Ormai il “decreto enti locali”
è divenuto un appuntamento fisso, come la legge di bilancio e il
decreto “milleproroghe”.
Da quando il Governo propone e il
Parlamento accetta riforme e varie manovre finanziarie, destinatari
privilegiati di interventi sulle finanze sono appunto gli enti
locali. Sempre coinvolti in vario modo con leggi e disposizioni tali
da rendere regolarmente estremamente difficile la quadratura dei
conti. Che, infatti, non tornano mai.
Dal 1990, data di entrata in
vigore della riforma degli enti locali con la legge 142, solo una
volta si rispettò la data normativamente prevista per l’approvazione
del bilancio di previsione. Poi, solo rinvii, per 26 volte.
Con l’Ici ripetutamente abolita
e reintrodotta, poi trasformata in Iuc, poi in Imu, la Tar, la Tasi,
la nuova abolizione, la previsione di trasferimenti statali
compensativi che invece giungono in ritardo (vedi il caso Torino) o
comunque sono insufficienti rispetto ai mancati introiti, o riforme
come quella delle province buone solo per mandare in default ex lege
centinaia di enti, il mondo degli enti locali è troppe volte una
sorta di bancomat, del quale le maggioranze di ogni colore si servono
per operazioni di politica economica, comunque mai sufficienti e mai
nella direzione giusta o risolutiva.
I “tagli” o le abolizioni di
imposta e dunque di entrate, si rivelano regolarmente eccessivi e
capaci solo di incidere sia sugli equilibri di bilancio (resi
difficilissimi dalla complessità estrema della nuova contabilità
introdotta dal d.lga 118/2011), sia, soprattutto, sulla qualità dei
servizi rivolti ai cittadini, con asili nido, mense, scuole primarie,
strade, mezzi pubblici, qualità dell’aria, servizi sociali
progressivamente di qualità inferiore e con costi di
compartecipazione, tasse e tariffe superiori.
Dunque ormai da oltre un lustro,
si adotta la tattica di Penelope: ciò che viene disposto con le
leggi di stabilità o, comunque, varie manovre finanziarie e riforme,
tendenti in linea generale a tagliare risorse, abolire enti, abolire
o congelare entrate, viene disfatto poi mesi o anni dopo, in
particolare appunto col “decreto enti locali”. Una sede nella
quale ci si accorge improvvisamente degli effetti negativi di manovre
finanziarie avventate, poste in essere regolarmente senza dare bada
ai pareri dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, della Corte dei
conti e dei Servizi studi di Camera e Senato, sempre attentissimi
nell’indicare appunto le conseguenze negative ampiamente
prevedibili delle manovre, ma puntualmente ignorate dal Governo che
impone al Parlamento voti di fiducia tali da eliminare ogni possibile
dibattito finalizzato a correggere manovre e riforme in corsa.
Il “decreto enti locali” 2017
ha molte ambizioni. Per esempio dovrebbe coprire l’ammanco di 651
milioni necessari per evitare che le province saltino tutte per aria.
Il Sose, la società che nel 2014 giustificò con alambicchi e
provette il taglio di 3 miliardi a regime sulla spesa corrente delle
province, nel frattempo già scesa da 11 miliardi a 8 tra il 2011 e
il 2014 (di oltre il 30%, percentuale mai vista per le altre
amministrazioni che se fosse stata solo sfiorata dalle
amministrazioni centrali non vi sarebbero più problemi di deficit e
debito pubblico), si è accorta nel 2017 che le stime di tre anni
prima erano azzardate. Un’epifania che ovviamente il Sose ha
realizzato buon ultimo, perché lo sapevano proprio tutti da anni
dell’insostenibilità dei prelievi forzosi imposti alle province
dalla legge 190/2014, pensata per forzare la mano dell’applicazione
della fallimentare legge Delrio. Norma, è bene ricordarlo sempre,
che ha inciso su un ente costitutivo della Repubblica “in attesa”
della riforma della Costituzione mai entrata in vigore, perché
respinta con perdite dai cittadini.
Altra riforma, altre necessità
indotte. Bisogna sempre ricordare il d.l. 90/2014, la prima “riforma
Madia”, quella che avrebbe dovuto introdurre la “staffetta
generazionale” e sbloccare una volta per tutte le assunzioni, con
una progressione trionfale: il 60% del costo del turn over nel 2014 e
2015; il 60% tra 2016 e 2017; il 100% nel 2018!
Ovviamente, non se n’è fatto
nulla. La “staffetta generazionale” è rimasta quello che era,
cioè uno slogan. Il turn over è stato subito bloccato
dall’attuazione della riforma delle province. Ma, in ogni caso, non
ci sarebbe stato spazio alcuno per una reale crescita del numero dei
dipendenti in servizio, né negli enti locali, né nella PA in
generale. Grazie proprio ai limiti delle assunzioni ed al blocco dei
contratti, la spesa del personale è scesa in pochi anni, dal 2006 al
2011 da 175 a 163 miliardi di euro ed immaginare una loro risalita è
ovviamente problematico, considerando le esigenze di finanza
pubblica.
In ogni caso, come noto, il turn
over è inchiodato al 25% del costo dell’anno precedente, salendo
al 75% solo per gli enti con popolazione inferiore a 10.000 abitanti
e se “virtuosi”.
Gli enti locali vorrebbero
l’aumento di queste percentuali. Ma, l’impegno assunto con i
sindacati di sbloccare i contratti con un incremento medio di 85 euro
comporta una spesa di circa 5 miliardi, il cui reperimento risulta
estremamente difficile.
Un decreto enti locali, quindi,
che trovi 651 miliardi per le province e altre centinaia per lo
sblocco del turn over auspicato dai comuni risulta estremamente
difficile. I rinvii servono anche per rivedere le carte, le tabelle,
approvare il Def, auspicare che la Ue ammorbidisca i propri
orientamenti e vedere se con i sindacati sia possibile magari qualche
soluzione che valorizzi gli 85 euro non necessariamente in moneta
sonante. Aspettiamo Godot.
651 milioni
RispondiEliminacercasi 651 milioni disperatamente......Poi si lamentano che i comuni vanno in dissesto per i numeri inventati....abbiamo avuto un ottimo insegnante. Uno Stato che quadra i bilanci a "martellate" con i numeri direttamente presi da Lottomatica....per poi scoprire a distanza di anni tali ammanchi...
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