Prende sempre più piede l’ipotesi
bislacca, avanzata da alcuni sindacati, di ottenere aumenti salariali nella PA
a fronte dell’aumento dell’orario di lavoro settimanale da 36 a 38 ore.
Su Italia Oggi del 27 settembre,
da ultimo, è Massimo Battaglia, segretario generale Confsal-Unsa a rilanciare
l’idea: “I costi della proposta sarebbero finanziati in parte da risorse già
utilizzate, cioè la spesa per compensi da lavoro straordinario che a
oggi per l’intera P.A. ammonta a circa 2,5 miliardi di euro, e in parte da una
migliore organizzazione del lavoro. Il modello avrebbe il pregio di
cointeressare tutti i lavoratori con un incremento stabile delle retribuzioni,
le amministrazioni con una migliore organizzazione degli uffici attraverso una
maggiore disponibilità di tempo/uomo e il sistema economico, con aumento
della produttività di settore, e i cittadini con più servizi”.
Dunque, l’intuizione sarebbe,
sostanzialmente, rendere stabile il lavoro straordinario, sul presupposto che
un aumento delle ore di lavoro determinerebbe simmetricamente un aumento della
produttività.
Come sempre accade, purtroppo, si
parla di produttività senza sapere esattamente cosa significhi. Eppure è molto
semplice: è la capacità di incrementare il prodotto nella medesima unità di
tempo: invece che 10 bottoni in un’ora, 12 bottoni, sempre in un’ora. Se per
produrre 12 bottoni, si sta un’ora e 12 minuti, non aumenta per nulla la
produttività: aumenta solo l’orario e la produzione, ma il livello di
produttività resta assolutamente invariato.
Da sempre per il lavoro pubblico
si vaneggia di produttività, confondendola con un aumento delle ore/lavoro, che
produce, invece, l’effetto esattamente opposto: la diminuzione della
produttività, specie se tale incremento di fatto finisse per essere la
stabilizzazione dello straordinario, che porta con sé il pericolo di un
incremento di spesa ben superiore a quello teorizzato, perché comunque gli
straordinari verrebbero fatti anche oltre le 38 ore.
Che la produttività nel lavoro
pubblico sia da sempre un vaniloquio Lo ha scritto a chiarissime lettere e da
tempo la Corte dei conti (Sezioni Riunite in sede di controllo, Relazione 2011
sul costo del lavoro pubblico, cap. 6, par. 5): “È notorio quanto la
valutazione della produttività del settore pubblico sia oggetto di continui
studi ed approfondimenti, allo scopo di individuarne una o più chiavi di
lettura che rendano, quanto più possibile, oggettivi e condivisi i relativi
indicatori. Appare tuttavia opportuno rilevare, visti i numerosi rapporti che
intercorrono tra settore pubblico e privato, come sia più che plausibile
ipotizzare un’influenza reciproca sul livello di produttività e, in ultima
analisi, di entrambe sulla competitività del sistema. A tal scopo la seguente
figura 9 26 […] evidenzia come si sono evoluti, negli ultimi dieci anni, gli
indicatori macroeconomici della produttività e della competitività,
quest’ultima letta attraverso il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP)
27 […], entrambi misurati sul PIL, come indicati nei documenti di
programmazione economica e finanziaria. I dati del DEF 2011-2014 confermano la
situazione di difficoltà: per il 2010 la produttività viene stimata in lieve
ripresa ma sono previsti un calo della stessa nel 2011 (0,6%) ed una
sostanziale invarianza del CLUP. Da simili informazioni tuttavia non si
evince il peso che il livello di produttività del settore pubblico possa avere
nell’influenzare l’andamento di tali indicatori. Rimane tuttavia l’ipotesi
che un forte impulso positivo al sistema Italia possa essere dato proprio dalla
produttività del settore pubblico, una volta noti gli elementi cardine per
la sua, non solo misurazione, ma soprattutto valorizzazione e promozione”.
Insomma, il costo del lavoro per
unità di prodotto nella pubblica amministrazione non è conosciuto, nemmeno alla
Corte dei conti e, difatti, si continua a girare intorno alla “produttività” ed
ai sistemi di “valutazione”, senza mai cavare il ragno dal buco, giungendo alle
evanescenti indicazioni che forniscono Aran e Corte dei conti, a proposito di
salario di produttività, sui famosi “obiettivi sfidanti”: un parlare per
aggettivi e definizioni astratte e inutili, che non hanno capacità alcuna di
indicare esattamente quale valore aggiunto di produttività poter considerare ai
fini della valutazione.
La proposta di ridurre la
produttività ad un mero incremento orario appare quanto mai bislacca e frutto
di una concezione quanto mai asfittica dell’organizzazione del lavoro. Specie
in un’epoca come quella attuale, nella quale i servizi sempre più si
orienteranno verso il lavoro “agile”, nel quale la misurazione della permanenza
del lavoratore “alla macchina”, dentro al locale del datore, nella “metrica”
assumerà sempre meno rilevanza. Lo si è visto con le banche, lo si tocca con
mano con i servizi commerciali e di logistica on line. Moltissime attività non
necessitano più della presenza materiale dell’addetto in un luogo fisico, nel
quale erogarle utilizzando certi mezzi, certi strumenti in predefiniti tempi di
lavoro. Nella pubblica amministrazione questo potrebbe valere molto presto per
servizi amministrativi, come registrazioni di fatture, protocollo, messa a
disposizione di informazioni e certificazioni: i sistemi di scambio dati on
line, come la fatturazione elettronica, il domicilio digitale e la pec non
potranno che condurre ad un’impostazione del lavoro totalmente diversa,
nell’ambito della quale conterà il saper valutare medie produttive (quante
registrazioni compiere in un’unità di tempo dilatata e senza confini logistici:
una giornata) e non più determinare la produzione in relazione a quanto tempo
il datore vincola il lavoratore a destinare il proprio tempo di lavoro nella
permanenza in un certo luogo.
E’ come nella metafora del “bravo”
barista. Chi è davvero bravo? Quello che prepara 100 caffè e li mette sul
bancone, ma magari senza clienti? Oppure quello che vende 100 caffè ad
altrettanti avventori?
Ai fini della produttività può
anche essere utile misurare se il barista invece che 100 caffè ne metta sul
bancone 110, se lavora un’ora in più; ma se quei 110 caffè sono invenduti, l’aumento
di produzione ed orario (e stipendiale) non servirebbe davvero a nulla.
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