L’ex Ministro della Funzione
Pubblica Renato Brunetta dovrebbe essere contento. Tutto quello che ha seminato
in passato con la sua riforma, il d.lgs 150/2009, nonostante la nuova inquilina
di Palazzo Vidoni annunci una “riforma epocale” della pubblica amministrazione,
ha messo saldissime radici, inestirpabili.
I temi della “riforma epocale”
targata Madia, infatti, sono sempre gli stessi due: “fannulloni” (leggasi
normativa sugli accertamenti medici per gli assenti per malattia” e “performance”,
orrida parola per definire in un lemma solo il problema estremamente complesso
della valutazione della produttività nel lavoro pubblico.
Ovviamente, la riforma Madia
tutto è tranne che epocale e il rimestamento continuo di temi propagandati da
anni difficilmente farà fare anche un solo passo in avanti all’efficienza nella
PA: le esperienze passate delle altre “riforme epocali” (circa una quindicina)
che hanno preceduto la “riforma epocale” Madia, dovrebbe insegnare che se non
si cambia percorso, qualsiasi riforma che insista sempre sugli stessi argomenti
è destinata a lasciare la PA
dov’è. Con tutti i suoi problemi aperti: il che fa comodissimo, poi agli “inchiestisti”
e alla stampa generalista che può parlare ogni sei mesi di “riforma epocale” e
di “stretta per il pubblico impiego”: slogan un po’ vuoti, ma molto
accattivanti nelle arene chiassose delle televisioni.
Trascuriamo qui il versante delle
visite fiscali, evidenziando che rispetto al tema delle assenze per malattia l’unica
soluzione è un tutor personalizzato per ognuno dei 3 milioni dei dipendenti
pubblici: suggeriamo di affiancare a ciascun dipendente un pedinatore-medico,
che lo segua passo passo, in ogni momento della giornata. Sarebbe anche un’ottima
occasione per rilanciare l’occupazione in Italia.
Per quanto concerne, invece, i “premi”
per la produttività, dai giornali trapela la notizia: il Governo, d’accordo con
i sindacati sulla base dell’accordo prereferendario (che non è servito a molto)
del 30 novembre
2016 , aveva assunto l’impegno inderogabile di eliminare le
famigerate fasce di valutazione previste dal d.lgs 150/2009: quel meccanismo di
stampo dirigista secondo il quale il 50% delle risorse per i “premi” debbono
andare al 25% dei dipendenti; il restante 50% deve essere distribuito tra un
50% dei dipendenti, in modo che al restante 25% dei dipendenti non vada alcun
premio.
Ma l’impronta “brunettiana” a
Palazzo Vidoni è ancora troppo forte. Che nostalgia desta il sistema forzoso di
divisione dei dipendenti pubblici in capaci, mediocri ed incapaci. Dunque, pare
che la scelta non sarà proprio quella razionale di abbandonare per sempre,
annullandone il ricordo, un sistema forzato come quello delle fasce. A Palazzo
Vidoni l’idea che vi sia un 25% di dipendenti pubblici che si stagli rispetto a
tutti gli altri piace davvero tantissimo.
Quindi, l’idea è di ridurre le
fasce da tre a due. Nella prima andrebbe appunto il 25% dei dipendenti molto
bravi, ai quali distribuire il 50% dei fondi per la produttività; nella seconda
si assesterebbe il restante 75% del personale, al quale assegnare il rimanente
50% dei fondi.
La convinzione radicata e
inderogabile è che così solo si possa valorizzare i capaci, che si presumono
essere presenti appunto in una quantità del 25%: né il 24%, né il 26%, ma
proprio il 25%. Anche se la “limatura” delle percentuali dei fondi da assegnare
alle due fasce di dipendenti pare potrà essere di competenza dei contratti
collettivi decentrati aziendali.
Si sarebbe, per la verità, ancora
in tempo per scongiurare che vengano ripetute ancora una volta scelte
legislative esiziali. Basterebbe avere quel minimo di prudenza e cognizione dei
fatti, per comprendere che la forzatura negli esiti delle valutazioni è solo
fonte di problemi e non riesce in alcun modo a cogliere l’obiettivo voluto
della valorizzazione dei capaci.
Pensiamo alla questione delle
percentuali. Il Legislatore dispone dall’alto della sua torre d’avorio, incurante
delle dinamiche operative e gestionali. I “premi” dovrebbero essere una leva
esclusivamente gestionale, totalmente al di fuori di regole normative che non
siano connesse a soli limiti di finanza pubblica, lasciata al dirigente per
realizzare azioni di incentivazione mirate e anche diversificate a seconda
della dimensione dell’ufficio diretto, delle attività svolte e della stessa
misurabilità dei risultati previsti. La forzatura sugli esiti della
valutazione, più che dare come risultato un apprezzamento per il 25% dei
dipendenti con valutazioni più elevate, finirebbe per certo per demotivare il
rimanente 75% dei dipendenti. Il sistema immaginato, dunque, produrrebbe l’effetto
deleterio di una schiacciante maggioranza dei dipendenti che si sentirebbe
forzosamente considerata come mediocre e deprezzata. A tutto svantaggio della “managerialità”
e della “capacità di unire e motivare” che si chiede alla dirigenza.
In secondo luogo, il Legislatore
evidentemente non conosce le dinamiche della contrattazione decentrata nelle
amministrazioni pubbliche. La fissazione obbligatoria di fasce di valutazione
scatenerebbe con ogni certezza la micidiale richiesta sindacale di una “rotazione”
periodica dei dipendenti da inserire tra il 25% dei più efficienti, in modo
appunto da sedare in qualche misura il malcontento del restante 75% e fornire a
tutti la possibilità ogni tre anni circa di ricevere un premio più sostanzioso.
Ovviamente, simile richiesta non
sarebbe rituale e non rientrerebbe nemmeno nelle relazioni sindacali lecite,
visto che i contratti decentrati non debbono occuparsi della materia dell’individuazione
di “chi” possa ottenere la produttività. Ma, si potrebbe scommettere qualsiasi
cifra, che le organizzazioni sindacali chiederanno con insistenza meccanismi di
quel genere, adottando allo scopo ogni strumento ostruzionistico, ivi compresa
la mancata sottoscrizione dei contratti decentrati. Evento, questo, che, poi,
produce effetti assolutamente deleteri, come l’impossibilità di assumere la
spesa e la perdita delle risorse (o il rischio di danno erariale molto forte),
oppure la strada necessitata dell’atto unilaterale (che però l’accordo del 30
novembre vorrebbe si eliminasse) sostitutivo del contratto, dal quale però
deriverebbe un’ulteriore recrudescenza di relazioni sindacali compromesse. Ne
vale la pena?
Ancora, il Legislatore evidentemente
non tiene conto che non esiste, in realtà, un fondo unico della produttività. In
modi e misure molto differenziate, le amministrazioni frazionano il fondo in
tanti sub-fondi, assegnandoli alle strutture amministrative di vertice, allo
scopo di scongiurare i pericoli della disomogeneità delle valutazioni tra
dirigenti, da un lato, e di avvicinare la quantità delle risorse per premiare
la produttività al valore ipotetico dei progetti previsti dai piani di gestione
e anche a criteri di quantificazione del personale in dotazione. Non solo: vi
sono anche molte amministrazioni che attivano una produttività “collettiva”,
come prevedono i contratti collettivi, finalizzata ad incentivare gruppi di
lavoro. Anche in un gruppo di lavoro chiamato a conseguire un risultato di
gruppo e, dunque, complessivo e non individuale, si dovrebbe differenziare il
25% dal restante 75%? E se quelli davvero bravi fossero solo il 10%? E se,
invece, tutti avessero dato esattamente il massimo previsto dalla progettazione
operativa? E come gestire l’obbligatoria divisione tra 25% di bravi e 75% di
mediocri tra diversi fondi, se poi aggregando i dati magari quelle percentuali
non sono poi rispettate? Ancora una volta: ne vale la pena?
Infine, consigliamo vivamente al
Legislatore, convinto di riformare in modo “epocale” il lavoro pubblico con
piglio aziendalista ed utilizzando le “migliori pratiche” del “privato”, di
leggere il volume prodotto da Adapt “Il premio di risultato
nella contrattazione aziendale”. Si potrebbe scoprire che nel privato
sistemi forzati e dirigistici di assegnazione dei premi come quelli previsti
dal d.lgs 150/2009 e che verrebbero di fatto confermati dalla riforma “epocale”
Madia non li sognano nemmeno.
Il premio di risultato nel
privato è congegnato in modo estremamente semplice: i contratti decentrati
definiscono l’ammontare massimo che il datore è disposto ad assegnare ai
dipendenti, raggiunti pochissimi (di solito, al massimo 3) indicatori di produttività.
I premi sono assegnati in maniera trasversale pro capite, in modo
indifferenziato, perché si parte dalla logica che se l’azienda nel suo
complesso ottiene gli obiettivi preventivati, tutti hanno contribuito allo
scopo. Le differenziazioni tra dipendenti per lo più discendono dalla
misurazione della presenza in servizio: in generale i contratti prevedono che
oltrepassate alcune soglie di assenza, il premio viene progressivamente ridotto
secondo percentuali fissate sempre dalla contrattazione decentrata.
Le aziende non possono
permettersi il lusso né di attivare sistemi di valutazione bizantini e
complessi come quelli imposti dalla normativa, né di pagare Nuclei di valutazione
o Organismi Indipendenti di valutazione, né ancor meno di creare diffuso
malcontento tra i dipendenti.
Tra l’altro, le notizie che in
questi giorni diffondono i giornali forniscono indicazioni paradossali proprio
sulle assenze. Infatti, pare che la riforma (epocale, sia chiaro), allo scopo
di combattere l’assenteismo, prevederà l’obbligo di ridurre l’ammontare delle
risorse da destinare alla produttività, qualora il tasso delle assenze dei
dipendenti (dell’ente o di settori dell’ente? Non si è al momento in grado di
capirlo) risulti superiore a standard medi rilevati.
Pertanto, accade il surreale: nel
privato, le aziende definiscono un ammontare pro capite che “mettono in palio”
tra i dipendenti, chiarendo loro regole oggettive di riduzione progressiva
legati ad eventi di assenze individuali; invece, nel pubblico, avverrebbe il
paradosso che dipendenti molto presenti si vedrebbero comunque ridotto l’ammontare
del premio perché il tasso di assenza (causato da altri) potrebbe rivelarsi
troppo elevato. Con l’ulteriore assurdità che mentre si nega valore alla
valutazione collettiva di gruppo, insistendo sulle “pagelle” e la
differenziazione forzata in “bravi” e “mediocri”, si persegue, invece, un
risultato collettivo quando esso è negativo, invece di incentivare la presenza
sul lavoro con decurtazioni ai singoli dipendenti, programmate in base ad un
certo tasso di assenze individuali, come appunto avviene nel privato[1].
Non sarebbe molto difficile, per
favorire la differenziazione nelle valutazioni, imporre ai dirigenti formule
molto semplici: imporre di distribuire quanto più possibile la forcella dei
punteggi disponibili per la valutazione (se si dirigono 30 dipendenti,
richiedere che vi siano almeno 10 livelli di range); o anche, convincere Corte dei conti, Mef ed Aran che il
sistema del “privato” sulle presenze è utilizzabile e giustificabile e ridurre
i premi in considerazione delle assenze individuali di servizio; o, ancora, puntare
alla valorizzazione di alcuni dipendenti che si distinguano particolarmente,
abbandonando per sempre l’idea delle “fasce”, ma migliorando la funzionalità di
un istituto già esistente e anch’esso previsto dalla riforma Brunetta: il “bonus
annuale delle eccellenze” attualmente previsto dall’articolo 21 del d.lgs
150/2009, utilizzando allo scopo una quota obbligatoria delle risorse destinate
alla produttività (sia che sia finanziata solo dalla parte fissa dei fondi del
salario accessorio, sia che sia finanziata anche dalle risorse di parte
variabile).
Ovviamente, molte altre
potrebbero essere le misure per rendere la valutazione una cosa, finalmente, ad
un tempo seria e semplice e realmente incentivante. Dovremo aspettare altre
decine di “riforme epocali” per capire quello che nel “privato”, sempre
inseguito e sempre pessimamente scimmiottato, hanno capito da sempre?
[1] Per un ulteriore più
snello approfondimento sul rilievo della presenza ai fini della valutazione nel
privato, si veda L. Oliveri “Premiare
la presenza: il privato non è (giustificatamente) d’esempio”.
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