospedaliera, piuttosto che la Usl, ha proprio bisogno di una relazione con lo stakeholder per comprendere che un paziente dovrebbe essere dimesso solo quando è pienamente guarito e non quando lo stabiliscono fantomatiche linee-guida?
Ovviamente no. Allo stesso modo, il comune non ha alcuna necessità di verificare con lo stakeholder se sia necessario l’asilo nido: basta confrontare i dati demografici con i posti disponibili nei nidi pubblici.
Tutta questa attenzione per un assemblearismo con i “portatori di interesse” lascia aperti due rischi. Il primo, una ridondanza di attività non necessarie. La seconda, più grave, è l’idea della sostanziale “negoziabilità” dell’attività amministrativa. Le imprese di costruzione avrebbero tutto l’interesse a contrattare su tempi, modalità, metodi, sistemi e condizioni per ottenere più facilmente titoli abilitativi o controlli ispettivi meno pressanti. E lo stakeholder di incanto si trasformerebbe in lobbier, in lobbista, non un semplice portatore di interessi, bensì in un soggetto che si sentirebbe autorizzato a co-gestire, per portare avanti un interesse privato considerato equivalente a quello generale. Tale rischio deriva dalla scarsa autonomia degli organi di governo locali, troppo facilmente condizionabili alla ricerca del consenso.
Non c’è, poi, da trascurare la considerazione che il comune e anche la provincia dispongono di un contatto con la cittadinanza molto più diretto ed immediato. Per gli uffici demografici, sociali, tecnici, scolastici, culturali, tributari, del lavoro, lo stakeholder è continuamente dietro lo sportello, dentro l’ufficio, dentro le scuole, sulle strade, nelle case. Un fattore che proprio non manca è il contatto diretto.
Prima, allora, di utilizzare il latinorum ed avviare processi organizzativi e valutativi sproporzionati, sarebbe necessario porsi il concreto problema dell’efficacia di sistemi di contatto e relazione con i portatori di interessa, onde evitare la negoziazione di quanto non è negoziabile e di individuare effettivi ambiti nei quali la ricerca di una relazione diretta con i cittadini sia utile.
Si parla di cittadini e non di portatori di interessi, perché a meglio vedere, l’azione amministrativa non dovrebbe limitarsi, come quella delle aziende, a riguardare solo “gruppi” di portatori di interesse, ma l’intera collettività. Forse, si sta perdendo proprio il tratto distintivo del (questa volta il latinorum lo utilizziamo volutamente) civil servant, il quale agisce nell’interesse di tutti, e non solo allo scopo “difensivo” di non urtare la suscettibilità di portatori di interesse. Semmai, la considerazione per particolari gruppi di cittadini, singoli o associati, occorre per valutare con occhio ancora più attento i diritti pretensivi e difensivi sottesi a materie come l’ambiente, i servizi sociali, l’edilizia, l’istruzione.
Sarebbe necessario, ben prima di parlare di rendicontazione sociale, verificare quali siano i livelli essenziali delle prestazioni, quelli appunto connessi alla condizione di “cittadino”, ben più nobile di quella di mero “portatore di interessi” e comprendere se l’azione amministrativa è in grado di apportare ricadute benefiche necessarie, obbligatorie, immediatamente azionabili se non rese nelle dovute forme e con la qualità richiesta. Appunto, non negoziabili.
L’attivazione dei portatori di interesse ha senso, limitato, alle sole attività che vadano al di là dei livelli essenziali delle prestazioni e degli standard, per verificare con loro quali azioni strategiche porre in essere per raggiungere uno standard lontano, o quali costi siano disponibili ad affrontare per ricevere servizi non standard.
Tutto il resto è solo astrazione, complicazione, latinorum, utilizzo di paroloni come stakeholder, più confodibili con la molto meglio nota steakhouse che utili, se presi solo come idea astratta, a migliorare realmente il modo di amministrare e di migliorare.
Del resto, lo ha anche ammesso con ritardo la Civit, l’articolo 10 non si applica agli enti locali. E, in ogni caso, l’articolo 8 non è nemmeno menzionato tra le norme di principio, cui gli enti locali debbano adeguarsi, ai sensi dell’articolo 16 del d.lgs. 150/2009.
Poiché i sostenitori dell’applicazione pedissequa della riforma agli enti locali, negando i margini che essa, invece lascia loro, molte volte sono parti di Oiv, resta forte l’impressione che l’insistenza sulla rendicontazione sociale e su sistemi di valutazione che insistano sull’applicazione dell’articolo 10 ed altre norme non utili e non necessarie, serva soprattutto a facilitare la penetrazione di consulenze e sistemi preconfezionati.
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(1) Ecco la ragione dell’altrimenti inspiegabile – per gli enti locali – norma, poi abolita, del d.l. 112/2008, convertito in legge 133/2008, che ci “spiegava” come l’assenza non potesse equivalere a presenza ai fini del salario accessorio…
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