Il Parlamento cerca
di porre rimedio al pasticcio delle nomine dei direttori dei musei, con un
emendamento approvato in commissione bilancio all’articolo 22 del disegno di
legge di conversione del d.l. 50/2017 (del tutto estraneo alla materia, perché è
la manovrina di bilancio), di cosiddetta “interpretazione autentica”.
Ecco il
testo:
“L’articolo 14, comma 2-bis, del decreto-legge 31 maggio 2014, n. 83,
convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2016, n. 106, e successive
modificazioni, si interpreta nel senso che alla procedura di selezione pubblica
internazionale non si applicano i limiti di accesso di cui all’articolo 38 del
decreto legislativo 31 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni”.
Cos’è interpretazione autentica?
L’interpretazione, cioè l’individuazione del corretto significato delle norme e
la comprensione dei loro effetti, è affidata in termini generali ai giudici,
che la compiono attraverso le sentenze, allo scopo di regolare i rapporti tra
le parti in causa; le interpretazioni giurisprudenziali spesso finiscono per
essere la chiave di lettura diffusa e generale per comprendere in modo
condiviso la volontà del legislatore.
Talvolta, l’operazione interpretativa
è compiuta direttamente dal legislatore, che emana norme al preciso scopo di
chiarire il significato di norme preesistenti, una volta constatati contrasti
interpretativi molto forti anche in giurisprudenza, che consiglino un
intervento chiarificatore proveniente direttamente dal legislatore stesso.
L’interpretazione autentica,
quindi, è estremamente importante perché ha efficacia erga omnes, vale cioè come indicazione generale ed astratta per
tutti e, dunque, dirime in modo ultimativo le questioni interpretative,
indicando qual, è l’interpretazione “vera”, unica da seguire.
E’ un potere proprio del
legislatore, che ha assoluta libertà ed autonomia di imporre la lettura dal
legislatore stesso considerata corretta di una norma di incerta applicazione.
Andando, dunque, al caso concreto
della selezione per i direttori dei musei, laddove il Parlamento approvasse una
norma di interpretazione autentica, lo farebbe certamente esercitando un potere
che gli è proprio.
Tuttavia, sempre nel caso di
specie, ci sono molti aspetti, alcuni tecnico-giuridici, altri di opportunità,
che proprio non vanno. Proviamo ad evidenziarli.
Sul piano tecnico, l’emendamento
contiene un errore, comunque facilmente correggibile; la legge di conversione
del d.l. 83/2014 non è la 106 del 2016, ma la 106/2014.
Sempre sul piano tecnico, si
pone un problema molto più grave: verificare se, davvero, la norma sia solo di
interpretazione autentica o no. Nel primo caso, oltre ad avere efficacia erga omnes, avrebbe efficacia anche
retroattiva, con la possibilità quindi di azzerare gli effetti della sentenza
del Tar Lazio che ha annullato 5 delle 20 nomine di direttori dei musei. Se non
si trattasse, però, di vera e propria norma di interpretazione autentica, i
problemi risulterebbero ancora irrisolti.
Ora, perché una norma sia di “interpretazione”,
non deve aggiungere nulla alla norma interpretata, ma solo indicarne la chiave
di lettura.
Non pare che l’emendamento
faccia questo. L’intento è certamente quello di derogare all’articolo 38, comma
1, del d.lgs 165/2001, consentendo l’apertura espressa della selezione a
cittadini non italiani, indicando che tale deroga è da leggere implicitamente
nel contenuto dell’articolo 14, comma 2-bis, del decreto Franceschini.
Allora, occorre leggere nella
seguente tabella l’articolo 14, comma 2-bis, affiancato alla proposta di legge
di interpretazione autentica:
Art. 14, comma 2
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Proposta di interpretazione autentica
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Al fine di adeguare l’Italia agli standard internazionali in materia di musei
e di migliorare la promozione dello sviluppo della cultura, anche sotto il
profilo dell’innovazione tecnologica e digitale, con il regolamento di cui al
comma 3 sono individuati, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza
pubblica e nel rispetto delle dotazioni organiche definite in attuazione del
decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla
legge 7 agosto 2012, n. 135, i poli museali e gli istituti della cultura
statali di rilevante interesse nazionale che costituiscono uffici di livello
dirigenziale. I relativi incarichi possono essere conferiti, con procedure di selezione pubblica, per
una durata da tre a cinque anni, a persone di particolare e comprovata
qualificazione professionale in materia di tutela e valorizzazione dei beni
culturali e in possesso di una documentata esperienza di elevato livello
nella gestione di istituti e luoghi della cultura, anche in deroga ai
contingenti di cui all’articolo 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo
2001, n. 165, e successive modificazioni, e comunque nei limiti delle
dotazioni finanziarie destinate a legislazione vigente al personale
dirigenziale del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.
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L’articolo 14, comma 2-bis,
del decreto-legge 31 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla
legge 31 luglio 2016, n. 106, e successive modificazioni, si interpreta nel
senso che alla procedura di selezione
pubblica internazionale non si applicano i limiti di accesso di cui
all’articolo 38 del decreto legislativo 31 marzo 2001, n. 165, e successive
modificazioni.
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Chiunque si può facilmente
accorgere che l’articolo 14, comma 2-bis, non parla nella maniera più assoluta
di “procedura di selezione pubblica internazionale”. E’ la proposta di
interpretazione autentica che introduce questa locuzione nell’articolo del
decreto Franceschini.
Dunque, sul piano
tecnico-giuridico, se il testo rimane così, non è affatto una norma di interpretazione
autentica, ma di modifica dell’articolo 14, comma 2-bis. Ma, poiché la legge
non può avere effetti retroattivi, allora questa modifica potrebbe valere solo
per il futuro e, dunque, rimanere totalmente ininfluente sulla sentenza del Tar
Lazio. Una lettura di simile norma quale interpretazione autentica la espone a
rilievi di illegittimità incostituzionale, che è sperabile vengano risparmiati.
Ma, ammettiamo anche che si
tratti davvero di una vera e propria norma di interpretazione autentica,
capace, quindi, di rendere inutili ricorsi al Consiglio di stato contro la
sentenza del Tar Lazio e, quindi, di “salvare” gli incarichi annullati.
Sempre sul piano
tecnico-giuridico, occorre avvertire che, in realtà, l’interpretazione
autentica non salverebbe nulla comunque. Infatti, il Tar Lazio ha evidenziato
tre distinti vizi di legittimità delle nomine:
1)
uno, quello connesso al possesso o meno della
cittadinanza italiana;
2)
quello riferito ai colloqui svolti a porte chiuse, in
spregio a qualsiasi norma sui procedimenti selettivi e concorsuali pubblici;
3)
quello riferito all’illogicità del bizantino sistema di
assegnazione dei punteggi ai candidati.
Anche se si risolvesse la
questione connessa alla cittadinanza, rimarrebbero in piedi le altre due, per
altro sicuramente proprio quelle riferite ai vizi di legittimità maggiormente
gravi.
In ogni caso, sul piano dell’opportunità
si è portati a queste considerazioni. In primo luogo, appare del tutto evidente
che l’emendamento approvato dalla Commissione bilancio della Camera è l’ammissione
che sul punto relativo all’illegittimità della procedura selettiva relativo
alla cittadinanza italiana, il Tar ha correttamente operato.
Se, infatti, si fosse del tutto
sicuri di un’erronea interpretazione del Tar Lazio, basterebbe attendere con
tetragona fiducia la sospensiva e poi la riforma della sentenza da parte del
Consiglio di stato. E’ chiaro che questa fiducia non c’è e, comunque, non è
affatto tetragona.
Il legislatore ha stabilito,
come nei suoi poteri (anche se, per l’ennesima volta, male esercitati per
quanto visto sopra), di intervenire esattamente allo scopo segnalato dal Tar
Lazio, quando nella sentenza 6171 scrive: “la
deroga legislativa in questione non
estende la sua potenzialità di previsione speciale costituente eccezione alla
regola generale fino a raggiungere e derogare anche la previsione dell’art. 38
del d.lgs. 165/2001, in particolare nella parte in cui al comma 1
(modificato da ultimo dall'art. 7, comma 1, lett. a), l. 6 agosto 2013, n. 97),
estendendo ai cittadini comunitari e, in alcuni casi, non comunitari (e, più
precisamente, “…ai cittadini di Paesi terzi che siano titolari del permesso di
soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o che siano titolari dello
status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria …”, per come
specifica il comma 3-bis dello stesso articolo, aggiunto dall’art. 7, comma 1,
lett. b, della l. 97/2013 e poi modificato dall'art. 3, comma 1, d.lgs. 13
febbraio 2014, n. 12), l’accesso ai ruoli di impiego nelle Pubbliche
amministrazioni, stabilisce che “I cittadini degli Stati membri dell'Unione
europea e i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che
siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente
possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non
implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non
attengono alla tutela dell'interesse nazionale”, se non altro perché l’art. 38 del d.lgs. 165/2001 non è citato nel corpo
dell’art. 14, comma 2-bis, del d.l. 83/2014, convertito in l. 106/2014”;
e prosegue con ancor maggiore chiarezza: “In
argomento si è già detto al punto 5 della presente decisione, rammentando come
le disposizioni speciali introdotte dall’art. 14, comma 2-bis, del d.l.
84/2014, convertito in l. 106/2014, non
si sono spinte fino a modificare o derogare l’art. 38 d.lgs. 165/2001.
Infatti, solo tale operazione avrebbe potuto consentire, in disparte ogni
valutazione di compatibilità costituzionale, l’ammissibilità di cittadini
non italiani di partecipare alle selezioni per l’assegnazione di un incarico di
funzioni dirigenziali in una struttura amministrativa nel nostro Paese (posto
che l’incarico in questione è caratterizzato - per quanto si è più sopra
approfondito e verificato con riferimento al contenuto della lex specialis di
concorso – proprio dall’esercizio di tali funzioni dirigenziali, peraltro
puntualmente ed inequivocabilmente esemplificate nell’art. 1, comma 2, del
bando).
Deve quindi affermarsi che il
bando della selezione qui oggetto di contenzioso non poteva ammettere la
partecipazione al concorso di cittadini non italiani in quanto nessuna norma
derogatoria consentiva al MIBACT di reclutare dirigenti pubblici al di fuori
delle indicazioni, tassative, espresse dall’art. 38 d.lgs. 165/2001.
D’altra parte, il chiaro tenore letterale della stessa disposizione
speciale di cui all’art. 14, comma 2-bis, qui più volte citata, come appare
evidente dal semplice confronto tra il primo ed il secondo periodo, non
consente diverse interpretazioni.
Il carattere “internazionale” è previsto dal primo periodo solo in
relazione agli “standard” che devono essere perseguiti dal MIBACT in materia di
musei (nell’esercizio della relativa potestà regolamentare a tal fine
espressamente attribuitagli dalla norma stessa), ma non anche in relazione alle
“procedure di selezione pubblica”, previste dal secondo periodo per il
conferimento degli incarichi di direzione dei poli museali e degli istituti di
cultura statali di rilevante interesse nazionale.
Il perseguimento di tali obiettivi deve dunque essere realizzato con
procedure di selezione pubblica che non sono “internazionali”. Se infatti il legislatore avesse
voluto estendere la platea degli aspiranti alla posizione dirigenziale in esame
ricomprendendo anche cittadini non italiani lo avrebbe detto chiaramente,
per come è dimostrato dal chiaro tenore di cui al primo periodo della citata
previsione”.
Insomma, il Tar si limita ad
osservare che era compito del legislatore disporre una deroga chiara all’articolo
38, comma 1, del d.lgs 165/2001 (che non consente di attribuire a stranieri incarichi
comportanti l’esercizio di poteri pubblici, quali sono tutti gli incarichi
dirigenziali gestionali, nei quali rientrano le direzioni dei musei). Se il
legislatore vi provvede, con una norma di interpretazione autentica (per quanto
mal concepita) non fa altro che sottolineare la fondatezza e correttezza dell’operato
del Tar.
Il che induce ad esprimere
ragionati dubbi sull’opportunità degli attacchi alla stessa istituzione Tar:
sfugge quale senso abbia affermare che sia necessario “cambiare i Tar” se, poi,
il Parlamento produce una norma che va esattamente nella direzione indicata
dalla sentenza del Tar…
Qualcuno afferma, però, che il
Tar Lazio è stato “cavilloso”, perché i principi del Trattato fondativo dell’Unione
Europea, che impongono la libera circolazione dei lavoratori, potevano, col
buon senso, considerarsi disapplicativi dell’articolo 38, comma 1, del d.lgs
165/2001; in questo senso, qualcuno sostiene che addirittura l’Italia è
obbligata ad estendere sempre e comunque i concorsi e le selezioni, anche per
dirigenti, a cittadini Ue.
Le cose non stanno così. Non è
corretto, in primo luogo, ritenere che sull’Italia, così come su ogni altro
Stato membro della Ue, incomba l’obbligo di aprire le procedure selettive di
soggetti chiamati ad esercitare pubblici poteri anche a non cittadini interni.
Lo conferma la lettura piana e chiara dell’articolo 45 del Trattato:
“1. La libera circolazione dei
lavoratori all'interno dell'Unione è assicurata.
2. Essa implica l'abolizione di
qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli
Stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione e le altre
condizioni di lavoro.
3. Fatte salve le limitazioni
giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità
pubblica, essa importa il diritto:
a) di rispondere a offerte di
lavoro effettive;
b) di spostarsi liberamente a
tal fine nel territorio degli Stati membri;
c) di prendere dimora in uno
degli Stati membri al fine di svolgervi un'attività di lavoro, conformemente
alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano
l'occupazione dei lavoratori nazionali;
d) di rimanere, a condizioni che
costituiranno l'oggetto di regolamenti stabiliti dalla Commissione, sul
territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego.
4. Le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli
impieghi nella pubblica amministrazione”.
Come si nota, il comma 4 dell’articolo
in questione esclude in modo chiarissimo l’applicazione dei principi di libera
circolazione dei lavoratori proprio agli impieghi nella pubblica
amministrazione.
Dunque, la conclusione è una
sola: gli Stati membri non hanno nessun obbligo di aprire le procedure
concorsuali riguardanti posizioni che comportino l’esercizio di poteri pubblici
a cittadini non residenti.
Se questo non risultasse chiaro,
ce lo spiega la Corte di giustizia della Ue, Sezione seconda, sentenza 10
settembre 2014, nella causa C‑270/13: “la
Corte ha già dichiarato che la nozione
di «pubblica amministrazione» ai sensi dell’articolo 45, paragrafo 4, TFUE
riguarda i posti che implicano la
partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri e alle
mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato
o delle altre collettività pubbliche e presuppongono
pertanto, da parte dei loro titolari, l’esistenza di un rapporto particolare di
solidarietà nei confronti dello Stato nonché la reciprocità dei diritti e
doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza (v.,
in particolare, sentenze Commissione/Grecia, C‑290/94, EU:C:1996:265, punto 2,
e Colegio de Oficiales de la Marina Mercante Española, EU:C:2003:515, punto 39)”.
L’articolo 38, comma 1, del
d.lgs 165/2001, dispone: “I cittadini
degli Stati membri dell'Unione europea e i loro familiari non aventi la
cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o
del diritto di soggiorno permanente possono
accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non
implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non
attengono alla tutela dell'interesse nazionale”. Come si nota, detto
articolo è totalmente rispettoso del Trattato come interpretato dalla Corte di
giustizia. Ergo, non esiste alcun obbligo di aprire procedure come quelle per
la selezione dei direttori dei musei a cittadini stranieri e, come affermato
dal Tar Lazio e, come confermato dalla proposta di interpretazione autentica,
spettava al legislatore disporre, come nei propri poteri, una deroga chiara ed
espressa all’articolo 38, comma 1, citato.
Tale deroga, a suo tempo, non è
stata disposta in modo così chiaro, nonostante i tranquillizzanti pareri resi,
a suo tempo al Ministro Franceschini dai capi dell’ufficio legislativo, come ha
rivelato sul Corriere della sera del 27 maggio, Sergio Rizzo. Un articolo,
quello, teso ad evidenziare che “i giudici sono gli stessi”, cioè magistrati
amministrativi giudicanti e magistrati amministrativi chiamati a svolgere la
funzione di capi degli uffici legislativi ministeriali, ma “i giudizi diversi”,
in una chiave di lettura davvero contorta: i giudici giudicanti agiscono come
potere totalmente separato da quello legislativo, dovendo obbedire solo alla
legge; i magistrati incaricati di incarichi dirigenziali (per altro, fiduciari)
nei ministeri, si mettono in aspettativa e non esercitano funzioni giudicanti.
In ogni caso, resta da capire se Rizzo riterrà opportuno un suo intervento nel
quale sottolineare che “il Parlamento e il Governo sono gli stessi”, ma le
leggi che approvano “sono diverse”, visto che per arrivare ad abbozzare (in
malo modo) una deroga espressa all’articolo 38, comma 1, del d.lgs 165/2001, c’è
voluta la sentenza del Tar Lazio. Forse, era meglio pensarci prima. Forse, la
causa di questo bailamme, allora, non è affatto il Tar, ma la fretta e anche,
si consenta, l’eccessiva fiducia in se stessi, di chi scrive norme che si rivelano,
poi, di interpretazione molto complicata.
La sua analisi conferma che il vero, grande male della pubblica amministrazione italiana oggi é rappresentato dalla superficialità (spesso consapevole, in quanto prona ad interessi politici e/o politico-economici) e dall'incompetenza con cui molti mezzi di informazione diffondono informazioni distorte, alimentando nell'opinione pubblica una percezione sbagliata dell'agire amministrativo. Grazie per il suo costante contributo affinché la verità non vada dispersa nell'oceano della disinformazione.
RispondiEliminaLa faccenda è stata finora presentata come una contesa tra TAR e Ministero, dimenticando che ci sono situazioni di privati ricorrenti che sono coinvolte. Credo che l'interpretazione autentica in corso di causa violi almeno due principi costituzionali: "Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi" (art 24) e ""I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione" (art 97). Se un cittadino vede lesa dal Governo la sua situazione giuridica soggettiva, e ricorre a un tribunale per tutelarla, il Governo che abusa della sua posizione di vantaggio per modificare la legge in suo favore viola certamente il diritto di difesa. L'obbligo di imparzialità in capo alla PA implica anche che essa non può intervenire nella contesa tra direttori dei musei nominati, soggetti esclusi, e Ministro responsabile. Siamo di fronte a una grande invasione di campo della politica nell'autonomia del sistema giudiziario, ed è una cosa gravissima. Troppe volte è già avvenuto che venissero emanate misure ad hoc per favorire questo o quell'organismo dello Stato (per esempio il CSM), ma ormai siamo alla totale esautorazione. A che serve un giudice della correttezza dell'Amministrazione, se poi l'Amministrazione può bypassarlo?
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