Lorenzo Salvia avrà scritto l’articolo
“La guerra sotterranea dei dipendenti
pubblici” sul Corriere del 6 agosto scorso per attaccare i segretari
comunali in seguito a proprie, legittime valutazioni di cronista, o su input tramite
sms di qualche capo addetto stampa di Palazzo Chigi?
Il dubbio, dopo che Il Fatto
Quotidiano ha dimostrato che proprio il capo ufficio stampa del premier invia
ad un gruppo telematico di giornalisti i temi sui quali li invita caldamente a
trattare gli argomenti (“menare Di Battista”), è lecito. Per quanto non si
intenda dubitare della professionalità di nessun giornalista.
Ecco, trasportiamo adesso questo
stesso modo di porsi rispetto alle scelte operative dei dirigenti delle
pubbliche amministrazioni.
Il Salvia, nell’articolo citato,
loda indirettamente moltissimo la riforma della dirigenza prevista dalla legge
Madia e, molto più esplicitamente, attacca i segretari comunali, descritti come
una forza oscura e retrograda che vorrebbe boicottarla per beceri interessi di
bottega, come qualsiasi “furbetti del quartierino”.
L’articolo è indispettito contro
“i segretari comunali, che nelle mani
hanno un volante più piccolo [di quello dei dirigenti statali, nda], ma hanno tentato di passare dalla
periferia al centro, di diventare anche loro dirigenti dello Stato”. Però,
i segretari comunali sono colpiti dal destino e dalla storia: “il decreto che riscrive le regole per i
dirigenti dello Stato, che dovrebbe passare in Consiglio dei ministri prima
della pausa estiva, assegna la vittoria proprio a loro, ai dirigenti dello
Stato.”, esulta Salvia.
Ma, sarà proprio così? L’articolo
prosegue con una “breve parentesi tecnica”, con la quale si cercherebbe di
dimostrare che i circa 3.500 segretari comunali avrebbero fatto di tutto per
passare nel ruolo unico dei dirigenti statali, ma che questa strada sarebbe
stata sbarrata loro dalla riforma e da recenti sentenze della Cassazione. Il
tutto, argomenta l’articolo, sarebbe da inquadrare nella “lotta alla burocrazia”
attivata dal premier ed enunciata al Vinitaly di Verona del 2014, quando ancora
la “rottamazione” era rottamazione (bei tempi…) e quindi “contro i mandarini Renzi aveva pescato a pieni mani proprio dal mondo
che conosceva meglio, quello dei Comuni. Come segretario generale di Palazzo
Chigi, per dire, c’era Mauro Bonaretti, l’ex city manager di Reggio Emilia, poi
trasferito al ministero delle Infrastrutture insieme a Graziano Delrio. A capo
dell’ufficio legislativo di Palazzo Chigi, sempre per dire, c’era e c’è tuttora
Antonella Manzione, già direttore generale del Comune di Firenze e comandante
dei vigili urbani”.
Ecco fermiamoci qui, a questa
laude alla rottamazione della dirigenza ed alla scelta personale di dirigenti “di
fiducia” che il politico “conosce meglio”. Torniamo, quindi, alla domanda di
prima rigirandola sul sistema della dirigenza, analizzando, prima, il contenuto
dell’articolo 98, comma 1, della Costituzione: “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”.
Ecco: come la stampa si presuppone (ma non c’è alcuna norma né costituzionale né
di legge ordinaria a stabilirlo) sia indipendente dal potere per svolgere una
funzione di informazione anche critica e non limitarsi alla propaganda, anche
gli impiegati pubblici ed in primis i dirigenti dovrebbero essere al servizio
non di una maggioranza al potere, bensì della Nazione. Questo non significa “indipendenza”
come previsto per il potere separato della magistratura, ma “autonomia”:
capacità, cioè, di operare le scelte concrete in applicazione certamente di un
indirizzo politico che i dirigenti non possono né formare né criticare, bensì
solo attuale, ma nel rispetto pieno ed assoluto dei fondamentali principi di
buon andamento ed imparzialità, nonché legalità ed efficienza.
Il presupposto per garantire ai
dipendenti pubblici l’autonomia necessaria a far sì che le loro decisioni non
siano guidate da logiche di appartenenza politica, ma da regole tecniche
applicate per attuare un indirizzo politico ma senza discriminare i destinatari
per appartenenze, sta nella selezione mediante concorso pubblico.
Il sistema dei concorsi è il
migliore del mondo per selezionare i dipendenti? No, anche perché ancora “Il
Sistema” che garantisca certezza ed efficacia assoluta nel reclutare persone
competenti e capaci non è stato ancora inventato.
Il concorso coniuga alla
possibilità di verificare con strumenti di indagine strutturati (prove di
approfondimento scritto, prove pratiche, interrogazioni molto vaste) la
preparazione e la cultura complessiva del candidato; riesce meno ad individuare
componenti come l’atteggiamento complessivo, le capacità trasversali di
svolgere l’attività lavorativa e relazionali. Ma, il concorso ha una
caratteristica particolare: essendo una procedura strutturata, dalla quale
politici e sindacati sono stati estromessi dal 1993 in poi, è uno sistema
asettico e neutrale, che esclude l’influenza diretta della politica nella
scelta dei candidati.
Certo, non sempre è così. Lo era
molto poco prima del d.lgs 29/1993, quando la presenza di politici e
sindacalisti nelle commissioni favoriva in qualche misura spartizioni
clientelari. Anche adesso i rischi di comportamenti poco commendevoli delle
commissioni d’esame è evidente e rilevante.
Tuttavia, prima del 1993 e anche
oggi, “orientare”, per così dire, i risultati delle commissioni d’esame
costituisce ipotesi varie di reato. Insomma, nulla esclude, considerato l’animo
umano, che anche nei concorsi possano esservi combine, ma il sistema di per sé contiene una deterrenza rispetto a
questo rischio e, comunque, distacca nettamente il dipendente assunto da
possibili ragioni politiche o di conoscenza personale alla base di una sua
cooptazione diretta da pare del politico.
Insomma, il reclutamento tramite
concorsi, al netto dei reati che si commettono per truccarli, mira ad evitare
che il dipendente “debba” la sua assunzione ad un moto di volontà del datore
politico, così da evitare che il dipendente pubblico, al servizio esclusivo
della Nazione, possa sentirsi comunque obbligato ad agire, invece, nel
perseguire interessi particolari del datore che lo abbia “scelto”.
Ora, la riforma della dirigenza
immaginata dalla legge 124/2015 va totalmente in rotta di collisione con questo
sistema, per altro in modo molto subdolo.
Infatti, non si abolisce il
concorso come sistema per l’accesso alla dirigenza, cioè al ruolo unico. No. Il
concorso resta. Solo che si scinde irrimediabilmente l’acquisizione della
qualifica dirigenziale ed il diritto ad essere inseriti nei ruoli dirigenziali,
dall’esercizio della funzione dirigenziale.
L’effetto assurdo e
inaccettabile della riforma è creare, nella sostanza, una dirigenza “potenziale”
o solo “formale”: un elenco, cioè, di persone qualificate come dirigenti, che
però la politica si può riservare di non adibire ad alcun incarico.
L’articolo 11 della legge
124/2015 sul tema è chiarissimo: l’assegnazione di un incarico dirigenziale ai
dirigenti è solo facoltativa.
E’ evidentemente un’assurdità: i
ruoli saranno comprensivi di una quantità di dirigenti addirittura inferiore
rispetto ai fabbisogni oggi formalizzati nelle dotazioni organiche. Non si
capisce, quindi, come sia possibile che un datore di lavoro, Stato, regioni e
comuni, crei in modo selettivo ruoli unici per qualificare i dirigenti, ma si
riservi però il diritto di non avvalersi dell’operato di questi soggetti. Come se,
cioè, la qualifica fosse solo onorifica e non connessa al reclutamento per fare
fronte ad un fabbisogno.
Tra l’accesso alla qualifica e l’assegnazione
dell’incarico, vi sarà una fase ulteriore. Oggi, poiché ogni ente assume mediante
concorso il dirigente nel proprio ruolo organico, è il vertice politico che
assegna formalmente l’incarico dirigenziale al neo assunto, nell’ambito dei
posti disponibili nella dotazione dell’ente: c’è un legame diretto, quindi,
fabbisogno, selezione, suo esito ed incarico assegnato. Allo scadere degli
incarichi, la possibilità di una loro rotazione è limitata al ruolo del singolo
ente.
Con la riforma, tutto cambia. I
ruolo sono nazionali. I singoli enti non avranno più una dotazione di
dirigenti, ma dovranno chiedere al sistema nazionale di gestione dei ruoli l’attivazione
di una procedura complessa di “interpello”. Insomma, verificato che occorra
attribuire un certo incarico dirigenziale, poniamo che un comune dovrà chiedere
alla struttura che gestirà i ruoli di pubblicare per un certo tempo degli
avvisi pubblici, finalizzati a raccogliere le domande di selezione dei
dirigenti interessati. Apposite commissioni nazionali (qualificate come “indipendenti”
dalla legge 124/2015, ma che indipendenti non potranno essere perché di diretta
nomina politica) esamineranno i curriculum. Non si darà vita, quindi, a prove
selettive, ma a valutazioni molto discrezionali, che per altro non avranno come
risultato alcuna graduatoria, bensì elenchi o “rose”. Le commissioni
trasmetteranno le rose ai politici, che poi sceglieranno con totale arbitrio
chi meglio loro aggradi.
Il dato scoperto ed evidente è
che si crea un sistema estremamente complesso per travestire di procedura
competitiva, pubblica e trasparente una scelta assolutamente arbitraria,
negazione assoluta dell’articolo 98 della Costituzione: la scelta finale dei politici,
infatti, avverrà ovviamente solo per ragioni di appartenenza e fedeltà,
comprovata o da comprovare col “ricatto” della temporaneità dell’incarico e
della minaccia che alla sua scadenza, senza ulteriori incarichi, il dirigente
in 6 anni veda falcidiato il proprio stipendio e sia destinato al licenziamento
per carenza di incarico.
Allora, con un sistema del
genere, la domanda – lecita – che qualsiasi cittadino dovrà porsi è: ma, questo
dirigente sta agendo così perché spinto via sms dal sindaco o dall’assessore,
oppure perché sta esercitando un’autonoma funzione gestionale, trattandomi alla
pari con altri e perseguendo l’interesse pubblico?
Un sistema basato solo sulla
cooptazione diretta dei dirigenti mina alla base le garanzie di autonomia
tecnica, che, sarebbe bene tenere presente, sono garanzie non per i dirigenti,
ma per i cittadini: se un apparato pubblico è al servizio della Nazione, nessun
cittadino potrà temere di non ottenere ciò di cui ha legittimamente diritto, né
che altri, appartenenti alla parte politica al governo, possano avvantaggiarsi
a suo discapito.
Ora, il Salvia dimostra che,
invece, la stampa in generale è attratta non dal delicatissimo tema indicato
sopra, ma dal luccichio effimero della “licenzi abilità” dei dirigenti e dal
valore della “conoscenza diretta” del politico. L’articolo nomina il Bonaretti
e la Manzione come fulgidi esempi di dirigenti della rottamazione, perché coperti
dall’aura della scelta diretta della politica. Senza, per esempio, ricordare a
se stesso che entrambi sono in modo più o meno ampio coinvolti negli insuccessi
fin qui evidenti della riforma degli appalti. A testimonianza che la nomina
diretta del potente politico di turno non è di per sé garanzia di risultato.
Sulla “licenzi abilità” che
tanto fa ingolosire la stampa, nessuno si pone l’altro problema. Non è in discussione
che qualsiasi dipendente possa essere potenzialmente licenziato. Dovrebbe,
però, essere noto che trattandosi di contratti, occorre una giustificazione
socio economica accettabile per l’ordinamento alla base della risoluzione del
contratto stesso, elemento tecnico che si chiama “causa giustificativa”.
Sappiamo che nell’ambito del rapporto di lavoro le cause di licenziamento sono
di due tipi: il giustificato motivo soggettivo e il giustificato motivo
oggettivo. Il primo è connesso a rilevanti violazioni delle obbligazioni
contratte dal lavoratore, come danni operativi, comportamenti ostili,
incapacità di raggiungere determinati risultati; il secondo è connesso all’organizzazione
del datore e alla sua condizione economica, dunque legato alla soppressione di
uffici e funzioni lavorative, oppure a cambiamenti tecnologici o, ancora, ad
una crisi economico finanziaria.
La legge 124/2015, però,
introduce la scellerata e illogica ipotesi di licenziamento per “inerzia”:
viene licenziato il dirigente che non ottenga incarichi. Non perché l’ente sia
in dissesto o abbia problemi finanziari, o perchè quel dirigente abbia mal
operato e, quindi, venga estromesso a causa di risultati negativi. Anzi, la
cosa più assurda è che il sistema immaginato dalla legge pone sullo’identico
piano il dirigente rimasto privo di incarico a seguito di valutazione negativa
ed il dirigente rimasto privo di incarico semplicemente perché il precedente è
scaduto e non ottenga incarichi con le “selezioni” delle commissioni. Entrambi,
infatti, potrebbero restare a languire per anni nel ruolo, senza lavorare, con
stipendio ridotto. Ed entrambi potrebbero, come ultima ratio, demansionarsi a
funzionari (ma, per lavorare dove, visto che non fanno parte della dotazione organica
di un ente specifico?). Con l’effetto pazzesco che un’umiliazione gravissima,
come il demansionamento magari causato da una conventio ad escludendum di
quello specifico dirigente considerato “scomodo” da un apparato politico,
divenga addirittura un “premio” per il dirigente incapace, che invece di essere
totalmente espulso, come sarebbe normale, dal sistema, potrebbe restarvi dentro
a disdoro di qualsiasi ragionamento su “merito” e “valutazione”.
Sarebbe interessante che la
stampa sapesse concentrare la propria attenzione su queste questioni delicatissime
per il convivere civile, invece di attaccare i segretari comunali e,
sostanzialmente, bearsi della circostanza che l’attuale Governo ha ottenuto
quel risultato, l’eliminazione della figura del segretario, perseguito dalla
Lega della prima ora: quella dell’abolizione del segretario, appunto, del “concorso
padano”, degli insegnanti “che parlano in dialetto meridionale” e non vengono
capiti.
Il sospetto, quindi, che
articoli come quello commentato possano essere compulsati da qualche sms per
attivare la propaganda e non frutto di un’analisi autonoma è, per quanto, nel
caso di specie, sicuramente infondanto, lecito.
Ma, un Paese non può reggersi
con un sistema sociale, prima ancora che giuridico, nel quale sia abbia la
costante sensazione che un articolo di stampa sia finalizzato ad una certa
propaganda o un decreto, determina o qualsiasi atto di un dirigente cooptato
direttamene dalla politica persegua fini che non sono di interesse pubblico,
bensì solo di parte.
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